Mussolini, Benito (Dovia di Predappio, Forlì, 1883 – Giulino di Mezzegra, Como, 1945).
Mussolini, Benito (Dovia di Predappio, Forlì, 1883 – Giulino di Mezzegra, Como, 1945). Uomo politico.
Figlio di un fabbro, Alessandro, e di una maestra elementare, Rosa Maltoni, crebbe nell’ambiente popolare romagnolo, allora anarchicheggiante, anticlericale, socialista: dimostrò durante gli studi natura orgogliosa e ribelle, tanto che fu espulso dal collegio Carducci di Forlimpopoli per la sua rissosità; riuscì, tuttavia, grazie all’ingegno pronto e vivace, a conseguire, nel 1901, il diploma di maestro. Aderì poi al partito socialista e, per non sottostare al servizio di leva, emigrò, dopo un breve periodo di supplenza, in Svizzera, dove ebbe modo di farsi notare per la sua violenta oratoria; lesse in quegli anni, disordinatamente, molti libri, e si venne formando una cultura rimasta poi sempre superficiale, fatta soprattutto di testi anarchici, nietzschiani e sindacalisti. Tornò nel 1905 in Italia e prestò servizio militare nei bersaglieri, a Verona, fino al 1906, per insegnare in seguito francese a Oneglia e iniziare una collaborazione più intensa e assidua ai fogli socialisti. Chiamato a Trento a dirigere la locale Camera del Lavoro e il settimanale L’avvenire del lavoratore, collaborò con Cesare Battisti, ma venne presto espulso e ritornò a Forlì dove, congiuntosi in libera unione con Rachele Guidi da cui, nel 1910, ebbe la prima figlia, Edda, diresse la federazione socialista e il settimanale La lotta di classe.
Nel 1911, per aver capeggiato le dimostrazioni popolari contro la guerra libica, fu condannato, con Pietro Nenni, a cinque mesi di carcere. L’anno successivo, il congresso nazionale socialista di Reggio Emilia vide una sua notevole affermazione: riuscì a imporsi tra i maggiorenti della fazione estremista e a far espellere dal partito i riformisti e i sostenitori di Bissolati.
Chiamato alla direzione dell’organo del partito, l’Avanti!, riuscì a moltiplicarne la tiratura e ad acquistare, grazie al suo stile perentorio e aggressivo, notevole influenza tra gli elementi giovani e rivoluzionari del socialismo, sostenendo, allo scoppio della prima guerra mondiale, tesi violentemente antimilitaristiche e decisamente neutraliste. Ma già nell’ottobre 1914, con un clamoroso voltafaccia, pubblicò sull’organo socialista un articolo in cui chiedeva una «neutralità attiva e operante»; nel giro di pochi giorni diventò acceso interventista, convinto, come suonava la sua tesi ufficiale, che la guerra era un atto rivoluzionario da cui il socialismo non poteva essere assente.
Espulso dal partito e sostenuto dagli aiuti in danaro dell’ambasciata francese e degli agrari emiliani, il 14 novembre pubblicava il primo numero di un suo giornale, Il popolo d’Italia, con cui dava inizio a una violenta campagna per l’intervento. Richiamato alle armi nel 1915, nel 1917 si feriva durante un’esercitazione e dopo la guarigione tornava alla direzione del giornale. Mentre la sua fortuna pareva, alla fine della guerra, in netto declino, fondò, il 23 marzo 1919 a Milano, il movimento dei «Fasci italiani di combattimento», ispirato a postulati repubblicani e socialisteggianti a cui aderirono in un primo momento non più di un centinaio di transfughi di vari partiti.
Le elezioni del 1919 segnarono tuttavia una grossa sconfitta del movimento: ma, negli anni successivi, man mano che l’ondata di sinistra diminuiva di vigore e riprendevano forza le tendenze conservatrici, M. avvertendo con acuto intuito politico l’evolversi della situazione, trasformò il suo movimento in un’organizzazione che si valeva della violenza di «squadre», armate, per difendere «l’ordine» e adottava come insegna ideologica la difesa. della vittoria e l’esaltazione di tutti i valori «nazionali».
Finanziato dagli agrari, soprattutto padani, il movimento si diffuse rapidamente anche perché assecondato, o non osteggiato, dal governo che vi vedeva un freno alla spinta delle sinistre, e partecipò alle elezioni del 1921, riuscendo a mandare in parlamento una prima pattuglia di deputati mentre continuavano in tutto il paese le spedizioni punitive contro le sedi dei partiti e delle associazioni sindacali di sinistra e contro i loro uomini più rappresentativi. Giocando con grande abilità i vecchi ceti conservatori, che si illudevano di aver trovato nel fascismo uno strumento per i loro fini, organizzando e rinfrancando i ceti medi e intimidendo, con la violenza armata, le forze di sinistra, M. riuscì nel 1922 a presentarsi come l’unico uomo in grado, in Italia, di risolvere la crisi del dopoguerra.
La debolezza del governo Facta e l’appoggio del re gli consentirono di portare a buon fine la marcia su Roma (28 ottobre 1922), decisa con rara tempestività, e di impadronirsi quindi del governo. Da allora in poi la vicenda di M. si identifica con quella del fascismo al potere: dal 1922 al 1925 si combatté, sul terreno legale e parlamentare e su quello illegale della violenza, la lotta tra il fascismo e le opposizioni; essa culminò, immediatamente dopo le elezioni del 1924, svoltesi sotto il segno della legge Acerbo (per cui il semplice conseguimento di una minoranza relativa avrebbe consentito di avere la maggioranza in parlamento), con l’assassinio del deputato socialista Matteotti, che aveva coraggiosamente denunziato, dalla tribuna parlamentare, i brogli elettorali fascisti.
Il «duce» (come ormai era chiamato il capo del governo) riuscì tuttavia a superare, con l’appoggio soprattutto del re e della milizia armata, qualche mese difficile, e a edificare, nel biennio 1925-1926, con la legge sul capo del governo, sulla stampa, sulle opposizioni, sul Tribunale Speciale, le mura maestre dell’edificio totalitario; nel 1927 provvide, con la Carta del Lavoro, a regolamentare i rapporti tra le classi ribadendo il privilegio del capitale, e nel 1929 concluse il primo settennio del suo governo realizzando la conciliazione con la Chiesa (Patti lateranensi). Negli anni seguenti si perfezionarono le strutture dello Stato totalitario e nel contempo si rafforzò la dittatura, per cui tutti i poteri vennero a raccogliersi nelle mani di M.. Anche in politica estera il fascismo tendeva ad adottare i metodi dell’intimidazione e della violenza: dall’episodio di Corfù del 1923 fino ai molti atteggiamenti di revisione dei trattati di Versailles degli anni successivi, l’irrequietezza di M. fece del fascismo un elemento di perturbazione internazionale che il Patto a Quattro, nel 1933, non riuscì a sanare. La guerra di Etiopia dei 1935-1936 sembrò segnare il trionfo personale del dittatore contro le misure sanzioniste della Società delle Nazioni, decise da 52 Stati, e incoraggiò l’intervento italiano nella guerra civile spagnola; ma, in realtà, fu all’origine dell’alleanza tra fascismo e nazismo per cui l’Italia si legava alla rischiosa e brutale dinamica nazista e ne diveniva succube attraverso il patto d’Acciaio, firmato nel 1939 con grave leggerezza e senza misurare l’ampiezza e la gravità delle conseguenze.
Anche personalmente la figura di Hitler dal 1938 in poi veniva a eclissare quella di M. che, senza rendersi ben conto della grave impreparazione del Paese e fiducioso nella forza dell’alleato, precipitò l’Italia, nel giugno 1940, nella seconda guerra mondiale.
Il duce, nel corso della guerra, accumulò nuovi e più gravi errori, politici e militari; mentre la direzione effettiva del conflitto era nelle mani tedesche, e il popolo si staccava sempre più dal fascismo; anche i collaboratori più intimi non potevano non avvertire l’estrema gravità del fatto che il destino del Paese fosse ormai affidato agli impulsi variabili, irrazionali e, quel che è più grave, incontrollati, del dittatore. Subito dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia (luglio 1943), gli stessi gerarchi si misero d’accordo per eliminarlo dalla scena nella famosa seduta del Gran Consiglio, il 25 luglio. Fatto quindi arrestare per ordine del re, trasferito prima a Ponza e poi alla Maddalena e al Gran Sasso, M. venne liberato dopo la proclamazione dell’armistizio con un audace colpo di mano del maggiore O. Skorzeny e di alcuni paracadutisti tedeschi.
Trasportato in Germania, M., presi accordi con Hitler, proclamò da radio Monaco la costituzione nell’Italia occupata dai Tedeschi, della «Repubblica Sociale Italiana», un organismo politico che fu completamente succube dei Tedeschi. Senza più possibilità ormai di svolgere una politica autonoma, M. consentì la fucilazione del genero G. Ciano, e annunciò una socializzazione a cui le masse popolari furono le prime a non credere. Il suo contegno nei confronti dell’alleato fece di lui il principale responsabile della sanguinosa guerra civile che si scatenò in Italia. Cercò invano, nell’imminenza della fine, di negoziare una resa con il Comitato di Liberazione Nazionale e nella notte del 25 aprile fuggì su un autocarro militare travestito da soldato tedesco; scoperto e catturato dai partigiani a Dongo, la mattina del 28 insieme a Claretta Petacci veniva fucilato per ordine del Corpo di Liberazione Nazionale.
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