Saggio di redazione
Saggio di redazione
ARCHITETTURA
L’architettura High Tech
Sviluppatosi negli anni Settanta dello scorso secolo e ispirato nel nome al libro di Joan Kron e Suzanne Slesin High-Tech: The industrial Style and Source Book for the Home (1978), questo stile – anche definito «tardo modernismo» – sfrutta le innovazioni tecnologiche per tentare di limitare la monotonia di molta parte dell’architettura del Novecento. La standardizzazione edilizia, tipica di vari quartieri residenziali e periferici sorti dopo la seconda guerra mondiale in alcuni grandi centri urbani (di cui l’Italia detiene un triste primato), è in parte dovuta alla lezione del pur geniale Le Corbusier: all’architetto e urbanista francese, infatti, spettano sia l’ideazione di edifici in cemento armato modulare in grado di consentire una produzione in serie omogenea e ripetitiva, come dimostra il progetto del Plan Voisin per Parigi (1925), un quartiere immerso nel verde con unità abitative costituite da grattacieli cruciformi, sia la definizione di tali novità costruttive nell’importante compendio teorico La ville radieuse (1935), in cui veniva affermato con ingenuo ottimismo che nella «città di domani […] sarà ristabilito il rapporto uomo-natura».
Alla base dell’architettura High Tech vi sono naturalmente la tecnica e la tecnologia, con tutte le infinite possibilità che esse possono offrire; l’industria, a tale proposito, con il suo multiforme campionario di oggetti prodotti o ri-prodotti con qualsiasi tipologia di materiale, costituisce una miniera inesauribile di spunti sempre nuovi e costantemente riutilizzabili.
Incunabolo di questo stile è con ogni probabilità il Centre Pompidou di Parigi (1971-77), realizzato da Renzo Piano (1937) e Richard Rogers (1933) per lo più negli anni del presidente francese Georges Pompidou (da cui il nome): in tale edificio, contrassegnato dalla suggestiva compenetrazione tra spazio esterno e spazio interno, tutti gli elementi architettonici sono rigorosamente e provocatoriamente a vista, finanche quelli più strutturali o funzionali quali le scale mobili o i condotti di ventilazione.
Piano e Rogers sono tra i massimi esponenti dell’architettura High Tech e tra i più grandi architetti in assoluto della seconda metà del XX secolo. Formatosi insieme con Franco Albini, caratterizzato da uno stile originale sempre attento alle preesistenze del luogo dell’intervento, Piano si è occupato sin dai primi anni di attività delle più svariate forme di architettura e urbanistica, realizzando indifferentemente progetti per grandi impianti sportivi (stadio comunale di Bari, 1987-90), per la riqualificazione di centri storici urbani o aree consimili (porto antico di Genova, 1981), per istituti culturali (Auditorium di Roma, 1994-2002; High Museum of Art di Atlanta, 2005; Pierpont Morgan Library di New York, 2006) o per il rinnovamento di zone urbane nevralgiche (Potsdamer Platz a Berlino, 1992-2000; New York Times Building, 2007).
Quanto a Rogers, si ricordano tra i suoi ultimi progetti il palazzo di Giustizia a Bordeaux (1993-98), gli uffici della Daimler Benz in Potsdamer Platz a Berlino (1994-98), lo spettacolare centro espositivo O2 a Londra (già noto con il nome di Millennium Dome) (1997-99) e le nuove strutture dell’aeroporto di Madrid-Barajas (2006).
Altrettanto geniale si rivela l’apporto all’architettura contemporanea fornito dall’inglese Norman Foster (1935), formatosi a contatto con l’architetto e designer statunitense Richard Buckminster Fuller. Tra i suoi lavori più recenti, in cui le strutture si sviluppano con uno straordinario senso di leggerezza, si ricordano la sede della Commerzbank a Francoforte sul Meno (1991-97), quella della Obunsha Corporation di Tokyo (1991-93), il Chek Lap Kok Airport di Hong Kong (1992), il progetto per il Museum of Fine Arts a Houston in Texas (1992) e per la Gare d’Austerlitz a Parigi (1993), la fondamentale ridefinizione del Reichstag di Berlino (1993-99) e alcuni spettacolari edifici o interventi urbanistici a Londra, quali il Millennium Bridge (1996-2000) e il 30 St Mary Axe (2004).
Tra gli altri grandi esponenti dell’architettura High Tech merita citare l’inglese Nicholas Grimshaw (1939), autore dell’originale Eden Project a Saint Austell in Inghilterra (1996-2001), la cui struttura si fonde con il paesaggio circostante e dove vengono suggestivamente simulati biomi di varie zone del pianeta; il tedesco Helmut Jahn (1940), celebre per aver realizzato il Sony Center di Berlino (1995-2000), tra i più significativi edifici del complesso di Potsdamer Platz; il francese Jean Nouvel (1945), tra le cui varie opere si ricordano le gallerie Lafayette a Berlino (1991-96), la Fondazione Cartier a Parigi (1991-94), il centro congressi a Lucerna (1992-99), l’ampliamento del Museo Reina Sofia a Madrid (2001), la torre Agbar a Barcellona (2001-03) e il Musée du quai Branly a Parigi (2006).
La «scuola giapponese»
Un posto di grande rilievo nell’architettura a cavallo tra i due secoli lo occupa la scuola di architetti e urbanisti provenienti dal Giappone, caratterizzata dalla costante ricerca di contaminazione tra elementi naturali ed elementi artificiali e dalla sperimentazione spinta fino ai limiti del parossismo.
Maestro riconosciuto della scuola giapponese, già molto attivo nel primo dopoguerra, quando la sua formazione si è arricchita con l’approfondimento dell’opera di Le Corbusier e con un periodo di insegnamento negli Stati Uniti presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology), Kenzo Tange (1913-2005) ha concepito l’architettura come una sorta di unicum con la città e con i suoi spazi in continuo mutamento. Tra i suoi ultimi lavori, nei quali si avverte una decisa influenza dello stile internazionale, vanno menzionati la sede del Fuji-Sankei Communications Group di Tokyo (1991), il municipio di Imbari (1992), il Teletech Park di Singapore (1994), il Centro Direzionale di Napoli (1987-95), la sede della BMW e la torre AGIP a San Donato Milanese (1998-99), il Tokyo Dome Hotel (2000).
Allievo e collaboratore di Tange, Arata Isozaki (1931) è stato a sua volta profondamente affascinato dalla lezione dell’ultimo Le Corbusier. Architetto versatile, in grado di spaziare dalle strutture tradizionali a quelle di matrice più spiccatamente modernista e postmodernista, durante la prima metà degli anni Novanta Isozaki ha sviluppato una produzione contrassegnata da un ricercato equilibrio e da un notevole senso geometrico, come dimostrano il Museo di arte contemporanea di Nagi (1991-94) e il Museo di La Coruña in Spagna (1993-95). Tra i suoi lavori recenti, oltre al progetto per la «Città miraggio» di Haishi (presentato e accolto con favore alla Biennale di Venezia del 1996), si citano il complesso per convegni ed esposizioni di Shizuoka (1993-98), il Museum of Contemporary Art di Los Angeles (2003) e il Palasport per le Olimpiadi invernali di Torino (2006).
Architetto autodidatta, fortemente influenzato dal tardo Le Corbusier e dall’architettura volta a riscoprire l’archetipo delle forme dell’americano Louis Kahn, Tadao Ando (1941) ha preso le mosse da uno stile minimalista in cui l’edificio – spesso privo di aperture verso l’esterno – è concepito per fondersi idealmente con l’ambiente circostante, in cui gli elementi naturali della luce e dell’acqua diventano assoluti protagonisti con cui confrontarsi e da cui trarre ispirazione (chiesa sull’acqua a Hokkaido, 1988; chiesa della luce a Osaka, 1989).
A partire dagli anni Novanta, come dimostrano i casi del padiglione giapponese all’Expo di Siviglia (1992), il centro di ricerca Fabrica della Benetton a Villorba presso Treviso (1992-96), il Fine Arts Garden di Kyoto (1994), la Toto Seminar House a Hyogo (1994-97), il Daylight Museum di Shiga (1997-98) e la Sunday School di Osaka (1999), la ricerca di Ando si è indirizzata verso la sintesi e le innovazioni tecnologiche. Tra i maggiori progetti realizzati nel nuovo millennio, in cui Ando ha saputo coniugare il rispetto per le preesistenze e per l’ambiente naturale con l’uso disinvolto delle nuove tecniche costruttive, vanno ricordati il Modern Art Museum of Fort Worth in Texas (2002), il Chichu Art Museum di Naoshima in Giappone (2004) e i nuovi interni disegnati per palazzo Grassi a Venezia (2006).
Il decostruttivismo
Corrente nata nella scia delle teorie del poststrutturalista francese Jacques Derrida, il decostruttivismo (o decostruzionismo) ha mutuato il proprio nome dalla mostra Deconstructivist Architecture organizzata nel 1988 al Museum of Modern Art di New York da Philip Johnson e Mark Wigley, sebbene già nel 1980 il grande storico dell’architettura Manfredo Tafuri avesse adottato tale termine associandolo specificamente alla filosofia di Derrida.
Alla base dello stile architettonico decostruttivista vi è il netto rifiuto per qualsiasi forma geometrica pura, euclidea, mentre viene esaltato il concetto di caos strutturale in cui – anche per mezzo della compenetrazione tra edificio e ambiente circostante – ogni superficie, ogni elemento, ogni dettaglio decorativo e costruttivo si fonde e trasforma in un organismo vitale e multiforme contrassegnato da spinte, pressioni, improvvisi tagli o innaturali alternanze di pieni e vuoti.
Ispirato in parte al costruttivismo russo (si pensi a Vladimir Tatlin e al suo significativo monumento alla III Internazionale del 1919-20), il movimento è ben rappresentato dal capolavoro del decano del gruppo, il canadese Frank Owen Gehry (1929): il Museo Guggenheim a Bilbao in Spagna. Iniziato nel 1991 e inaugurato nel 1997, interamente ricoperto da piastre in titanio e in una rara pietra andalusa, se osservato dal fiume l’edificio assume simbolicamente l’aspetto di una grande nave, omaggiando in tal modo la città portuale che lo ospita; il suo straordinario dinamismo, unito al senso organico tipico delle opere di Gehry, ne fa un vero e proprio incunabolo dell’architettura contemporanea. Altre opere rappresentative di Gehry, nelle quali i materiali usati – in buona parte metalli – appaiono leggeri, riuscendo a imitare con grande credibilità l’effetto della plastica piegata, sono sicuramente la Walt Disney Concert Hall a Los Angeles (1989-92) e il Weisman Art Museum dell’Università del Minnesota a Minneapolis (1990-93).
Più o meno coetaneo di Gehry, lo statunitense Peter Eisenman (1932) ha sempre rifiutato l’etichetta di decostruttivista, nonostante molte delle sue opere siano perfettamente calzanti a questo stile frammentato e disomogeneo. Tra i suoi più recenti capolavori, in cui può a pieno titolo inserirsi l’installazione nel Museo di Castelvecchio a Verona intitolata Il giardino dei passi perduti (2004), vanno citati il toccante Memoriale dell’Olocausto o della Shoah a Berlino (2003-05), formato da ben 2700 stele in calcestruzzo disposte secondo un’immaginaria griglia ortogonale, e lo University of Phoenix Stadium in Arizona (2006).
Di alcuni anni più giovani sia di Gehry sia di Eisenman, e ciascuno a vario titolo legato al movimento decostruttivista, gli architetti Rem Koolhaas (1944), Daniel Libeskind (1946) e Zaha Hadid (1950) hanno segnato profondamente il panorama dell’architettura e dell’urbanistica internazionale a cavallo dei due secoli. L’olandese Koolhaas, cui si deve anche il saggio Delirious New York (1978), volto a esaltare la cultura della congestione e del caos di Manhattan, riproponendo in modo originale lo schema del celebre dipinto Broadway Boogie Woogie (1942-43; New York, Museum of Modern Art) del connazionale Piet Mondrian, ha realizzato progetti in cui l’edificio si inserisce volutamente a stento nell’assetto urbano, quasi trasfigurandolo, come dimostrano il centro congressi Gran Palais a Lille (1991-94), l’Educatorium dell’Università di Utrecht (1995-97) e la spettacolare Seattle Central Library inaugurata nel 2004.
Tra i più originali architetti degli ultimi anni, lo statunitense di origine polacca Libeskind vive e lavora a Berlino, divenuta negli ultimi anni una sorta di città-simbolo dei più avveniristici progetti architettonici e urbanistici internazionali. Nella capitale tedesca ha realizzato il Museo ebraico (1989-99), rivestito da lastre in zinco e caratterizzato all’esterno da finestre che simulano tagli alla Lucio Fontana dal grande impatto simbolico, mentre si ricordano tra le molte altre sue creazioni il Felix Nussbaum Museum di Osnabruck (1996-98), la riqualificazione del Victoria and Albert Museum di Londra (1996-2006), l’Imperial Worth Museum North a Manchester (1997-2002), l’addizione al Denver Art Museum in Colorado (2000-05) e il progetto per la ricostruzione dell’area di Ground Zero a New York.
L’irachena Zaha Hadid, trasferitasi a Londra nel 1972, è stata la prima donna a vincere il prestigioso premio Pritzker (2004), considerato a tutti gli effetti il Nobel per l’architettura. Affascinata sin da giovane dal costruttivismo sovietico degli anni Venti, la Hadid si è messa in grande luce a livello internazionale con il progetto per la Cardiff Bay Opera House (1994), cui sono poi seguiti alcuni lavori di estrema originalità, contrassegnati da leggerezza e plasticità delle forme, quali il Rosenthal Center for Contemporary Art di Cincinnati (1998), l’Hoenheim-North Terminus & Car Park a Strasburgo (2001), i progetti per il completamento del Waterfront di Reggio Calabria (2007) e per il MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo) di Roma (concorso vinto nel 1999).
Altri linguaggi architettonici
Oltre alle correnti più o meno circoscrivibili entro limiti stilistici piuttosto definiti, l’architettura dell’ultimo ventennio ha avuto importanti protagonisti non meglio inquadrabili in un preciso linguaggio, capaci però di contribuire a ridisegnare il volto di intere città, ma anche di plasmare l’aspetto di quartieri o riqualificare la facies di prestigiosi musei, non disdegnando talvolta il recupero di forme più tradizionali. Tra questi, sebbene molti altri sarebbero gli architetti da citare, meritano una menzione particolare Meier, Siza Vieira, Calatrava, Chipperfield, Botta, Fuksas.
Già membro del gruppo dei Five Architects con Eisenman, lo statunitense Richard Meier (1934) si caratterizza per uno stile in cui assumono grande risalto le strutture dell’edificio, quasi sempre poste in evidenza, e dove il bianco delle pareti e la trasparenza del vetro dominano le forme e si impongono sul paesaggio circostante. Tra i suoi lavori più recenti si ricordano il Museo di arte contemporanea di Barcellona (1995), il Getty Museum di Los Angeles (1984-97), alcuni lavori a Roma, quali la chiesa Dives in Misericordia a Tor Tre Teste (1998-2003), costruita in vista del giubileo con un cemento in grado di autopulirsi (detto «mangiasmog»), e la nuova struttura espositiva dell’Ara Pacis (2006), la cui realizzazione ha suscitato non poche polemiche nel mondo della cultura italiana, l’ECM City Tower a Praga (2004-07).
Il portoghese Alvaro Siza Vieira (1933), inizialmente influenzato dal movimento moderno, è molto attivo sin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, quando alla progettazione alterna l’insegnamento accademico. Tra i suoi lavori maggiori dell’ultimo periodo, contrassegnati dalla costante attenzione per l’ambiente circostante e dal grande rispetto per le preesistenze di valore storico, vanno citati il Museo d’arte contemporanea a Santiago de Compostela (1988-94), la ricostruzione della facoltà di Architettura a Porto (1988-95) e del quartiere Chiado a Lisbona (1988-97), il padiglione portoghese all’Expo di Lisbona (1998), il Centro del Distretto municipale meridionale a Rosario in Argentina (2002).
Interessato soprattutto agli aspetti organici dell’architettura, in cui un ruolo di primo piano è rivestito dalle innovazioni tecnologiche (la sua formazione ingegneristica si rivela in questo fondamentale), lo spagnolo Santiago Calatrava (1951), anche pittore e scultore, è autore di progetti di notevole originalità, non di rado ispirati alla natura e ai suoi mutevoli aspetti.
Tra questi vale la pena di ricordare la suggestiva galleria del BCE Place a Toronto (1987-92), la cui struttura della slanciatissima volta richiama le volte a crociera delle cattedrali gotiche, l’avveniristico ponte ad Alamillo di Siviglia (1992), la stazione d’Oriente a Lisbona (1993-98), il Museo della Scienza a Valencia (2001), il Turning Torso di Malmoe in Svezia (2005) e il recentissimo «quarto ponte» sul Canal Grande a Venezia tra piazzale Roma e la stazione di Santa Lucia (2007).
Dopo aver cominciato la carriera come originale interior designer ed essersi formato nello studio di Foster e Rogers, l’inglese David Chipperfield (1953) è passato all’architettura su grande scala a partire dagli anni Ottanta, lavorando molto sulla riqualificazione di musei e sull’ampliamento di aree di grande interesse storico con un approccio rispettoso e minimalista. Si ricordano a tal riguardo, tra i molti esempi che potrebbero citarsi, gli interventi al Natural History Museum di Londra (1993), al Museumsinsel di Berlino (1997), il progetto per l’ingrandimento del cimitero di San Michele in Isola a Venezia (da concludere entro il 2013).
Di origine svizzera, sempre in bilico tra architettura e design, Mario Botta (1943) si è imposto all’attenzione della critica internazionale sin dallo scorcio degli anni Sessanta, ideando abitazioni funzionali ma al contempo di notevole qualità formale, non di rado contrassegnate dall’efficace compenetrazione tra struttura e ambiente esterno. Particolarmente attento alla lezione di Le Corbusier e Louis Kahn, negli ultimi anni – quando si è dedicato prevalentemente ad architetture di musei o edifici sacri – Botta ha privilegiato strutture frammentate ed elementi scomposti, dosando le forme con un senso geometrico molto equilibrato in contrasto con lo stile perseguito dai decostruttivisti; i suoi materiali preferiti, che accentuano il carattere profondamente purista delle sue realizzazioni, sono il laterizio e la pietra, lavorati con una sapienza artigianale che gli deriva anche dalla sua terra d’origine, celebre tra Medioevo e Rinascimento per aver dato i natali a generazioni di grandi lapicidi e scultori.
Tra i lavori a carattere religioso che vale la pena di citare, in cui assume grande importanza la forma a cilindro tronco, ricordiamo a cavallo tra anni Ottanta e Novanta la chiesa di San Giovanni Battista a Mogno in Svizzera (1986-98) e la ristrutturazione della cattedrale francese di Évry (1988-95), mentre a cavallo dei due secoli si colloca il progetto per la squadrata chiesa di Giovanni XXIII a Seriate presso Bergamo (1994-2004).
Per quanto attiene invece alla produzione museale, si citano il Museum of Modern Art di San Francisco (1989-95), il Musée Jean Tinguely a Basilea (1993-96), il MART (Museo di arte moderna e contemporanea) di Trento e Rovereto (1988-2002), strutture che riescono a coniugare la sapienza architettonico-ingegneristica con il rispetto per le opere ospitate e la grande funzionalità tanto delle aree espositive quanto di quelle ricettive. Tra gli ultimi lavori, senza dimenticare la cura per vari allestimenti di importanti mostre, si menzionano la torre Kyobo a Seoul in Corea del Sud (1997-2003), la ristrutturazione del teatro alla Scala di Milano (2000-04) e la chiesa del Santo Volto a Torino (2000-06), la cui originalissima struttura sembra aprirsi quasi come un fiore.
All’incirca coetaneo di Botta, Massimiliano Fuksas (1944) è originale interprete della corrente postmoderna, cui ha fornito rilevanti contributi sia pratici sia teorici in Italia, Francia (dove ha stabilmente vissuto dai primi anni Novanta, realizzando opere come la mediateca di Rezé Le Nantes del 1991 e la sede dell’Accademia di Belle Arti di Bordeaux del 1995), Germania e Austria. Direttore del settore architettura alla Biennale di Venezia negli anni 1998-2001, nel 1999 ha vinto il concorso per progettare il Centro Congressi Italia all’EUR di Roma (iniziato nel 2007). Tra le sue molte opere recenti, a titolo esemplificativo, si segnalano il padiglione Le Bolle della grappa Nardini a Bassano del Grappa (2004) e il centro commerciale polifunzionale Etnapolis a Belpasso presso Catania (2006), in cui la cura del dettaglio è portata ai massimi livelli e dove ogni spazio espositivo è illuminato efficacemente da grandi lucernai.
ARTI
Nella scia della transavanguardia
Tendenze in via di lento declino negli anni a cavallo tra i due secoli, ma pur sempre molto influenti sul panorama artistico internazionale, la transavanguardia italiana e il neoespressionismo tedesco si caratterizzano per un ritorno teorico e pratico all’arte «tradizionale», dove tale termine intende sottolineare la dimensione più artigianale del fare arte – con tutto ciò che dal punto di vista tecnico questo comporta – e uno stile contrassegnato da un voluto revival del figurativo. Dal punto di vista strettamente stilistico-formale, quantunque ciascun artista abbia un proprio personalissimo modo di concepire l’arte e di intendere il suo mondo figurativo, i due movimenti si caratterizzano per l’adozione di una tavolozza brillante e talvolta dissonante a stento circoscritta entro contorni violentemente marcati, il tutto volto a definire iconografie per lo più dal notevole impatto ironico e dissacratorio, in continuità con le vibranti creazioni espressionistiche prodotte tra XIX e XX secolo.
Artisti forgiati nella fucina della transavanguardia, quella corrente versatile e originale promossa dal critico e storico dell’arte contemporanea Achille Bonito Oliva e consacrata nel 1980 dalla sezione Aperto ‘80 della Biennale di Venezia, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Enzo Cucchi, Francesco Clemente e Nicola De Maria hanno saputo rinnovarsi nell’ultimo ventennio con grande intelligenza, non disdegnando le rispettive formazioni e i mezzi pittorici con cui si sono ritagliati uno spazio di tutto rispetto nel composito panorama italiano ed estero.
Tra gli esponenti di punta della transavanguardia, autore di opere che vanno dalle performance alle installazioni fino ai lavori più tradizionali in parte ripresi da celebri capolavori del passato (con preferenza per il manierismo e il futurismo), pittore e scultore, Sandro Chia (1946) si è gradualmente avvicinato negli ultimi anni alla pittura figurativa, creando – come sostenuto da Bonito Oliva – «immagini capaci di sedurre l’immaginario collettivo di una società di massa che altrimenti sentirebbe lontana l’immagine artistica».
I riferimenti della sua ultima produzione sono per lo più alla pittura simbolista e in particolare a quella fauve, da cui egli mutua sia la tavolozza dai colori talvolta acidi e metallici sia i soggetti quasi iconici, dove non di rado i protagonisti della composizione si stagliano isolati in un mondo tra il fiabesco e il surreale. Celebre la serie intitolata BMW Art, iniziata nel 1975 e portata avanti con successo soprattutto negli anni Novanta, in cui l’artista ha dipinto sulla carrozzeria delle autovetture tedesche rapide immagini dai tratti non dissimili da quelli di inizio Novecento usciti dagli atelier di un Modigliani o di un Picasso.
Affascinato da un universo iconografico abitato da tematiche oniriche e surreali, in cui trovano costantemente spazio temi come la morte o il sacrificio, Mimmo Paladino (1948) si è segnalato negli ultimi anni per una produzione di ampio respiro nella quale si mescolano con estrema efficacia elementi plastici ed elementi pittorici, arte tradizionale e installazioni di tipo moderno, tecniche di memoria secolare ed effetti visivi prodotti per mezzo di tecnologie innovative.
Ai primi anni Novanta, come dimostrano l’esposizione Bila Hora a Praga (1991), durante la quale ha presentato sette enormi tele dedicate alla città boema (si segnalano La montagna Bianca e Mercato di spiriti), e quella fiorentina presso il forte Belvedere (1993), il maestro campano si è dedicato con successo a opere di grande formato e immediato impatto visivo sul pubblico, consolidando una fama già conquistata nel decennio precedente.
Esempi rilevanti della sua sfrenata fantasia, in cui l’arte si esprime non di rado con messaggi di denuncia e critica alla società contemporanea, non senza riagganciarsi nostalgicamente a un mondo ormai superato come quello del Medioevo monastico o del più raffinato Rinascimento delle corti, sono le installazioni permanenti Hortus conclusus nel chiostro di San Domenico a Benevento (1992), con alcune sculture simboliche e archetipiche quali il Cavallo, il Disco, la Conchiglia, la Campana ecc., e le venticinque sculture in bronzo de I dormienti a Poggibonsi (1998), presso la medievale fonte delle Fate, con inquietanti figure alternate di uomini addormentati e accovacciati e coccodrilli disposte su lastre parzialmente immerse nell’acqua (l’installazione, di grande effetto, è stata esposta nel 1999 alla South London Gallery). Primo artista contemporaneo italiano ad aver tenuto una mostra personale in Cina (nel 1994, presso la Galleria Nazionale di Belle Arti di Pechino), nel 1995 Paladino ha avuto l’onore di una triplice rassegna a Napoli, con le sue opere esposte alle scuderie di palazzo Reale, a villa Pignatelli Cortes e a piazza del Plebiscito, dominata quest’ultima dall’enorme e provocatoria installazione La montagna di sale. Nel 2008 gli è stata commissionata una serie di quattro teloni per coprire le impalcature montate durante il restauro del campanile la «Ghirlandina» del duomo di Modena.
Caratterizzato da una poetica figurativa non molto dissimile da quella di Paladino, di cui è all’incirca coetaneo, Enzo Cucchi (1949) ha dato vita negli ultimi anni a immagini volte a esaltare l’archetipo della natura, in cui le forme pure e incontaminate dominano le sue fantasiose composizioni, come dimostrano le suggestive serie dei Senza titoli (1990), nelle quali si avvicendano immagini oniriche e simboliche come teschi o desolanti paesaggi deserti. Notevole, anche perché nata dalla stretta collaborazione con il grande architetto svizzero Mario Botta (autore dell’edificio), si rivela la decorazione della cappella sul monte Tamaro nei pressi di Lugano (1992-94). Autore di livello internazionale, negli ultimi anni Cucchi ha sfruttato differenti tecniche e adottato vari stili pittorici, riuscendo a passare con disinvoltura da un luminismo di impronta «neocaravaggesca» alle ardite modalità sperimentali dei cubisti, dei dadaisti e degli astrattisti più in generale (terra, legni bruciati, neon, ferro ecc.), senza però rinunciare, come dimostrano alcuni dipinti, acquerelli e disegni, ai materiali e ai supporti di tipo tradizionale.
Artisti molto versatili, in grado di sfruttare le più disparate tecniche associate a vari supporti, contrassegnati entrambi da un profondo senso lirico unito a un approccio fortemente simbolico alla propria arte, Francesco Clemente (1952) e Nicola De Maria (1954) hanno saputo rivitalizzare la loro produzione con spunti e influenze internazionali, a volte strizzando l’occhio (è il caso soprattutto di Clemente) all’Oriente e alla sua cultura ancestrale. Merita segnalare la grande retrospettiva di Clemente organizzata nel 1999-2000 al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, dove sono stati esposti alcuni suoi importanti lavori eseguiti negli anni Ottanta.
Movimento in un certo senso parallelo alla transavanguardia, consacrato nel 1984 alla Biennale di Venezia e appoggiato dallo storico dell’arte Maurizio Calvesi, tra i cui massimi rappresentanti vi sono Carlo Maria Mariani (1931) e Omar Galliani (1954), l’anacronismo si è consapevolmente distaccato dalle correnti transavanguardiste e neoespressioniste, scegliendo invece uno stile figurativo sobrio e tecnicamente ineccepibile, spesso ispirato all’arte medievale e rinascimentale italiana. Non dissimile è il citazionismo (o Appropriation Art), nato anch’esso negli anni Ottanta e volto a recuperare celebri capolavori del passato per lo più del XX secolo, quali a titolo esemplificativo opere di Picasso, dei dadaisti (Duchamp in testa) e addirittura – non senza privarla della sua aura di provocazione tecnica e concettuale – dell’action painting.
Maestri indiscussi di questa corrente, affermatasi principalmente negli Stati Uniti, sono Sherrie Levine (1947), che fotografa fotografie celebri, e Mike Bidlo (1953), cui spetta ad esempio il rifacimento di alcuni dipinti di Jackson Pollock.
Tra echi del neoespressionismo e rifiuto della Pop Art
Artisti a metà strada tra la cultura neoespressionista di matrice tedesca e quella irriverente della beat generation statunitense, ognuno con il proprio diversificato bagaglio di esperienze creative, sono Alex Katz, Jörg Immendorff, Anselm Kiefer e Miquel Barceló.
Tra i più duri oppositori dell’action painting, di cui ha criticato sin dalle prime battute l’approccio ironico e violentemente dissacratorio, l’americano di origine russa Alex Katz (1927) si è avvicinato a partire dagli anni Ottanta – accentuando tale tendenza nei due decenni successivi – a un tipo di pittura figurativa pacata e austera, nella quale le pennellate sono stese in grandi campiture quasi prive di ombre e sono caratterizzate da toni simili al pastello. Le sue immagini, specialmente i più recenti paesaggi (ma anche i sobri ritratti tratteggiati con pochi rapidi segni), possiedono un arcaismo ricercato che sembra quasi ispirarsi alla pittura del Quattrocento italiano. Negli ultimi anni gli sono state dedicate alcune importanti retrospettive in musei statunitensi ed europei, a testimonianza del respiro davvero internazionale assunto dalla sua produzione a cavallo dei due secoli.
Recentemente scomparso, il tedesco Jörg Immendorff (1945-2007) si è formato con Joseph Beuys all’Accademia di Düsseldorf e negli anni Settanta-Ottanta ha dato vita ad alcune provocatorie serie di opere a tema politico incentrate sulla divisione della Germania dal titolo Café-Deutschland. Negli ultimi anni, dopo aver realizzato la serie delle Accademie (in cui emerge tutta l’autoironia dell’artista in relazione al suo insegnamento presso alcune accademie di belle arti tedesche e svizzere), Immendorff ha dedicato la sua produzione a temi caratteristici dell’espressionismo, dove le figure tendono a deformarsi e la tavolozza potente e timbrica costruisce le immagini con un vibrante senso plastico.
Anch’egli tedesco e formatosi con Joseph Beuys all’Accademia di Düsseldorf, Anselm Kiefer (1945) è considerato sin dagli anni Settanta uno dei maggiori esponenti del neoespressionismo. Dal punto di vista stilistico-formale, non prima di aver fatto un ampio uso di performance e di fotografie, Kiefer si mette in luce per l’utilizzazione di un cromatismo tendenzialmente brunastro (soprattutto grigi) e una pennellata densa e filamentosa, in buona parte ispirata a quella della pittura espressionista di fine Ottocento; la sua pittura, ma anche le non rare installazioni o sculture, si avvale spesso dell’ausilio di materiali come la sabbia, il catrame, il piombo ecc., volti a creare un effetto materico potente e vitale.
I suoi temi spaziano dalla storia drammatica della Germania novecentesca fino ai miti romantici e alle saghe medievali, non disdegnando più complessi riferimenti al mondo dell’alchimia, un universo magico cui l’artista dà concretezza materica grazie all’uso dei diversi materiali sopra citati. Negli anni Novanta la sua arte ha raggiunto anche l’Estremo Oriente, come dimostrano le fortunate esposizioni antologiche a Tokyo (Fuji Television Gallery, 1992; Seton Museum of Art, 1993) e Seoul (Kukje Gallery, 1995); si ricordano inoltre, tra i suoi vari successi recenti, la partecipazione alla XLVII Biennale di Venezia (1997) e la mostra personale al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (2004).
Dopo alcuni importanti viaggi di formazione negli anni Ottanta tra Europa, Stati Uniti e Africa occidentale, lo spagnolo Miquel Barceló (1957) si avvicina gradualmente – anche in seguito alla partecipazione alla Biennale di San Paolo in Brasile (1981) – alla transavanguardia italiana e all’espressionismo tedesco, movimenti dai quali ricava in primo luogo l’uso di tecniche materiche di grande impatto fisico. Tra le caratteristiche salienti della sua produzione pittorica si ricordano le tele lasciate ad asciugare all’aria, solo in parte ricoperte da un impasto grezzo, sottoposte a una sorta di processo di metamorfosi organica dalla quale scaturiscono effetti inaspettati e talvolta reazioni chimiche in grado di stravolgere il primitivo aspetto dell’opera.
L’arte come provocazione: installazioni, videoarte, Performance Art
Maestri della prima ora dell’arte provocatoria e originale ad ogni costo, realizzata per mezzo di tecniche innovative e non tradizionali, passati attraverso gli anni di sperimentazione della Pop Art, Daniel Spoerri (1930) e Hans Haacke (1936) hanno contribuito anche nell’ultimo ventennio al multiforme universo delle installazioni e delle performance.
Il primo, residente dal 1992 a Seggiano presso Grosseto (dove ha costruito un fantastico parco-museo intitolato Il giardino di Daniel Spoerri: hic terminus haeret, divenuto fondazione nel 1997, disseminato di sculture più o meno coeve), ha proseguito dagli anni Novanta il suo prolifico lavoro di raccolta di materiali appartenuti a grandi artisti contemporanei e la realizzazione dei cosiddetti tableaux-pièges («quadri-trappola»), consistenti in assemblaggi di oggetti d’uso quotidiano. Tra le migliori installazioni dell’artista, che fanno spesso mostra di sé all’interno del giardino di Seggiano, si ricorda la ricostruzione della Camera n. 13 dell’hotel Carcassonne a Parigi (1998), dove alle pareti sono appesi sia alcuni tableaux-pièges sia resti di pasti, tipici questi di una parte della sua produzione nota come Eat Art (da molti anni, infatti, Spoerri usa rinchiudere in una scatola in plexiglas i resti di pranzi e cene con gli amici, lasciandovi intatta la tavola dove questi si sono consumati).
Il secondo, Hans Haacke, tra i leader indiscussi dell’arte concettuale di secondo Novecento, ha privilegiato nella sua produzione matura la mistione di elementi e materiali differenti, creando installazioni di grande effetto scenografico: ne è un mirabile esempio quella realizzata nel 1993 alla Biennale di Venezia per il padiglione tedesco, il cui pavimento in marmo è stato frantumato per trasmettere al pubblico una sensazione di instabilità e la cupa suggestione di un momento immediatamente successivo a un terremoto.
Venuto a mancare di recente, già importante esponente dell’arte povera italiana, lo scultore e scrittore Luciano Fabro (1936-2007) si è dedicato a partire dagli anni Ottanta-Novanta alla realizzazione di installazioni ambientali di forte impatto intitolate Habitat, nelle quali non mancano originali riletture concettuali di teorie rinascimentali quali la prospettiva centrale. Nei suoi ultimi anni di attività, in cui ha continuato a insegnare presso l’Accademia di Brera a Milano e a scolpire interessanti opere polimateriche, Fabro ha avuto l’onore di alcune prestigiose esposizioni personali organizzate negli Stati Uniti (1992, Museum of Modern Art a San Francisco) e in Europa (1996-97, Centre Georges Pompidou a Parigi), il che ha naturalmente contribuito alla visibilità internazionale della sua sempre fresca produzione artistica.
Tra gli artisti più originali degli ultimi anni va senza dubbio segnalato Damien Hirst (1965), leader indiscusso negli anni Novanta del gruppo degli Young British Artists (YBAs), che sin dalla sua prima esposizione Freeze, organizzata nel 1988, ha suscitato un grande scandalo con opere provocatorie e dissacranti. La sua produzione più incisiva, che lo ha reso famoso a livello internazionale (tanto da conquistargli nel 1995 il prestigioso Turner Prize), si caratterizza per l’uso disinibito di scheletri, animali vivi (soprattutto mosche e farfalle, simbolo della brevità dell’esistenza) o conservati nella formaldeide, medicinali, associati a tecniche e supporti invece più tradizionali.
Tra le sue installazioni più efficaci, che hanno avuto il grande merito di scioccare – ma al contempo interessare concretamente – il pubblico ormai stanco di molta arte contemporanea, si ricordano L’impossibilità fisica della morte nella mente di qualcuno che vive (1991, Londra, Saatchi Collection), costituita da un grosso squalo tigre in formaldeide, e Madre e figlio (1993), divisi a metà insieme con una mucca e un vitello a loro volta divisi a metà e in formaldeide. Nel 1998 ha preso parte alla mostra collettiva degli YBAs Sensation, organizzata presso la Royal Academy di Londra. Tra le tecniche più innovative adottate da Hirst vanno annoverate lo spin painting, che avviene dipingendo su una superficie circolare rotante, e lo spot painting, consistente invece nella realizzazione di righe di cerchi colorati (da tale stile la pubblicità ha tratto spesso ispirazione).
Un ruolo determinante nel panorama artistico internazionale a cavallo dei due secoli lo ricopre indiscutibilmente la videoarte, il cui successo è divenuto incontenibile a partire dagli anni Novanta, decennio in cui è scoppiato un vero e proprio boom delle nuove tecnologie audiovisive, si è affermato ad ampio raggio il fenomeno di Internet e ha iniziato a diffondersi la moda degli schermi al plasma o LCD. Tra i molti artisti attivi in questo mutevole settore creativo, in cui non di rado confluiscono pubblicitari, autori cinematografici e musicisti, basti citare a titolo esemplificativo i due statunitensi Gary Hill e Bill Viola e il sudafricano William Kentridge, senza però dimenticare il valido contributo offerto anche dall’Italia con nomi affermati quali il gruppo milanese Studio Azzurro.
Il californiano Gary Hill (1951), già molto attivo nel campo della videoarte e delle installazioni tra anni Settanta e Ottanta, ha privilegiato nell’ultimo periodo effetti ottico-visivi tridimensionali proiettati direttamente sulle pareti degli spazi espositivi, effetti volti a coinvolgere lo spettatore in un sottile gioco di immedesimazione nell’opera d’arte. Stabilmente presente sulla scena artistica internazionale, Hill ha esposto le sue opere in molte prestigiose sedi museali statunitensi (a New York, nel 1995 e nel 1998, al Guggenheim Museum SoHo e al Whitney Museum of American Art) ed europee (a Parigi, nel 1993 e nel 2007, al Centre Georges Pompidou e alla Fondation Cartier), ottenendo alla Biennale di Venezia del 1995 l’ambito Leone d’oro per la scultura.
Nato a New York, attivo sin dagli anni Settanta, Bill Viola (1951) mostra nei suoi lavori un’assoluta padronanza delle nuove tecnologie visive, attraverso le quali riproduce non di rado opere del passato in modo suggestivo e originale. Profondamente affascinato dalla cultura zen (ha vissuto per alcuni anni in Giappone), si è concentrato nell’ultimo periodo su video più rarefatti dal forte simbolismo, dove la luce trafigge con lampi e bagliori zone di buio denso e avvolgente.
William Kentridge (1955) è divenuto celebre negli anni Ottanta grazie alle sue videoanimazioni note – secondo la definizione data dallo stesso autore – come «disegni per proiezioni» e dedicate principalmente al dramma sociale della Repubblica sudafricana (con la tragedia dell’apartheid in testa). Dal punto di vista specificamente stilistico-formale, questi lavori si caratterizzano per un uso virtuosistico del carboncino, sfruttato con maestria secondo una tecnica fatta di segni spesso grossolani e appena accennati dal notevole effetto pittorico.
Tra le opere migliori realizzate nello scorcio del millennio, contrassegnate da un approccio figurativo dai tratti espressivi e dal pathos sempre molto spiccato, si citano Felix in esilio (1994), Storia della grande malattia (1996) e Stereoscope (1996). Nella sua ultima produzione, coadiuvato dalla compagna, l’artista sudafricano ha continuato a dedicarsi alla produzione di film d’animazione incentrati per lo più sul tema dell’apartheid, non senza occuparsi al contempo di allestimenti e scenografie teatrali.
Sempre in bilico tra arte concettuale, videoarte e Body Art, Bruce Nauman (1941) è un artista particolarmente attento al linguaggio in ogni sua forma: per questo, almeno dalla fine degli anni Sessanta, si è dedicato allo studio dell’espressione attraverso molteplici approcci artistici, oscillando tra quelli più tradizionali (specialmente la scultura) e quelli più provocatori e innovativi come scritte o figure al neon, performance o installazioni di differente tipologia. Nel 1999 ha conquistato il Leone d’oro alla Biennale di Venezia, mentre risale al 2004 – anno in cui ottiene dalla Japan Art Association il Praemium Imperiale – l’originale installazione sonora Raw Materials alla galleria Tate Modern di Londra.
Sviluppatasi al principio degli anni Sessanta del Novecento, la Performance Art è una poliedrica corrente che ha attraversato e attraversa tuttora in modo trasversale i vari movimenti artistici degli ultimi decenni e alla quale, per periodi più o meno prolungati, molti dei grandi artisti contemporanei hanno fornito un contributo rilevante. Tra i vari esponenti che potrebbero citarsi, quantunque sia pressoché impossibile stilare un elenco sistematico e omogeneo degli artisti che si sono avvalsi delle performance (che, per loro natura, sono varie e sempre differenti tra loro), si ricordano per gli ultimi anni Gilbert & George, Marina Abramović, Julian Schnabel, David Salle, Cindy Sherman, Maurizio Cattelan.
Gilbert & George, pseudonimo dei due artisti inglesi Gilbert Proesch (1942) e George Passmore (1943), sono da considerare in questo settore dei veri e propri pionieri, con all’attivo lavori di grande successo e immediato impatto sul pubblico sin dallo scorcio degli anni Sessanta. Dall’ultimo decennio del XX secolo, dopo un ventennio trascorso a stupire la critica e il pubblico con performance di ogni tipo, Gilbert & George hanno cominciato a privilegiare opere dai toni cromatici violenti e dai contenuti espliciti incentrati su tematiche a loro particolarmente care quali il razzismo, l’omosessualità, l’AIDS, ma anche legati all’esibizione sessuale più esplicita e alla poetica della provocazione assoluta, spinta fino alla creazione di immagini a soggetto scatologico come The Naked Shit Pictures (1994). Tra le opere più efficaci del loro recente catalogo, in risposta agli attentati terroristici londinesi del luglio 2005, si ricorda The Six Bomb Pictures (2006). Dopo aver rappresentato nel 2005 la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia, i due inseparabili artisti vincono nel 2007 l’importante premio Lorenzo il Magnifico alla VI edizione della Biennale di arte contemporanea di Firenze, conquistandosi peraltro l’onore di una grande mostra retrospettiva organizzata dalla Tate Modern di Londra.
Autodefinitasi la «decana della Performance Art», la serba Marina Abramović (1946) è attiva sin dagli anni Settanta con una serie di lavori in cui non di rado porta al limite estremo il suo corpo, considerato come una sorta di supporto mobile sul quale realizzare performance anche crudeli e autolesionistiche. Opere di straordinario impatto emozionale, in cui il dramma è in grado di sferzare il pubblico più di qualsiasi documentario o fotografia, sono Cleaning that Mirror (1995), dove è protagonista un teschio in atto di essere spazzolato e lucidato, e l’impressionante Balkan Baroque presentato alla Biennale di Venezia del 1997, una performance – volta a puntare il dito sulla tragedia della pulizia etnica consumata nei Balcani – dove l’artista era direttamente impegnata a pulire una vera e propria montagna di ossa insanguinate (con questo lavoro la Abramović ha vinto il Leone d’oro).
In parte assimilabile alla ricerca della Abramović è quella della statunitense Cindy Sherman (1954), abile fotografa, che ha dato vita attraverso il linguaggio della Body Art a creazioni originali nelle quali il suo corpo si è prestato alle più disparate e provocatorie messe in scena (si pensi, ad esempio, ai Ritratti storici del 1988-90, dove l’artista ha indossato i panni di vari personaggi storici della grande pittura rinascimentale o barocca). Decisamente scioccanti nel loro genere, realizzate negli anni Novanta, sono le due serie Sex Pictures (1992) e Horror and Surrealist Pictures (1994-96), caratterizzate rispettivamente da assemblaggi realizzati con protesi anatomiche e immagini a metà strada tra l’orrore sanguinolento e il decadente, tratti questi che ritornano puntuali anche nel suo film Office Killer (1997).
Formatosi tra l’Università di Houston e il Whitney Museum of American Art, Julian Schnabel (1951) è sin dagli anni Ottanta uno dei protagonisti più in vista del neoespressionismo statunitense, al quale fornisce un contributo decisivo grazie ai particolarissimi Plate paintings, consistenti in tele o tavole realizzate sfruttando tecniche miste, tra cui soprattutto frammenti di ceramica e vernice in grado di conferire una credibilità tridimensionale all’oggetto, e ad altre opere in cui vengono adottati supporti ricercati o inconsueti come pelli animali, velluto, foto digitali (da cui derivano i Japanese paintings) ecc. Pittore e scultore, Schnabel ha alternato la sua produzione artistica con quella di regista cinematografico, nella cui veste ha realizzato Basquiat (1996; con tra gli altri interpreti David Bowie, Dennis Hopper e Christopher Walken), dedicato all’omonimo graffitista americano morto per overdose a soli ventotto anni nel 1988, Prima che sia notte (2000; con Javier Bardem nel ruolo del protagonista), sul poeta omosessuale e dissidente cubano Reinaldo Arenas, e il recente Lo scafandro e la farfalla (2007), tratto dall’omonimo libro del giornalista francese Jean-Dominique Bauby, colpito da un ictus che gli ha procurato la sindrome paralizzante «locked-in».
Artista eclettico di grande originalità, in parte accostabile a Schnabel per i suoi interessi nei settori della scenografia teatrale e del grande schermo (risale al 1995 il film Search & Destroy, cui hanno partecipato anche Martin Scorsese e Dennis Hopper), David Salle (1952) è celebre per i suoi pastiche pittorici in cui si mescolano senza una logica apparente stili, soggetti, tecniche, supporti, e nei quali si affastellano piccoli quadri nei quadri ispirati o addirittura copiati da opere famose di epoche passate.
Merita una menzione particolare il padovano Maurizio Cattelan (1960), che si profila come una sorta di «neodadaista» sempre pronto alla provocazione e alla creazione irriverente. Autodidatta, diviene celebre negli anni Novanta per alcune installazioni che irridono le opere monumentali del passato, come dimostra per tutte La ballata di Trotsky (1996), un cavallo impagliato appeso al soffitto che intende smitizzare i monumenti equestri classici e rinascimentali, o che scherniscono senza pietà alcuni temi sacri, come ben esemplifica La nona ora (1999), un’iperrealistica statua in cera di papa Giovanni Paolo II a terra colpito sul fianco destro da un meteorite. Tremende sono anche altre sue installazioni più recenti, quali su tutte Senza titolo (2004) della Fondazione Nicola Trussardi a Milano, in cui alcuni bambini realizzati con tecnica mista, di incredibile realismo, penzolano impiccati a un albero.
La scultura tra passato e futuro
Uno sviluppo parallelo all’arte pittorica e alle sue molteplici propaggini, pur con qualche traccia di arcaismo di essa, ha avuto tra i due secoli la scultura, nella quale si sono spesso cimentati grandi pittori e designer quali i due transavanguardisti Sandro Chia e Mimmo Paladino.
Maestri di vecchia generazione che hanno attraversato da protagonisti i decenni forse più creativi dello scorso secolo, ancora molto prolifici nello scorcio del XX e nel principio del XXI secolo, sono Fernando Botero, Georg Baselitz e Richard Serra.
Attivo sin dalla metà del Novecento, negli ultimi anni il pittore e scultore colombiano Fernando Botero (1932) ha ulteriormente semplificato e ingigantito le sue forme, realizzando opere sobrie dal forte impatto simbolico. Le sue statue in bronzo, molto levigate e classicheggianti nella resa figurativa, si caratterizzano per un notevole senso materico e una morbida lucentezza del modellato; non di rado, inoltre, esse possiedono un apparente aspetto di cera sul punto di squagliarsi, come dimostrano la Leda e il cigno esposta nel 1999 a piazza della Signoria a Firenze o la serie dei Cavalli esposta a Berlino nel 2007. Negli anni Novanta, a oltre quarant’anni dall’inizio della sua attività artistica, ha avuto l’onore di veder esposte le sue enormi sculture bronzee agli Champs Elysées di Parigi (1992) e in alcune importanti capitali europee (1994).
Anch’egli pittore e scultore, il tedesco Georg Baselitz (1938) ha in un certo senso compiuto un percorso inverso rispetto a quello del collega sudamericano, incentrando la sua arte sull’estetica dell’informale e dell’espressionismo. Ritiratosi nel 1988 dall’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Berlino (ripreso poi dal 1992 al 2003), negli anni Novanta ha ottenuto l’onore di alcune grandi mostre retrospettive in Europa, presso l’Altes Museum di Berlino (1990) e la Kunsthaus di Zurigo (1990), e negli Stati Uniti, al Guggenheim di New York, alla National Gallery di Washington e al Museum of Contemporary Art di Los Angeles (1995).Tra le sue migliori opere recenti, in cui la forma è ridotta praticamente all’osso e i colori vengono lasciati al timbro puro, si ricorda il Torso virile (Männlicher), presentato alla Biennale di Venezia del 1993.
Il californiano Richard Serra (1939), celebre sin dagli anni Sessanta per le sue monumentali sculture metalliche in stile minimalista ideate per decorare grandi spazi pubblici, ha continuato negli ultimi anni a creare enormi oggetti di arredo urbano o museale, come ben dimostrano l’austero Snake per il Museo Guggenheim a Bilbao (1994-96) e le Torqued Ellipses presentate a New York nel 1997.
Scultore inglese, molto attivo fino agli anni Ottanta e un po’ meno prolifico negli ultimi due decenni, quando gli sono stati conferiti alcuni prestigiosi premi (premio Shakespeare nel 2001) ed è stato accolto in istituzioni culturali di fama internazionale (Royal Academy di Londra nel 1994), Tony Cragg (1949) ha continuato la sua produzione artistica per mezzo di uno stile inconfondibile, in cui oggetti di uso quotidiano in materiali differenti (plastica, metallo, legno ecc.) si affastellano in modo provocatorio e apparentemente senza un ordine preciso. Caratterizzata nell’ultima fase dall’adozione del gesso (si pensi a una delle tre Early Forms del 1993), del legno e del bronzo, la sua scultura si riaggancia spesso ai moduli di quella cubista e dadaista di inizio Novecento, esibendosi in virtuosismi in cui le forme spezzate si intersecano e si accavallano, conferendo una straordinaria intensità dinamica all’opera, ma dove non di rado prevalgono morbide sinuosità dall’effetto quasi liquido o innaturali contorsioni della materia imitanti onde e vortici.
Di origine indiana, ma naturalizzato inglese, Anish Kapoor (1954) è da considerare uno dei più originali interpreti della lezione delle avanguardie di inizio XX secolo, dalle quali ha desunto la passione per la ricerca formale spinta all’eccesso e per la provocazione a sfondo sociale e culturale. Scultore che privilegia il rapporto tra pieni e vuoti, sfruttando di solito materiali quali il legno, la pietra e il metallo (Mettere il mondo sottosopra del 1995 ne è un mirabile esempio), nonché superfici cromaticamente compatte o luminescenti, Kapoor si è dedicato a partire dall’ultimo decennio del Novecento anche alla realizzazione di enormi installazioni permanenti o provvisorie di grande effetto scenografico, capaci spesso di ridefinire l’assetto urbano dell’area in cui sorgono. I suoi lavori più recenti, come dimostrano le due versioni di Sky Mirror per il teatro in Wellington Circus a Nottingham (2001) e per il Rockfeller Center a New York (2006), ma anche il grandioso Cloud Gate nel Millennium Park di Chicago (2004), con le sue 110 tonnellate di acciaio purissimo, si focalizzano sull’effetto illusionistico creato da superfici specchiate, in grado di coinvolgere direttamente l’osservatore-fruitore dell’opera d’arte in maniera quasi «neobarocca».
Nel complesso panorama artistico dell’ultimo ventennio, infine, un ruolo tutto particolare è rivestito dall’estroso e discusso artista americano Jeff Koons (1955), attivo sin dagli anni Ottanta con opere di pieno recupero della tradizione dadaista e avanguardista volte a suscitare veri e propri shock emotivi nel pubblico e nella critica per il loro forte approccio provocatorio: si pensi, a titolo d’esempio, a lavori come la serie delle Banalità del 1988, con sculture volutamente kitsch, come il coevo Coniglio in plastica gonfiabile, o come la serie di sculture floreali intitolata Puppy (1987-92). Nell’ultima attività, quando il pittore e scultore statunitense si è sensibilmente accostato alla Pop Art e in particolare alla produzione di Warhol, prevalgono immagini forse ancor più ironiche rispetto a quelle del primissimo catalogo, come ben illustra Balloon Dog (1994-2000) a Venezia.