Conosciamo i vari aspetti del lessico italiano
Conosciamo i vari aspetti del lessico italiano
Arricchire il proprio lessico
Arricchire il proprio lessico, cioè l’insieme delle parole che si conoscono, non significa solo aumentare il numero dei termini che si usano (lessico attivo) o di quelli che si capiscono ma non si usano (lessico passivo), o conoscere meglio il significato di alcuni termini.
L’uso delle parole va posseduto e padroneggiato da parte di tutti, ma soprattutto da parte di coloro che vogliano migliorare il loro livello di comunicazione sia orale che scritta. Ma che significa in realtà possedere l’uso delle parole?
L’insufficiente padronanza del lessico in chi parla o scrive si può manifestare in diversi modi, per esempio: un uso improprio delle parole, cioè il ricorso ad un termine dal significato del tutto o in parte diverso da quello che si vuole esprimere; la scelta di parole giuste come significato ma non adatte al contesto dal punto di vista del registro linguistico (vedremo tra poco che cosa si intenda per registro linguistico); l’impiego di parole o di espressioni troppo vaghe e generiche, cioè la mancata conoscenza o il mancato uso di termini precisi ed appropriati.
Chi riuscisse a evitare questi difetti, tanto comuni ma anche tanto difficili da superare, sarebbe certo più soddisfatto del suo linguaggio e contribuirebbe a migliorare la comprensione e il livello della comunicazione tra persone.
Uso improprio delle parole
L’uso improprio delle parole è forse più grave dell’errore grammaticale, perché più di questo può causare ambiguità o addirittura incomprensibilità del messaggio. Spesso esso è dettato dalla tendenza a impiegare, al posto di voci comuni, termini più ricercati e non usuali, di cui non si conosce pienamente il significato, ma che si pensa elevino il livello del discorso. L’uso di questi falsi preziosismi linguistici può portare a effetti di comicità o di ambiguità: immagina di ricevere, dall’amministrazione della casa in cui abiti, una lettera in cui si legga «Sono pervenute a codesta amministrazione lamentele circa…». Non sussistono dubbi che l’amministrazione in oggetto non sia presso di te (codesto, ricorda, si usa, o meglio lo usano i toscani, per indicare cosa o persona vicina a chi ascolta), ma sia quella da cui è partita la lettera: certo, però, l’espressione appare sconcertante per quella scelta impropria, dettata indubbiamente dal fascino di ciò che si giudica, erroneamente, un preziosismo.
In questo caso è il linguaggio burocratico, fonte primaria di aberrazioni linguistiche di tal genere, a diffondere l’uso improprio, e falsamente elevato, di codesto.
Parole proprie ma non adatte
La scelta di parole proprie ma non adatte al tono del discorso o dello scritto è quanto mai diffusa, a tutti i livelli. È convinzione di molti che usare parole difficili e altisonanti conferisca dignità all’espressione linguistica, e il modello di alcuni linguaggi speciali, soprattutto quelli della burocrazia e della politica, contribuisce a diffondere questa abitudine. Capita così, e non di rado, di cogliere perle di questo tipo:
La problematica di trovare una casa mi ha afflitto per due anni
È venuto l’idraulico e ha effettuato la riparazione al lavandino
Non ci sarebbe poi tanto da stupirsi se una banalissima frase come
La settimana prossima devo andare dal dentista: speriamo che non mi tolga il dente che da un mese mi fa male quando mangio
si trasformasse in bocca al burocratinante (neologismo sentito dal vero) locutore in una del tipo
Nella settimana entrante dovrò recarmi dall’odontoiatra: è mia viva speranza che il suddetto non debba procedere all’estrazione del dente che nel mese pregresso mi ha causato dolore nella misura in cui lo sottoponevo allo sforzo di espletare la masticazione
Parlare bene significa non già parlare difficile, ma combinare le parole giuste con una sintassi adeguata agli scopi per cui si parla o si scrive: fondamentale è dunque l’uso di termini appropriati al contesto e al registro linguistico all’interno del quale ci si esprime.
Registro è, in un certo senso, il livello, il tono della lingua che si impiega, e varia non soltanto a seconda dell’argomento, del contenuto, ma anche a seconda del destinatario e dell’occasione: si può parlare dello stesso argomento in diversi modi, e usando parole diverse pur se aventi lo stesso significato.
È molto importante che la scelta delle parole sia dettata anche dal registro a cui è improntato il discorso, o lo scritto. Se la comunicazione è orale, intanto, si eviti il ricorso a termini caratteristici di uno scritto dal tono ufficiale: non c’è nulla di più spiacevole che sentir parlare qualcuno come se leggesse, e si eviti comunque il ricorso ai cosiddetti paroloni.
Diverso sarà il tono, e quindi anche la scelta delle parole, in un discorso dal tono più sostenuto: anche nella comunicazione orale, naturalmente, il livello della lingua cambia a seconda del fine, dell’occasione, dell’interlocutore.
Nello scritto, poi, il registro e lo stile variano moltissimo, e anche la scelta delle parole da usare è condizionata dal tipo di scritto e dalla sua destinazione. Va sempre e comunque rispettata la coerenza stilistica e tonale dell’espressione, sia scritta che parlata.
Parole generiche
Un altro aspetto della scarsa padronanza lessicale è l’incapacità di usare termini precisi e dal significato circoscritto, al posto dei quali si impiegano parole o espressioni vaghe e generiche. Chi non ha sentito dire dall’insegnante: «Sii più chiaro; non essere generico; usa termini più precisi»? È un invito a migliorare il linguaggio rifuggendo le parole vaghe e dal significato indistinto o, peggio, quelle parole milleusi che sono tanto care a chi non vuole fare troppa fatica: maestri, in questo, i bambini e i ragazzi per i quali tutto è coso, roba, affare, attrezzo (e le persone sono tutte, indistintamente, tipo o tizio).
Parole di moda
Anche l’uso delle parole di moda, tanto frequenti sia nello scritto sia nel parlato, contribuisce a disabituare alla ricerca del termine preciso e proprio per quel contesto: parole jolly come gestire, contesto, discorso, portare avanti sono adoperate in tutte le occasioni, e potrebbero essere sostituite con molte parole diverse, a seconda di quello che indicano di volta in volta. Una parola super-inflazionata come gestire, per esempio, può significare, a seconda del contesto: occuparsi di (questa pratica la gestisco io), organizzare (devi imparare a gestirti la tua giornata), amministrare (quell’azienda è mal gestita), educare (i miei figli li gestisco come voglio), curare (quel medico gestisce troppi pazienti), e chi più ne ha più ne metta. E pensare che la definizione di gestire (a parte gestire nel senso di «gesticolare») data da qualche vocabolario è, modestamente, «avere una gestione, amministrare un’azienda senza esserne il proprietario»!
Contesto, che significa «tessitura, intreccio» oppure «l’insieme, la trama di uno scritto o di un discorso» ha enormemente allargato, in questi ultimi tempi, la sua area semantica (cioè di significato). Ma se in alcuni casi viene usato in un’accezione che è solo un po’ più ampia del significato originario – come per esempio in espressioni del tipo nel contesto degli studi scientifici la matematica riveste un ruolo fondamentale; oppure nel contesto di questa strada quella casa stona, diventando così quasi sinonimo di «ambito» – in altri casi il suo impiego è decisamente fuori luogo, ed è dettato unicamente dal goffo tentativo di elevare il tono del discorso o dello scritto, come per esempio in quest’espressione, letta su una confezione alimentare: i prodotti integrali sono fondamentali nel contesto dell’alimentazione.
Anche discorso viene usato continuamente al di là del suo significato originario: il discorso (cioè la linea editoriale) di quell’editore è interessante; quel partito sta sviluppando un discorso che non convince, e addirittura quel negozio ha scelto di proporre un discorso d’élite. Ė dunque impiegato, come risulta dagli esempi citati, al posto di «linea» (politica, ideologica, di vendita ecc.) e anche di «scelta».
Portare avanti è un’espressione molto in voga e la troviamo dappertutto, nei significati di «condurre», «sviluppare», «continuare», «scegliere», «decidere», «insegnare» e tantissimi altri.
Nelle parole di moda o parole jolly, dunque, se da un lato si verifica un ampliamento di significato, che certamente sarà acquisito stabilmente nel patrimonio lessicale della comunità dei parlanti (e sarà certamente il caso di contesto, che nel giro di pochi anni acquisterà indubitabilmente il significato di «ambito»), riflettendo in ciò una tendenza fondamentale e vecchissima dell’evoluzione della lingua, dall’altro si assiste a un impiego indiscriminato, che toglie addirittura alla parola i suoi confini semantici e ne fa un passe-partout buono per qualsiasi occasione.
Abbiamo richiamato più volte il concetto di lessico: può essere utile sapere da quali tipi di voci è composto il lessico della lingua italiana. L’insieme delle parole che costituiscono il patrimonio lessicale di una lingua può essere considerato e distinto in categorie secondo diverse angolature. Un primo punto di vista è quello dell’origine delle parole.
Voci popolari derivate dal latino
La stragrande maggioranza delle voci italiane proviene dal latino parlato (l’italiano, come sappiamo deriva dal latino, così come le altre lingue romanze o neolatine, per esempio il francese, lo spagnolo, il rumeno) attraverso quella che viene chiamata nella terminologia linguistica tradizione ininterrotta. Ciò significa che queste parole sono state usate continuativamente passando dalla bocca di coloro che parlavano latino alla bocca di coloro che, attraverso fasi intermedie, parlavano una lingua che si poteva già chiamare italiano. Naturalmente queste parole, passando dal latino all’italiano, hanno subito delle modificazioni nella loro forma: homo è diventato uomo, spata è diventato spada, canis è diventato cane, flores è diventato fiori, amamus è diventato amiamo, amant è diventato amano, e così via. Nella maggior parte dei casi il significato della parola si è mantenuto immutato; ci sono però molte parole che nel passaggio dal latino all’italiano hanno subito mutamenti di significato: per esempio domus, «casa», è diventato il nostro duomo, mittere è passato dal significato di «mandare» a quello di «mettere», causa è diventato «cosa», patronus è diventato «padrone».
Questi due ultimi esempi ci mostrano come spesso, accanto alla parola di tradizione ininterrotta, esista in italiano un’altra parola derivante dalla medesima voce latina, ma più simile a questa sia nella forma sia nel significato: causa e patrono derivano dalle latine causa e patronus così come cosa e padrone.
Voci dotte derivate dal latino
Sono i cosiddetti latinismi, cioè termini che, in periodi della storia dell’italiano successivi alla sua nascita, sono stati assunti dal latino per via dotta e non popolare come le altre parole derivanti dalla lingua d’origine che abbiamo appena visto. Ciò significa che, mentre cosa e padrone sono la continuazione di causa e patronus nel livello parlato e popolare e sono nate insieme all’italiano, causa e patrono sono state attinte volontariamente dal latino da intellettuali che, in un momento preciso della storia della lingua italiana, consapevolmente e determinatamente hanno sentito la necessità di creare nuovi vocaboli. L’assunzione di latinismi di questo tipo è stata più massiccia nei periodi in cui il latino ha esercitato un fascino e un’influenza maggiori sulla cultura, come per esempio durante l’umanesimo, cioè nel XV secolo.
Queste voci non presentano, o presentano in misura molto limitata, le modificazioni formali che hanno subito le parole derivate per via popolare, e spesso riprendono il significato latino che aveva subito uno slittamento nel passaggio a questi derivati: è il caso, appunto, di causa e patrono di fianco a cosa e padrone.
In queste coppie di parole entrambi i termini, dal significato diversissimo, provengono dalla stessa base latina:
causa – cosa |
lat. causa |
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pieve – plebe |
lat. plebs |
padrone – patrono |
lat. patronus |
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biscia – bestia |
lat. bestia |
aia – area |
lat. area |
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Ischia – isola |
lat. insula |
pesare – pensare |
lat. pensare |
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giustezza – giustizia |
lat. iustitia |
teglia – tegola |
lat. tegula |
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angoscia – angustia |
lat. angustia |
Ma non sempre al latinismo si oppone la parola popolare derivante dalla stessa base latina. Numerosissimi sono i latinismi che, insieme ai grecismi, costituiscono il settore delle voci dotte: per fare solo qualche esempio, ceruleo, obliterare, abolire, peculiare, clinico, diagnosi. Alcune scienze, come la medicina e la botanica, sono particolarmente ricche di latinismi e grecismi.
Parole derivate dal greco
A proposito di grecismi, il loro contingente nel lessico italiano è costituito dagli appena citati grecismi dotti, assunti, con procedimento analogo a quello dei latinismi, direttamente dal greco in epoca moderna, e dalle voci greche penetrate in tempi antichi nel latino, e di conseguenza poi nell’italiano, per via popolare.
Alla prima categoria, cioè a quella dei grecismi dotti, appartengono forme composte come telegrafo, idrofobo, antropologo, nevropatia, bibliofilia; alla seconda, cioè a quella dei grecismi entrati già in antico nella lingua latina, voci come dattero, sedano, gambero, ostrica, lampada.
Molte delle parole italiane che non derivano dal latino provengono da lingue straniere.
Voci dialettali
Numerose parole sono penetrate nella lingua anche dai dialetti italiani, pur se in quantità molto inferiore a quelle straniere. I dialetti costituiscono, e hanno costituito in passato, un’importante fonte di arricchimento per il lessico italiano, sia per la forte carica espressiva di molte voci, che vengono proprio per questo accolte nella lingua comune, sia per la secolare carenza dell’italiano nei confronti di voci pratiche, di arti e mestieri e della vita di ogni giorno.
Dai dialetti settentrionali provengono fra le altre, anta (imposta), arrangiarsi, grana (noia), darsena; dal romanesco burino, capoccia, abboffarsi, macello (disastro); dai dialetti meridionali camorra, guaglione, cafone, paesano (concittadino).
Moltissime sono le voci dialettali entrate nell’italiano nell’ambito della gastronomia: fontina, mozzarella, branzino, scampo, grissino, vongola, per citarne solo qualcuna.
Termini germanici
Appartengono a questa categoria, oltre alle innumerevoli parole straniere entrate nel lessico italiano in epoca moderna, anche le voci germaniche penetrate già nel latino, prima della nascita dell’italiano, durante le invasioni barbariche.
Nell’ambito di quelli che sono generalmente chiamati germanismi, si distinguono i termini gotici, più antichi, tra cui banda, fiasco, grinta, tappo; i termini longobardi (i più numerosi) tra cui schiena, guancia, ciuffo, panca, spaccare; e i termini franchi, tra cui bosco, guerra, guanto, guardare. Altra cosa sono i germanismi entrati nell’italiano nei secoli più vicini a noi.
Parole nuove
Infine, l’ultima categoria di voci, dal punto di vista dell’origine, è quella delle parole nuove (neologismi) nate all’interno della lingua stessa: voci, cioè, che non provengono da nessuna fonte esterna, a differenza di quelle che abbiamo visto finora.
Svariati possono essere i modi in cui nasce una parola nuova. Il più frequente è senza dubbio la derivazione, cioè la creazione di un termine nuovo attraverso prefissi (particelle premesse alla parola, per esempio a-morale) e suffissi (particelle posposte alla parola, per esempio gamb-izzare). Anche la composizione è un sistema sempre più produttivo: una parola viene creata unendo o avvicinando fra loro elementi diversi (per esempio acchiappafantasmi, portachiavi, elettroscopio). Le parole possono poi avere un’origine onomatopeica, cioè essere create a imitazione dell’azione, e più spesso del suono, che esse rappresentano: per esempio bisbigliare, tintinnare, pingpong, bip bip ecc. Questo modo di creazione di voci, non molto frequente nella lingua comune, lo è certamente di più nel linguaggio dei fumetti e nel lessico infantile.
Oltre alla nascita di nuove unità lessicali, rientrano in un certo senso nell’ambito dei neologismi anche le parole che, già esistenti nel lessico, assumono significati nuovi: è, questa, una delle fonti più cospicue di arricchimento del lessico. Pensiamo a un caso come satellite: presso i romani indicava la guardia dell’imperatore; poi acquisì il significato astronomico di «pianeta minore che gira attorno a un pianeta maggiore», passando infine al significato attuale di «satellite artificiale».
La creazione di neologismi
La creazione di neologismi è un’esigenza primaria nell’uso linguistico di una società: i settori che spingono con maggior forza in questa direzione sono indubbiamente quelli della scienza e della tecnica, quelli della politica e dell’economia, della moda, dello sport; ma anche il lessico di tutti i giorni vede nascere al suo interno voci nuove. Non tutti i neologismi che nascono restano a far parte stabilmente della lingua: alcuni vi entrano solo fuggevolmente, altri vi entrano per un periodo più o meno lungo per poi essere abbandonati, spesso per il decadere dell’oggetto o del concetto che designano. Nessuno oggi conosce o usa più voci come confusionismo, forcaiolo (reazionario), malandrinaggio, panamino (scandalo finanziario), che tanta diffusione hanno avuto circa un secolo fa.
Molto spesso una voce nuova stenta a venire accettata nella lingua, e rimane confinata per un certo periodo in un’area di parcheggio attigua al sistema lessicale, mantenendo una certa connotazione di voce anomala, brutta, da usare con circospezione. Ma a un certo punto la parola, dopo aver stazionato in questa zona di provvisorietà, viene stabilmente accettata. Pensiamo a casi come approcciare, contattare, impatto, acculturazione: voci che hanno fatto storcere il naso a non poche persone, e non solo ai linguisti più conservatori, e che piano piano sono entrate a far parte del patrimonio comune e accettate da tutti. D’altra parte sappiamo che non soltanto nei confronti delle voci straniere, ma anche nei confronti delle voci nuove di formazione indigena, cioè interna a una lingua, c’è sempre stata una forte ostilità da parte dei settori più conservatori.
Stratificazione verticale del lessico
Le parole di una lingua, oltre a differenziarsi rispetto all’origine, come abbiamo appena visto, si differenziano dal punto di vista del tono: vi sono voci più elevate e voci di tono più basso, voci che vengono usate quasi solo in ambito letterario e voci che non escono dall’ambito familiare e colloquiale.
Se molte parole non sono caratterizzate in alcun senso e il loro impiego è esteso a tutti gli ambiti linguistici (per esempio casa, figlio, cielo, grande, amore, bontà, morte), molte altre invece hanno una precisa caratterizzazione e il loro impiego è limitato a settori ristretti. Sono le voci che sul vocabolario portano, oltre alle abbreviazioni relative alle categorie grammaticali, un’abbreviazione che ne indica il tono, il registro.
Voci letterarie
Voci letterarie sono quelle usate prevalentemente, soprattutto nel passato, nella letteratura, e che nella lingua comune attuale vengono sentite come antiquate o troppo elevate: al loro interno possiamo individuare le categorie delle voci poetiche e degli arcaismi. Queste tre etichette con le relative abbreviazioni vengono adottate nei dizionari per designare termini usati prevalentemente in letteratura: in genere le abbreviazioni lett. (letterario) e ant. (antico, antiquato) sono intercambiabili, mentre una voce letteraria o antiquata non necessariamente è poetica. Qualche esempio fra i tanti: angere (affliggere), lunghesso (lungo, vicino a), uopo (necessità), niuno (nessuno), poscia (poi), obliare (dimenticare), assidersi (sedersi), indarno (invano).
Voci familiari
Con l’etichetta di voce familiare vengono generalmente indicate dai dizionari quelle parole, di tono più dimesso e disinvolto, che fanno parte del lessico comune prevalentemente nel livello parlato, e si caratterizzano quasi sempre per una spiccata espressività: a questa categoria appartengono parole come accoppare, beccarsi qualche cosa (per esempio un raffreddore), cagnara, rompiscatole, zucca (testa).
Voci volgari e gergali
Un registro più basso è quello delle voci etichettate come volgari (per esempio fregarsene, fare casino); o la categoria delle parole gergali, proprie di ambiti estremamente ristretti, come quello militare o quello studentesco, alcune delle quali entrano nel linguaggio corrente mantenendo per lo più una connotazione scherzosa: per esempio spaghetto e strizza (paura), rugarsi, girata, tabaccare (andare velocemente). Ma la maggior parte di queste voci di origine gergale non è accolta nei dizionari d’uso.
Questi i principali registri che possiamo individuare all’interno del lessico. Nella suddivisione delle voci secondo il loro ambito di impiego, notevole rilevanza rivestono quelli che vengono chiamati dagli specialisti sottocodici, cioè i diversi linguaggi speciali, dei quali si parlerà ampiamente più avanti. Elevatissimo è, all’interno delle voci registrate in un dizionario, il numero di quelle che portano un’abbreviazione indicante un linguaggio speciale, dalla medicina alla botanica, all’economia, alla burocrazia. Infine, anche le voci dialettali e regionali, di cui abbiamo già detto, vengono indicate con l’abbreviazione dial. o reg., region.
Etimologia
Ferie, feriale
Chi non si è chiesto la ragione di una contraddizione linguistica come quella che caratterizza le due parole ferie e feriale? Ferie indica i giorni di festa, i giorni non lavorativi, mentre al contrario feriale significa giorno non festivo, giorno lavorativo. La spiegazione di questa apparente assurdità ci riporta ai tempi antichi. In latino feriae, con il derivato ferialis, e (dies) festus, parole dell’antica terminologia religiosa pagana, indicavano, allo stesso modo, il giorno consacrato alla divinità e quindi il giorno di riposo dal lavoro. La diffusione del cristianesimo fece nascere, per indicare la giornata dedicata a Dio, dies dominica (da Dominus, «Dio, Signore»), poi semplicemente dominica, «domenica». Feriae e ferialis cominciarono così ad essere sentite, in quanto termini di ascendenza pagana, come parole opposte a dominica, e quindi assunsero gradatamente il significato di «giorno non festivo», mentre dies festus e poi festivus continuarono a indicare il «giorno non lavorativo», così come dominica.
L’antico significato di feriae si è mantenuto, in italiano, nella parola composta ferragosto, dal latino feriae Augusti, cioè «ferie di agosto», antica festività pagana che la Chiesa fece propria, facendola coincidere con la festività cristiana dell’Assunzione di Maria.