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Breve storia della lingua italiana

La struttura linguistica italiana odierna è il risultato di secoli, addirittura di millenni di storia

La struttura linguistica italiana odierna è il risultato di secoli, addirittura di millenni di storia.

Dobbiamo risalire ai tempi in cui il latino, padre dell’italiano e dei dialetti della nostra penisola, si impose sulle altre lingue che in questa erano parlate.

Verso il 500 a.C. il territorio italiano era occupato da numerosi popoli diversi, frutto dell’incontro dei popoli mediterranei, i più antichi insediatori locali, con gli indoeuropei, venuti dal di fuori; per citarne solo alcuni, Liguri, Celti, Veneti, Etruschi, Latini, Osco-Umbri, Sanniti, Sardi, Sicani, Siculi. Roma, fondata dai Latini, secondo la leggenda nel 753 a.C., impose gradualmente ma inesorabilmente la propria supremazia, tanto che verso il 100 a.C. l’area italiana era quasi completamente sotto il suo dominio.

Dal punto di vista linguistico, Roma non esercitò mai, né durante i primi secoli della sua conquista della penisola, né successivamente affermando la sua immensa potenza sugli altri territori al di fuori dell’Italia, una imposizione della propria lingua sulle altre; mantenne anzi un profondo rispetto per le lingue, come per gli usi, dei popoli che assoggettava. La latinizzazione avvenne, con modalità diverse da area ad area dell’impero, in gran parte per scelta da parte dei nuovi cittadini romani, che acquistavano dignità, prestigio e innalzamento sociale impadronendosi della lingua dello stato più forte del Mediterraneo.

Alla fine del I secolo d.C. nella penisola italiana le lingue dei popoli conquistati dai Latini erano quasi completamente scomparse, lasciando però delle tracce, più o meno consistenti, nel latino parlato al loro posto nelle aree da loro stesse prima occupate; vedremo più avanti come queste tracce, riemerse con maggior forza in tempi successivi, abbiano contribuito a determinare differenze tra i diversi dialetti (questo fenomeno è detto sostrato).

Va inoltre osservato che il latino incontrava nella sua espansione lingue più distanti da sé, come l’etrusco, lingua mediterranea, e lingue più simili a sé, come l’osco-umbro, lingua indoeuropea al pari del latino. Nel primo caso assumeva pochissimo dalla lingua esterna e si manteneva quindi pressoché inalterato nella sua affermazione su quel territorio; nel secondo caso si mescolava con la lingua parlata in quell’area, modificandosi più o meno sensibilmente. Ecco la ragione per cui il toscano, sorto dal latino nell’area etrusca. è più simile a questo di quanto non siano, per esempio, i dialetti dell’area centro-meridionale, nati dall’innesto del latino sull’osco-umbro.

Così, con l’affermazione del latino sulle altre lingue, l’Italia raggiungeva la sua prima unificazione linguistica.

Fuori d’Italia, i territori inglobati nell’Impero venivano romanizzati più o meno profondamente, ma non sempre il latino si imponeva sulle lingue preesistenti. La vasta area in cui il latino si sostituì alle altre lingue viene chiamata Romània.

Le lingue romanze o neolatine, nate nei territori latinizzati della Romània (italiano, francese, provenzale, spagnolo, catalano, portoghese, rumeno) insieme ai dialetti neolatini, sono il risultato dell’evoluzione del latino. Il latino non era una lingua monolitica, sempre uguale a se stessa. Intanto, ha subito nel corso dei secoli della sua storia profonde trasformazioni. Poi, fatto fondamentale, esisteva una sostanziale differenziazione fra il latino parlato e quello letterario, in particolare quello del I sec. a.C., il cosiddetto latino classico, regolato su quello degli scrittori. Il latino classico, quello che viene insegnato dalla scuola, costituiva un registro più elevato rispetto al latino parlato, più scelto di questo nel lessico, più regolato nella morfologia, più ricco nella sintassi. Ma è dal latino parlato, denominato anche latino volgare (parlato, si badi, non solo dal volgo ma da tutti i livelli della popolazione) che derivano le lingue romanze, e quindi anche l’italiano. La trasformazione che ha portato il latino volgare a differenziarsi nelle diverse parlate romanze è stato un processo molto lento e complesso. In epoca imperiale, il latino parlato si venne sempre più allontanando dal latino scritto, dal latino classico: con il passare del tempo le modificazioni che lo investirono aumentarono quantitativamente e qualitativamente fino a che, nell’VIII secolo all’incirca, la lingua parlata nelle diverse zone della Romània non era più il latino, ma le diverse lingue romanze (in Italia, le varie parlate sulle quali, come vedremo, si impose il toscano).

Le cause che portarono a questo radicale mutamento furono diverse. Il progressivo diminuire del prestigio politico di Roma e il parallelo crescente peso assunto da altri centri favorì indubbiamente, con il suo processo centrifugo, la disgregazione linguistica, permettendo il riemergere e il rinvigorirsi di quelle tracce lasciate nel latino dalle lingue ad esso preesistenti (sostrato). Il Cristianesimo portò nel latino parlato innovazioni molto vistose e favorì in modo particolare il popolarismo. La decadenza della cultura, iniziata negli ultimi tempi dell’Impero Romano e aumentata notevolmente durante l’alto Medioevo (soprattutto nei secoli V-IX) contribuì fortemente ad allontanare la lingua parlata da quella scritta. Infine, le invasioni barbariche determinarono profondi rivolgimenti sul piano politico-sociale, favorendo il crollo dell’Impero, e dal punto di vista linguistico influenzarono l’evoluzione del latino parlato, soprattutto a livello lessicale. Cosi, nella nostra penisola tra il I e l’VIII secolo si determinò quel processo linguistico che portò dal latino volgare alle diverse parlate, attraverso una serie di modificazioni fonologiche, morfologiche, lessicali e sintattiche nella lingua orale, di generazione in generazione.

La coscienza dell’avvenuta trasformazione linguistica, la coscienza che la lingua parlata era ormai una realtà diversa dal latino si ebbe in Italia solo nel X secolo (per altre lingue romanze, come il francese, tale consapevolezza si ebbe già un secolo prima): sono di questo periodo, infatti, alcune testimonianze scritte in tal senso, che parlano di “lingua volgare”.

I primi documenti di una lingua non più latina ma decisamente volgare, cioè italiana, pur se intrisa di latinismi, si hanno a partire dal IX secolo. Si tratta di testi di carattere pratico, non ancora letterari (il fiorire di una vera e propria letteratura italiana si avrà, come vedremo, più tardi); alcuni appartengono ad un filone religioso, altri ad un filone giuridico, altri ancora ad un filone economico-commerciale. Sono molto differenziati da un punto di vista linguistico-geografico: gli addetti ai lavori possono infatti individuare con facilità l’area da cui ognuno di essi proviene, e addirittura si può distinguere un documento scritto a Pistoia da uno scritto a Lucca, uno scritto a Firenze da uno scritto ad Arezzo, e così via.

Fra i primi testi in volgare viene generalmente citato il cosiddetto Indovinello veronese

Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba et negro semen seminaba

(Si spingeva i buoi, arava i biondi prati, teneva il bianco aratro e seminava nero seme: si riferisce alla metafora antica che paragona la scrittura all’aratura). Risale alla fine dell’VIII secolo-inizio IX ed è di area veneta. Sulla natura decisamente italiana della sua lingua gli studiosi non sono concordi: molti, infatti, la considerano ancora latina (e questo ci dà la misura dell’estrema difficoltà di pronunciarsi sull’esatta natura della lingua di testi che documentano un’evoluzione linguistica complessa e non sempre lineare).

Sicuramente volgari sono, invece, i Placiti campani, che consistono in quattro formule testimoniali in italiano inserite in un testo latino. Sono state scritte tra il 960 e il 963 in area campana (Capua, Sessa e Teano). Il primo di essi, quello di Capua, così recita:

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti

(cioè: So che quelle terre, nei confini che qui sono indicati, per trenta anni le possedette la parte di San Benedetto).

Un testo brevissimo ma molto interessante, scoperto di recente, è l’iscrizione della catacomba di Commodilla in Roma, del IX secolo:

Non dicere ille merita a bboce

(Non recitare le segrete della messa ad alta voce).

A questi primi testi, citati solo per esemplificazione, ne seguono moltissimi altri, provenienti da aree geografiche diversissime, per il periodo dal IX al XIII secolo, quando ha inizio la vera e propria letteratura italiana. Certo, chi, senza essere competente, legga questi documenti, può nutrire dei dubbi che essi siano scritti in lingua davvero italiana, tanto grande è la differenza che separa questo italiano da quello odierno: siamo infatti ancora lontani da quella lingua unitaria che si formerà nel Trecento e si fisserà nel Cinquecento come lingua nazionale, anche se solo su basi letterarie.

 

IL DUECENTO E LA NASCITA DELLA LETTERATURA ITALIANA

Il salto quantitativo e qualitativo delle espressioni in volgare del XIII secolo rispetto ai secoli precedenti è enorme: se prima l’italiano, nelle sue diverse varietà, aveva compiuto i suoi primi passi, incerti anche se importantissimi, ora si avvia spedito e sicuro in quel cammino lungo e vario che compirà nei secoli a venire. Sorge finalmente nel Duecento una vera letteratura italiana.

Nel periodo che va dai primi documenti in volgare a tutto il XII secolo, i testi in questa lingua non erano che sporadiche apparizioni all’interno della vasta e generalizzata produzione in latino. Abbiamo visto come i primi documenti in volgare siano generalmente testi pratici: soltanto nel corso del XII secolo compaiono i primi componimenti letterari, per esempio poesie di giullari. In questi secoli la letteratura, come le altre manifestazioni della cultura nei diversi campi, è espressa unicamente in latino.

Nel corso del Duecento l’espansione del volgare negli ambiti fin allora posseduti dal latino diviene decisamente più consistente. Se in alcuni campi, come la filosofia, la teologia, la medicina, l’astrologia il latino domina ancora pressoché incontrastato, in altri settori si fa strada il volgare. Intanto nella letteratura, come vedremo meglio tra poco, nascono tradizioni diverse, sia in prosa sia in poesia. Poi, nell’ambito degli usi pratici e privati l’impiego del volgare diviene sempre più frequente. Significativa è la progressiva adozione del volgare nel diritto, nei documenti pubblici come gli statuti comunali, nella retorica. Alla base di questo processo sono da porre il progressivo affermarsi di nuove classi, mercantili e artigiane, che impongono l’idioma a loro usuale. e i mutamenti politico-economici, in principal modo il sorgere dei Comuni (interessante a questo proposito è il fatto che nei primi decenni del Duecento, all’interno dei Comuni, i podestà e i capitani del popolo cominciarono a pronunciare in italiano i loro discorsi pubblici: e ci furono maestri di retorica che scrissero opere per insegnare la composizione di questi discorsi).

Su questo volgare che dilagava a macchia d’olio ebbe un influsso fortissimo il latino, che restava, insieme al francese e al provenzale, lingue letterarie e di cultura fondamentali a quell’epoca, il modello di riferimento principale per la nuova lingua. L’influsso si fece sentire con forza nella sintassi e nel lessico: innumerevoli furono le voci assunte dal latino in ogni settore, da quello filosofico (coscienza, sostanza, causa) a quello retorico-grammaticale (grammatica, retorica), a quello dell’uso comune (cibo, desiderio, timore, gaudio). Sono, questi, i cosiddetti latinismi, voci dotte, che si differenziano dalle voci di tradizione popolare. Se pensiamo che il lessico italiano è passato, dall’XI secolo al XIV, da un patrimonio di circa 4 000-5 000 parole ad un patrimonio di circa 10 000-15 000 ci rendiamo facilmente conto della necessità di attingere ad altre lingue, fra cui in principal modo il latino.

Abbiamo visto sopra, a proposito dei primi testi in volgare, come essi documentassero l’esistenza di realtà linguistiche molto circoscritte: nel corso del Duecento, con il passaggio dalla estrema frammentazione e dal particolarismo tipici del feudalesimo al sorgere di entità politiche più vaste e forti, con il moltiplicarsi degli scambi e dei contatti, si verificano una confluenza e una unificazione di parlate locali in entità più ampie. E questo processo di unificazione di realtà locali si andrà consolidando, nel corso dei secoli a venire, su scala sempre più ampia.

L’attività letteraria duecentesca è varia e policentrica. Ci sono diversi filoni, alcuni dei quali hanno una storia breve e rimangono confinati entro ambiti ristretti ed isolati, altri invece, usciti dai loro confini culturali e geografici, si impongono su più vasta scala e costituiscono l’avvio di tradizioni che godranno di ricca e lunga vitalità. Dal punto di vista linguistico, si passa da espressioni più profondamente influenzate dalle parlate locali, come, per fare un esempio, alcune opere del milanese Bonvesin della Riva o le Rime dell’Anonimo Genovese, a espressioni più raffinate, meno dialettali (anche se il dato locale è sempre, più o meno, presente nelle scritture di questo secolo), come la poesia siciliana.

Una profonda differenza separa, in questo secolo, le espressioni letterarie in prosa da quelle in versi. La poesia tende molto presto a sprovincializzarsi e, soprattutto nell’ambito della lirica, si costituisce una tradizione coerente e unitaria che nel secolo successivo, con il modello petrarchesco, si imporrà a livello nazionale. Nell’ambito prosastico, invece, la pluralità e la diversità delle esperienze, che vanno dalla prosa narrativa alla prosa d’arte, dalla prosa filosofica a quella cronachistica, con livelli culturali e modelli di scrittura lontanissimi fra loro, impediscono la formazione di una tradizione unitaria.

Ma vediamo da vicino, anche se molto brevemente, queste diverse espressioni letterarie.

Nell’ambito della prosa del Duecento si possono individuare vari filoni. Numerose sono le raccolte di novelle, redatte soprattutto in ambiente toscano: la più famosa e importante è certamente il Novellino, scritto a Firenze da autore anonimo verso la fine del secolo. Sono opere scritte in una lingua semplice, spesso addirittura elementare: la sintassi è lineare e pochissimo articolata, la struttura del periodo si basa soprattutto sulla coordinazione e su una subordinazione di tipo molto semplice, gli ornati stilistici sono quasi inesistenti. L’impressione che prova chi legge oggi queste novelle è di una certa ingenuità.

Alcune caratteristiche in comune con la novellistica, sotto il profilo linguistico-stilistico, hanno i volgarizzamenti, cioè le traduzioni dal francese di opere di argomento arturiano o greco-romano.

Maggiore varietà caratterizza il filone dei volgarizzamenti dal latino (si traducono scrittori della latinità aurea e medievale), al cui interno figurano opere dal respiro stilistico più alto e opere scritte in uno stile più piano. Un solo nome fra i volgarizzatori dal latino, noto a molti: Brunetto Latini, il maestro di Dante.

A fianco di queste esperienze si colloca un filone di prosa d’arte, molto elaborata e ricercata dal punto di vista stilistico e linguistico, con un lessico ricco e scelto e una sintassi complessa e articolata. Essa nasce a Bologna, alla cui Università si curava la realizzazione di una prosa retorica, tradizionalmente in latino e da questo secolo anche in volgare. Guido Faba, o Fava, nei primi decenni del secolo, fu il primo ad applicare all’italiano l’ars dictandi, cioè l’arte del comporre. Ma la personalità di maggior spicco nell’ambito della prosa d’arte è senza dubbio Guittone d’Arezzo, che scrisse delle lettere (aperte), in cui, così come fece nelle sue poesie, impiegò un tipo di lingua dalla ricercatezza esasperata.

Nella poesia, accanto al filone principale, quello lirico, figurano esperienze più isolate, che avranno scarsi riflessi sulla tradizione successiva. Una di esse è la poesia religiosa umbra, con i due grandi nomi di San Francesco e di Iacopone da Todi. Il primo scrive il suo sublime Cantico delle creature la notte prima di morire, nel 1225: più che vera e propria poesia, è prosa assonanzata (destinata al canto); la lingua è un dialetto umbro illustre, privo di tratti dialettali marcati. Iacopone, di qualche decennio successivo, scrisse varie composizioni, soprattutto di carattere drammatico, in una lingua estremamente personale, dialettale e al tempo stesso colta.

Un altro filone meno noto è costituito dalla poesia didattico-religiosa dell’Italia settentrionale (soprattutto Lombardia e Veneto): esponenti principali ne sono Bonvesin della Riva e Pietro Bescapè milanesi, Uguccione da Lodi, Gerardo Patecchio da Cremona, Giacomino da Verona.

Infine, prima di passare alla lirica d’amore, ricordiamo i poeti comico-realistici, operanti soprattutto in Toscana verso la fine del secolo: Rustico di Filippo, Cecco Angiolieri e altri. Questa poesia, che indugia su temi della vita quotidiana, anche bassi e volgari, è scritta in una lingua molto vicina al parlato, ricca di termini e forme municipali e di voci rozze e triviali.

Di tipo completamente opposto è la lirica siciliana, fiorita alla corte di Federico II di Svevia tra il 1230 e il 1250: qui un ambiente particolarmente raffinato, in cui confluivano la cultura latina soprattutto retorico-giuridica e la cultura provenzale, con la sua tecnica poetica così avanzata, favorì il costituirsi di una scuola poetica che elaborò una produzione ricca, ricercata e aristocratica. I temi trattati sono principalmente l’amore e i diversi aspetti della lirica cortese. La lingua è artificiale, costruita: un siciliano illustre, che ha per base il dialetto messinese colto, al quale si sovrappongono, fortissimi entrambi, l’influsso provenzale e quello latino. Purtroppo le composizioni di questi rimatori ci sono giunte, a parte qualche eccezione, in trascrizioni fatte qualche decennio dopo da copisti toscani, che ne alterarono la veste linguistica originale. La poesia siciliana costituisce il piedistallo su cui poggia la tradizione lirica italiana, che le sarà debitrice di alcune caratteristiche linguistiche rimaste per secoli.

Fortemente influenzata dalla lirica siciliana è quella che fiorì in Toscana qualche decennio più tardi (tra gli esponenti principali, Bonagiunta da Lucca e soprattutto Guittone d’Arezzo).

Infine, l’ultima tappa duecentesca dell’evoluzione della lirica è il Dolce Stil Novo, che si fregiò di nomi importanti come quello dei due Guidi, Guinizelli e Cavalcanti, e soprattutto di Dante. I temi della lirica stilnovistica, l’amore idealizzato, la nobiltà dell’animo, la gentilezza ecc. inducono ad un linguaggio astratto, sublimato, lontanissimo dalla realtà. La lingua degli stilnovisti è estranea al volgo, all’attualità, insofferente delle plebeità municipali (fiorentina ma con misura ed eleganza), una lingua che evita preziosismi, sia lessicali che stilistici e metrici, una lingua estremamente raffinata e rarefatta.

A parzialissima documentazione di due modi di poetare e di due linguaggi assolutamente opposti, si leggano due sonetti, l’uno di Dante, l’altro di Rustico di Filippo. Ecco Dante:

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi no l’ardiscon di guardare.

 

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

 

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ’ntender no la può chi no la prova:

 

e par che la de sua labbia si mova

uno spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: sospira.

 

Ed ecco il sonetto di Rustico:

 

Dovunque vai, con teco porti il cesso,

oi buggeressa vecchia puzzolente:

ché qualunque persona ti sta presso,

si tura il naso e fugge inmantenente.

 

Li denti ’n le gengìe tue menar gresso,

ché li taceva l’alito pulente;

le selle paion legna d’alcipresso

inver lo tuo fragor, tant’è repente.

 

Ch’e’par che s’apran mille monimenta

quand’apri il ceffo; perché non ti spolpe,

o ti rinchiude sì, ch’om non ti senta?

 

Però che tutto il mondo ti paventa;

in corpo credo figlinti le volpe,

tal lezzo n’esce fuor, sozza giomenta!

 

DANTE PETRARCA E BOCCACCIO PONGONO LE BASI DELLA LINGUA COMUNE

Il Trecento è uno dei periodi fondamentali nell’evoluzione della lingua italiana: è in questo secolo, infatti, che il fiorentino letterario elaborato da Dante, Petrarca e Boccaccio comincia ad imporsi sulle altre parlate. Si pongono così le basi per quell’unificazione linguistica di tipo letterario che caratterizza la storia dell’italiano, rimasto per molti secoli lingua unicamente scritta, patrimonio dei dotti, mentre lo strumento di comunicazione parlata erano, fuori di Toscana, i dialetti. Bisognerà aspettare l’unificazione nazionale, cinque secoli più tardi, perché l’italiano cominci ad essere parlato anche al di fuori della culla della lingua, la Toscana.

Il fatto di essere usato solo come lingua scritta e a livello colto ha impedito all’italiano di modificarsi profondamente nel corso del tempo, così come è avvenuto ad altre lingue, il francese e l’inglese per esempio.

Ci si chiederà: come mai è stato proprio il fiorentino, e non un’altra parlata italiana, ad imporsi sull’intera penisola? Le ragioni sono molteplici. Intanto, certo, ragioni di carattere letterario: Dante Petrarca e Boccaccio, i giganti che dominano la scena letteraria del Trecento e che resteranno modelli incontrastati (soprattutto Petrarca e Boccaccio) nei secoli a venire costituirono una straordinaria forza di propagazione. Ma la loro fortuna linguistica si innesta su altre cause che determinano l’affermazione del fiorentino. Cause storico-politiche: Firenze nella seconda metà del Duecento inizia la sua straordinaria ascesa economico-politica, che nel giro di pochi decenni ne farà la città principale della Toscana e la renderà il centro culturale più importante in Italia fino al Seicento. Cause linguistiche: il prestigio del fiorentino riposava in buona parte sulla sua caratteristica intrinseca di maggiore purezza e vicinanza al latino rispetto alle altre parlate. Questa maggiore fedeltà al latino si deve ascrivere fondamentalmente a due cause: lo scarso influsso sul toscano di correnti innovative provenienti dall’esterno, e, più lontano nel tempo, l’impermeabilità del latino rispetto all’etrusco. E nel fiorentino si verifica un fenomeno di grande peso anche sulla storia successiva: la notevole prossimità della lingua scritta e della lingua parlata.

Con l’affermazione del fiorentino sulle altre parlate, che sarà sancita nel XVI secolo, queste scadono al ruolo sottoposto di dialetti. Non si può, infatti, veramente parlare di dialetti fino a che non si sia imposta, a livello nazionale, quella che viene chiamata lingua (anche se nel caso dell’Italia, l’affermazione del fiorentino rimane per lungo tempo circoscritta ad ambiti limitati).

Dante è stato chiamato con l’appellativo di “padre della lingua italiana”. In effetti a lui dobbiamo moltissimo, oltre che come lettori della Divina Commedia, sommo capolavoro della nostra letteratura, come fruitori delta lingua italiana. Dante infatti contribuì in maniera straordinaria all’affermazione e all’arricchimento del volgare, non solo con la sua prassi di scrittore e poeta, ma anche a livello teorico. Egli infatti dedicò un’opera, il De vulgari eloquentia, scritta in latino perché rivolta ai dotti, alla questione della lotta tra latino e volgare, pronunciandosi decisamente in favore di quest’ultimo. Nelle sue diverse opere poi, sia in prosa sia in versi, piegò il giovane volgare a nuove e altissime esperienze espressive, impiegando stili e registri fra loro anche molto diversi. La Divina Commedia rappresenta il capolavoro e l’opera della piena maturità artistica di Dante, all’interno della quale si compenetrano e si sublimano le varie esperienze poetiche precedenti. Essa è scritta in stile comico, che permetteva una grande libertà espressiva e l’impiego di voci e forme appartenenti a registri molto diversi. La lingua della Commedia si piega ai contenuti più vari, dai più concreti e addirittura triviali in molti luoghi dell’Inferno ai più elevati raffinati e rarefatti del Paradiso. Il lessico è estremamente vario e ricco, e si compone di voci dalla provenienza più disparata: francesismi, provenzalismi, dialettalismi, latinismi, neologismi, oltre naturalmente alle voci della tradizione letteraria precedente. La struttura fono-morfologica è quella del fiorentino, arricchita di molte forme extra-fiorentine, soprattutto in rima.

La Divina Commedia ebbe immediatamente una diffusione straordinaria, non solo in Toscana ma anche nelle altre regioni, e la sua conoscenza penetrò non soltanto negli ambienti dotti ma anche in quelli popolari.

Al plurilinguismo di Dante si oppone il monolinguismo del Petrarca nel Canzoniere (questa e i Trionfi sono le sue uniche opere in volgare: con spirito già umanistico, egli aveva maggiore considerazione del latino, che impiegò in numerose e importanti opere). La lingua petrarchesca tende ad una depurazione stilistica e lessicale rispetto alle esperienze poetiche precedenti. Il lessico è estremamente ridotto, costituito da voci generiche, vaghe, aliene dalla realtà concreta: il Petrarca rifugge dal realismo, dall’idiomatismo, dall’eccessiva espressività. Dal punto di vista fono-morfologico, la sostanza fiorentina è però aliena da eccessi di idiomatismo e il poeta tende ad una crescente “sfiorentinizzazione” della sua lirica, preferendo talvolta forme latineggianti a quelle fiorentine; ciò è documentato dal processo correttorio a cui egli sottopose le sue liriche, e che abbiamo la grande fortuna di poter vedere direttamente su una minuta autografa, il Codice Vaticano 3196. Viene qui documentato quel lavorio della forma che tenne occupato per decenni questo grande poeta, continuamente teso a perfezionare le sue rime correggendo, limando, annotando le impressioni e i propri giudizi sui risultati raggiunti. Le correzioni sono tutte in direzione di una crescente genericità, astrattezza e trascendenza, verso una forma più misurata, più dolce, senza dissonanze linguistiche.

Immensa fu la fortuna del Petrarca, e non circoscritta all’Italia. Nell’ambito della storia della poesia italiana, egli rappresenta un modello insuperato cui si rivolgeranno moltissimi poeti dopo di lui, o nel segno di un’imitazione pedissequa e impersonale, o nel segno di una personalissima acquisizione di lessico, stilemi e metrica (per fare qualche nome, si può pensare ad Alfieri, a Foscolo, a Leopardi, fino al novecentesco Ungaretti).

Chi legge il Decameron del Boccaccio con l’occhio alla tradizione prosastica precedente, rimane stupefatto per l’enorme salto qualitativo sia dal punto di vista letterario sia da quello stilistico. In effetti la prosa prima di lui, se si eccettuano alcune opere maggiori come il Convivio di Dante, aveva raggiunto livelli piuttosto mediocri. Il Boccaccio porta a estrema maturazione le diverse esperienze precedenti, sia nell’ambito della novellistica sia nell’ambito della prosa d’arte, con un tirocinio personale attraverso le sue opere minori, scritte prima del Decameron.

Confluiscono così nella prosa di quest’opera filoni diversissimi, che si compenetrano mirabilmente dando luogo ad una lingua estremamente varia. Com’è ben noto, le cento novelle ospitano argomenti disparati, relativi ad ambienti e personaggi molto lontani fra loro dal punto di vista geografico e sociale: si va dai personaggi del mondo cortese della prima e della decima giornata a quelli del mondo popolare della sesta e dell’ottava. La lingua e lo stile si piegano in modo mirabile alla varietà dei contenuti. Il lessico comprende voci del mondo cortese (valore, virtù, cortesia, onore ecc.) e voci del mondo popolare (zacconato, sugliardo, carapignare), idiotismi fiorentini (gnaffe, imbolare) e dialettalismi messi in bocca a personaggi di varie parti d’Italia (veneziano marido, bergolo, siciliano acanino ecc.). La sintassi spazia da periodi estremamente articolati e complessi, con impiego di costrutti latineggianti e inversioni, a periodi semplici, con moduli tipici della lingua parlata (un esempio di anacoluto: Calandrino, se la prima gli era partita amara, questa gli parve amarissima). La struttura fono-morfologica è schiettamente fiorentina.

Il Decameron godette di una grande fortuna, ma ebbe maggiori riflessi sull’evoluzione della prosa italiana il tipo di periodare complesso, latineggiante, ricco di inversioni che caratterizza alcune sue parti.

La penetrazione del fiorentino letterario nelle diverse regioni d’Italia, che compie i suoi primi timidi passi nella seconda parte di questo secolo, per proseguire con maggior vigore nei due secoli successivi, si scontra con la resistenza opposta dai volgari locali e investe in modo graduale e progressivo i diversi livelli della lingua scritta.

Naturalmente il primo ad essere interessato è il piano della letteratura; successivamente subiranno un influsso fiorentino anche scritti non letterari, pur se in modo diverso. Nell’ambito della letteratura, prima comincia ad adeguarsi al toscano la poesia, soprattutto quella lirica, per la forza esercitata dal modello petrarchesco e, meno, dantesco; nella prosa offre maggior resistenza la componente locale, fortemente connessa con quella latineggiante. La compresenza nei testi scritti di queste tre componenti, locale latineggiante e toscana, dà luogo ad un notevole ibridismo linguistico, con prevalenza, a seconda dei casi, o della componente locale o di quella toscanizzante. L’intensità di questo ibridismo varia sia in ordine alla localizzazione geografica sia in ordine al tipo di testo, ma è comunque realtà comune a tutte le scritture tre-quattrocentesche. È soprattutto nella prosa che si può chiamare “media” che il dialetto si oppone con maggior forza alla penetrazione del toscano: un esempio significativo può essere la Cronica di Anonimo Romano, che narra la vita di Cola di Rienzo, scritta poco dopo la metà del Trecento, fittamente intessuta di tratti romaneschi. Nell’ambito delle scritture documentarie, private ecc. l’elemento locale è in quest’epoca ancora nettamente dominante. Inizierà nel secolo seguente quel lungo processo di adeguamento al toscano anche per questo tipo di testi che costituirà uno degli aspetti dell’unificazione dell’italiano.

 

LA CRISI DEL VOLGARE NELL’UMANESIMO E LA SUA DEFINITIVA AFFERMAZIONE NEL RINASCIMENTO

Nella prima metà del Quattrocento, con l’Umanesimo, il volgare subì una grave crisi. In quest’epoca, infatti, il culto per le lingue classiche, il latino e il greco, comportò un vero e proprio disprezzo per l’italiano, considerato lingua inferiore e inadatta all’espressione letteraria. Si arrivò perfino a denigrare i grandi autori del Trecento, e Dante venne, da un certo Niccolò Niccoli, bollato con la qualifica di “poesia di ciabattini e di fornai”, in riferimento al suo successo anche presso i ceti popolari. Così, mentre fioriva in molte parti d’Italia una ricca e raffinata letteratura in latino, con ripresa del latino classico e disprezzo per quello medievale, a fianco dell’opera di scoperta, di studio e di edizione di autori della classicità greco-latina, la letteratura in volgare era assai ridotta. Accanto a un filone di prosa narrativa influenzata dal modello boccacciano e ad altri filoni minori, particolarmente vitali sono le espressioni letterarie di carattere municipale (come il Burchiello a Firenze e Leonardo Giustinian a Venezia).

Se sul piano letterario il volgare ebbe molto a patire per il movimento umanistico, sul piano pratico invece esso fu in un certo senso favorito. La restaurazione, infatti, di un latino di tipo ciceroniano, depurato dall’ “ inquinamento” che aveva subito nell’età imperiale e in quella medievale, lo rende meno facilmente utilizzabile per gli usi pratici, in quanto meno comprensibile e più lontano dalla lingua parlata. Così, si assiste alla progressiva conquista da parte del volgare di zone d’uso fin allora riservate al latino, nell’ambito di quelle scritture di tipo pratico che andavano dagli scritti di cancelleria ai bandi, ai documenti notarili, alle lettere, ai diari ecc.

Nella seconda metà del secolo l’uso del volgare a livello letterario riprende con vigore: all’affermazione di quello che viene chiamato l’Umanesimo volgare e che domina la scena letteraria del secondo Quattrocento, concorse notevolmente l’attività teorica e pratica di alcune grandi personalità che, pur continuando ad operare in favore della classicità, si dedicarono anche al volgare. Fra questi Leon Battista Alberti, poi il Landino, Lorenzo il Magnifico e il Poliziano. L’Alberti, oltre a scrivere opere importanti in volgare, a fianco di quelle latine, e a redigere una grammatichetta del fiorentino (che però non circolò e rimase sconosciuta per molto tempo), promosse nel 1441 una gara letteraria in volgare, il Certame Coronario, che segna una tappa fondamentale nella ripresa della nostra lingua.

Ricca fu l’attività letteraria in volgare nella seconda parte del secolo. In Toscana grandissima importanza rivestì il rigoglioso operare del Circolo Mediceo, un crogiuolo di cultura e letteratura in cui spiccano i nomi di Lorenzo il Magnifico e del Poliziano. Essi scrissero in volgare opere diverse, e la loro lingua, solo in parte modellata sulla tradizione trecentesca, risente dei modi del parlato fiorentino quattrocentesco.

Fuori di Toscana la letteratura fiorì soprattutto nelle corti: i centri politici e culturali di maggior spicco furono la Ferrara degli Estensi, la Milano dei Visconti e degli Sforza, la Napoli degli Aragonesi. A Ferrara poetò Matteo Maria Boiardo, che scrisse in una lingua più regionale il poema cavalleresco Orlando innamorato, e in una lingua più toscaneggiante, influenzata dal modello petrarchesco, il canzoniere d’amore. Milano ospitò, tra gli altri, il poeta Gasparo Visconti. A Napoli, dove la corte aragonese promosse un’attività culturale e letteraria di primaria importanza, operarono diversi poeti e narratori, fra i quali spiccano Masuccio Guardati detto Salernitano e Iacopo Sannazzaro.

Queste opere sono scritte in una lingua che risente del dialetto, del toscano letterario e del latino: a differenza, però, di quelle trecentesche, in cui il dato locale era di tipo piuttosto municipale, nel Quattrocento l’elemento locale presente nelle opere letterarie appartiene ad un’area linguistica più ampia, di tipo più regionale che locale. Si vanno infatti costituendo in questo secolo quelle che vengono chiamate koinè regionali (dal greco koinè diálectos, “dialetto comune”): strumento quasi unicamente letterario, rappresentano un impasto artificiale fra tratti regionali, toscani e latineggianti. Il dosaggio di queste tre componenti non è sempre lo stesso: in alcuni casi è più forte l’influsso regionale, in altri quello toscano, in altri ancora, ma più difficilmente, quello latineggiante.

Un esempio di progressivo adeguamento al toscano da parte di un autore è Iacopo Sannazzaro con la sua Arcadia, opera pastorale mista di poesia e di prosa: egli ne redasse due edizioni, l’una del 1485 dal forte colorito meridionale, la seconda nel 1504, con revisione della lingua in direzione dell’adeguamento al fiorentino letterario.

In generale, poi, va osservato che un’influenza maggiore del dato regionale si ritrova nelle opere in prosa, mentre quelle in versi, pur se sempre, più o meno, venate di regionalismo, toscaneggiano maggiormente, per il forte peso del modello petrarchesco.

In ambito extra-letterario è significativa l’adozione del volgare in alcune opere tecnico-scientifiche, che si oppongono al perdurante e maggioritario uso del latino, soprattutto nell’alta cultura accademica. Si tratta di un volgare ancora molto incerto e regionale: lungo cammino dovrà compiere l’italiano scientifico per giungere a maturità, e un esempio decisivo sarà offerto da Galileo Galilei, come vedremo.

In Italia le prime edizioni si ebbero intorno al 1470, e furono di opere latine e volgari. La prima opera volgare pubblicata fu il Canzoniere del Petrarca, alla quale seguirono edizioni del Decamerone, della Commedia dantesca, della Bibbia, e di altre opere. La diffusione della stampa, evento di straordinaria importanza, ebbe conseguenze notevolissime sulla lingua: non solo per la maggior diffusione di testi che evidentemente facilitò il diffondersi della lingua letteraria, ma anche per la progressiva regolarizzazione cui le opere pubblicate venivano sottoposte dal punto di vista linguistico. Una regolamentazione che era dovuta innanzitutto alla necessità di uniformazione grafica e tipografica; ma molto forte fu anche l’azione regolamentatrice esercitata dai correttori, letterati che intervenivano per conto dell’editore sulla lingua delle opere da pubblicare con criteri normativi e selettivi per noi oggi impensabili (regolamentazione grammaticale, eliminazione o sostituzione di voci dialettali, arcaiche, latineggianti).

Il Cinquecento segnò la fine di quelle koinè linguistiche che avevano dominato la scena letteraria del secondo Quattrocento. L’affermazione del toscano letterario trecentesco divenne nel XVI secolo una realtà sempre più decisiva, per opera principalmente dell’attività grammaticale che quel modello linguistico imponeva. Se fino a questo momento i tentativi di regolamentazione del volgare letterario erano stati sporadici (ricordiamo la citata grammatica dell’Alberti, che peraltro si rifaceva piuttosto all’uso vivo fiorentino), ora le grammatiche pullulano e la maggior parte di esse si muove in direzione del fiorentino letterario trecentesco. La più importante fu Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525) che, nonostante l’origine veneziana dell’autore, impongono a modello la lingua del Petrarca e del Boccaccio. Ne seguirono moltissime altre: a parte alcune, che tenevano conto anche dell’uso vivo fiorentino o delle lingue regionali, quasi tutte proponevano il fiorentino trecentesco come norma linguistica.

Tale codificazione grammaticale ebbe subito riflessi tangibilissimi nella prassi scrittoria di molti autori. Uno degli esempi più illustri e significativi di adeguamento alla norma grammaticale è costituito da Ludovico Ariosto: ferrarese, aveva scritto inizialmente il suo Orlando furioso nella koinè padana illustre, così come il suo concittadino Boiardo aveva fatto con l’Orlando innamorato. Ma alla prima edizione (1516) ne seguirono altre due (1521 e 1532) che sono il frutto di un paziente lavoro di correzione linguistica, oltre che letteraria, nella direzione dell’abbandono di forme locali e della loro sostituzione con forme consone alla norma bembiana.

Così come l’Ariosto, molti altri autori del suo secolo adeguarono la loro lingua al canone imposto dai grammatici. E l’effetto di tale adeguamento, alla fine del secolo, era molto sensibile: mentre di un testo della fine del Quattrocento si riesce facilmente a individuare l’area di provenienza, per molti testi tardo cinquecenteschi non è altrettanto immediata l’attribuzione ad una regione piuttosto che a un’altra.

La scomparsa delle koinè linguistiche nel corso del Cinquecento è dovuta anche a ragioni di carattere storico-politico. Infatti, la dominazione straniera cui l’Italia comincia in questo secolo ad assoggettarsi provoca la caduta dei centri statali e culturali italiani, le corti, che ospitavano e sostenevano quelle realtà linguistiche.

Torniamo al Bembo. La sua teoria grammaticale si inscrive nell’ambito di una posizione generale sul problema della lingua letteraria. È in quest’epoca, infatti, che i letterati cominciano a disquisire sulla sua natura e sulle sue caratteristiche ideali: nasce la questione della lingua. Il sorgere e il perdurare attraverso i secoli di un vivace dibattito attorno alla lingua è dovuto alle particolari condizioni di sviluppo della lingua italiana, soltanto scritta e patrimonio dei dotti fino all’unità nazionale. La questione della lingua, con i suoi interrogativi e le sue diverse posizioni in ordine alla natura, fiorentina o italiana, della lingua, alla norma del suo impiego, alla sua rinnovabilità o alla sua conservazione, resterà fino all’Ottocento un dibattito squisitamente letterario. Con il Manzoni, come vedremo, si porrà su basi non più unicamente letterarie, ma anche sociali. Molto sinteticamente, ricordiamo che nel Cinquecento le posizioni principali furono le seguenti: la tesi fiorentina e letteraria, sostenuta dal Bembo e da altri letterati; la tesi cortigiana (Baldassar Castiglione) e italianista (Gian Giorgio Trissino), secondo la quale (accomuniamo qui le due posizioni, non molto lontane fra loro) l’italiano ha origine non unicamente fiorentina, e la lingua letteraria deve essere aperta anche alle realtà regionali, depurate dai tratti municipali e sublimate in una sorta di lingua comune, artificiale; la posizione di coloro che guardavano al fiorentino e al toscano vivo cinquecentesco (tra essi, pur se con alcune differenze, Niccolò Machiavelli, Claudio Tolomei, Benedetto Varchi, Leonardo Salviati).

Cospicua è la penetrazione di voci straniere nel lessico cinquecentesco (e il processo aumenterà nei secoli seguenti). Ragioni storiche, naturalmente, stanno alla base di questi influssi: Francia e Spagna dominano su vaste zone della penisola e le loro lingue penetrano profondamente nel paese. Più numerosi gli ispanismi (o iberismi): se molti sono i prestiti effimeri, cioè usati magari anche una sola volta da un autore, molti sono anche i termini che entrano stabilmente nel lessico italiano (e nel lessico dialettale delle regioni a contatto più diretto con la dominazione spagnola, come la Lombardia e il Napoletano), per esempio sfarzo, sussiego, disinvoltura, dispaccio, baia, flotta, tolda, torrone, marmellata.

Dall’America vengono parole nuove, generalmente mediate dallo spagnolo, relative a cose nuove: ananas, caimano, canoa, condor, patata. Decisamente più limitato l’influsso del francese, che si farà sentire con maggior forza nei secoli successivi. Alcune delle voci francesi penetrate nel lessico italiano nel corso del Cinquecento sono per esempio equipaggio, birra, pacchetto, risorsa.

FRA SEICENTO E SETTECENTO

La lingua letteraria, arricchita, regolamentata e unificata nel secolo precedente, si permette nel corso del Seicento evasioni, aperture, eccessi sull’onda della moda barocca, che non ne intaccheranno però l’intima natura e configurazione: la maggior parte delle innovazioni linguistiche secentesche sarà rinnegata e dimenticata nel secolo seguente, portatore di novità di segno diverso, forse meno appariscenti ma più durature.

Comuni a quasi tutti i letterati che si muovono nel solco del movimento barocco sono il rifiuto della fissità della tradizione in nome di una completa libertà espressiva, e la proclamazione della superiorità della lingua moderna su quella antica (il titolo di un’opera di Paolo Beni è L’Anticrusca, ovvero il paragone dell’italiana lingua: nel qual si mostra chiaramente che l’antica sia inculta e rozza: e la moderna regolata e gentile).

Domina il gusto del magniloquente, dell’ornato in ogni settore della lingua letteraria: “è del poeta il fin la meraviglia…, chi non sa far stupir vada alla striglia” dichiara il più famoso poeta barocco, Giambattista Marino, che nelle sue diverse opere, ma soprattutto nel poema l’Adone, utilizza con massima perizia e raffinatezza gli artifici e gli stilemi più antichi della poesia barocca (metafore, gusto della parola rara ed estranea al lessico poetico tradizionale, impiego di vari moduli retorici miranti alla preziosità ecc.).

La poesia è il settore che con maggior evidenza mostra il nuovo gusto e le nuove tendenze: nell’ambito della lirica viene ripudiata e rinnegata la tradizione petrarchistica che aveva dominato dal Trecento in avanti. Significative sono poi molte opere, appartenenti a generi letterari diversi (poesia eroicomica e giocosa, commedia rusticale, satira), che si caratterizzano per il gusto dell’impasto linguistico, dell’accostamento di voci appartenenti a registri ed ambiti diversi: citiamo, tra le più significative, La secchia rapita di Alessandro Tassoni e Il malmantile racquistato di Lorenzo Lippi.

Nella prosa, il genere più investito dal gusto e dai dettami barocchi è quello dell’oratoria sacra, molto vitale nell’Italia secentesca dominata dalla Controriforma. Un procedimento di composizione tipico dell’oratoria sacra è quello dei “concetti predicabili”, cioè prediche nelle quali dall’inizio alla fine è svolta una metafora, in tutte le sue possibili diramazioni.

Alle posizioni innovative ed eversive espresse dai letterati barocchi si oppone l’attività dell’Accademia della Crusca: essa era sorta dall’Accademia Fiorentina, patrocinata da Cosimo I de’ Medici, per opera di Leonardo Salviati nel 1583. Gli accademici si misero subito al lavoro per compilare un vocabolario della lingua italiana, che fu pubblicato nel 1612. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca era ispirato dalla teoria fiorentino-arcaizzante di matrice bembiana, arricchita nella riflessione salviatiana dalla considerazione della purezza intrinseca del fiorentino trecentesco: così, i testi su cui si basa il vocabolario non sono soltanto quelli letterari, ma anche testi pratici purché del secolo aureo, cioè il Trecento. Autori successivi sono accettati a patto che si siano adeguati al modello linguistico trecentesco. Un autore invece, anche se grandissimo, come il Tasso restò escluso dalle prime due edizioni del vocabolario (1612, 1623) e accolto solo nella terza (1691), perché aveva contravvenuto ai dettami fiorentinistici, aprendo il suo lessico a parole regionali ed estranee alla tradizione.

La Crusca, con le successive edizioni del vocabolario (dopo le prime tre, ne uscirono una negli anni 1729-38 e una tra il 1863 e il 1923) costituì un modello linguistico-lessicale di fondamentale importanza (l’Accademia fu soppressa nel 1783 e ripristinata nel 1811 da Napoleone: attualmente svolge attività filologica, lessicografica e grammaticale di tipo scientifico, senza più alcuna tendenza normativa e puristica).

Molte furono le voci che si levarono contro il purismo e il tradizionalismo cruscanti: nel corso del Seicento in nome della superiorità del moderno sull’antico e della libertà espressiva (Beni, Tassoni e altri), nel corso del secolo successivo in nome della necessità di sprovincializzazione, dell’apertura verso la cultura europea, delle esigenze espressive di una società moderna (fratelli Verri e altri).

Un filone di grande importanza nel panorama linguistico secentesco è costituito dalla prosa scientifica, che vede in Galileo Galilei il suo massimo esponente. Prima di lui gli scienziati che avevano optato per l’uso del volgare invece del latino non erano stati molti, e soprattutto avevano scritto in una lingua incerta, in certi casi addirittura rozza. Con Galileo, che scelse il volgare per alcune sue opere e mantenne il latino in altre, il linguaggio scientifico divenne più maturo, elegante anche se semplice e chiarissimo. La scelta linguistica di Galileo rispondeva ad un preciso atteggiamento scientifico, che opponeva la sperimentazione alle astrazioni peripatetiche. Quello che Galileo voleva, ridefinendo in volgare la terminologia scientifica latina (usando in gran parte voci del lessico comune, come per esempio pendolo, bilancetta), era mostrare quanto quella terminologia fosse astratta, costituita spesso da parole prive di contenuto scientifico reale. Dopo di lui, molti discepoli ripresero il latino, ma ormai la lingua scientifica italiana era nata e si sarebbe offerta in tutta la sua esauriente potenzialità.

Sul finire del secolo la scena letteraria e linguistica muta radicalmente. Si levano molte voci di critica e di decisa opposizione a quello che viene chiamato il “cattivo gusto” barocco e si tende a ripristinare il rispetto per la tradizione presecentesca.

Nel 1690 venne fondata l’Accademia dell’Arcadia che, in nome di un ideale di classicità e di razionalismo, mirava a ricondurre la poesia al modello del Petrarca e, soprattutto, dei suoi imitatori cinquecenteschi. Da un punto di vista strettamente linguistico, la restaurazione arcadica comportò un processo di semplificazione, dopo l’esperienza barocca che aveva portato un arricchimento e un impreziosimento della lingua. Il Metastasio, protagonista del melodramma settecentesco, nella sua vasta produzione impiega sostanzialmente un lessico povero, semplice, comprensibile.

Il panorama poetico della seconda parte del secolo – mentre l’Arcadia continua la sua attività ma non ha più il carattere di un movimento che impronta di sé un’epoca – è dominato dalle grandi personalità di Giuseppe Parini e di Vittorio Alfieri.

Il Parini si mantiene sostanzialmente fedele alla lingua della tradizione, anche se la sua opera è profondamente innovativa e progressista nei contenuti, soprattutto dal punto di vista sociale: così, per fare qualche esempio, ricorre frequentemente a perifrasi di stampo classico (il caffè viene indicato come “il legume… d’Aleppo giunto e da Moca” e la pasta di mandorle “il macinato di quell’arbor frutto/ che a Rodope fu già vaga donzella”). Non mancano, però, termini scientifici estranei alla tradizione poetica: atomo, convulsioni, ipocondria, emicrania. Anche l’Alfieri poeta innovò poco dal punto di vista linguistico; egli fu, teoricamente e programmaticamente, un conservatore in fatto di lingua e si dichiarò più volte ossequiente alla tradizione toscana. La lingua delle sue tragedie, pur se estremamente personale, con notazioni espressive particolari (superlativi, “alfierismi”), rivela un sostanziale adeguamento alla tradizione.

Forza centrifuga rispetto alla tradizione in lingua è quella di Carlo Goldoni e della commedia in dialetto. La letteratura dialettale, sorta dopo l’unificazione linguistica cinquecentesca, aveva conosciuto già nel Seicento una grande fioritura: si erano avute diverse traduzioni in dialetto di opere classiche (per esempio la Gerusalemme Liberata in bolognese, in napoletano, in veneziano, in bergamasco); nell’ambito della produzione originale, i più grandi autori secenteschi sono il milanese Carlo Maria Maggi e il napoletano Giambattista Basile. L’uso consapevole del dialetto come strumento artistico non inferiore alla lingua prosegue nel Settecento, con figure di spicco come il siciliano Giovanni Meli e, appunto, il veneziano Carlo Goldoni, grande riformatore della commedia italiana, che trasformò dalle forme improvvisate proprie della commedia dell’arte ai modi della commedia a soggetto, con il copione interamente scritto dall’autore.

Ma non abbiamo ancora toccato quegli aspetti per i quali si è parlato, a proposito dell’italiano settecentesco, di “profondo rinnovamento” e addirittura di “crisi”, e che investono in misura cospicua la prosa.

Alla base di questo moto innovativo sta in gran parte l’influsso francese. Nel panorama culturale settecentesco la Francia rappresenta un polo di riferimento fondamentale: da essa partono fermenti fortemente innovatori, che si concentrano soprattutto nel movimento illuminista. Sorgono interessi nuovi, idee nuove che si riflettono nei campi più svariati. Nell’ambito delle posizioni linguistiche si levano molte voci che invocano la sprovincializzazione, l’apertura della lingua verso argomenti nuovi, la necessità di superare forme espressive antiquate e inadatte ad esprimere contenuti che la crescita civile e culturale recava con sé. Così, si invoca maggiore libertà e maggiore modernità nel lessico e nella sintassi. La posizione più radicale è quella espressa dai giornalisti del periodico milanese “Il caffè”: in particolare, Alessandro Verri scrisse un famoso articolo dal titolo Rinunzia avanti nodaro degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, in cui sostenne la necessità di liberarsi dalle pastoie linguistiche imposte dalla Crusca e di aprire la lingua ai nuovi contenuti e alle nuove esigenze.

Il giornalismo, sviluppatosi molto in questo secolo, contribuì in larga misura al rinnovamento della lingua e alla sua diffusione: favorì infatti l’ingresso di molti nuovi vocaboli connessi con la crescita sociale, civile, scientifica e tecnica, e diede una forte spinta in direzione della semplificazione sintattica.

Il giornalismo contribuì anche alla formazione e allo sviluppo di una prosa non retorica ma comunicativa, intellettuale, quella prosa che fin allora nella tradizione italiana era stata assai scarsa e per la quale molti letterati del secondo Settecento e del primo Ottocento lamentano la mancanza di forme adatte. Generale si fa infatti a quest’epoca il rifiuto dello stile oratorio, involuto, latineggiante che aveva caratterizzato la tradizione prosastica italiana, in nome dell’esigenza di una prosa moderna e prevalentemente comunicativa. 

L’influsso francese si fa sentire soprattutto nel lessico e nella sintassi. Innumerevoli sono i francesismi penetrati nel vocabolario italiano nel corso del Settecento; se molti furono prestiti effimeri, cioè destinati ad essere abbandonati prima o dopo (per esempio regrettare “rimpiangere”, difeso “proibito”, magazzino “periodico”), moltissimi altri rimasero: nel campo della moda, dell’arredamento, della cucina (flanella, bidé, burò, bignet, ragù, dessert, champagne), in quello dell’economia (economista, importare, esportare, capitalista), in quello delle idee (analisi, ottimismo, civilizzare, cosmopolita).

Nell’ambito della sintassi, l’influsso francese favorì il profondo rinnovamento della struttura della frase, attraverso la preferenza per l’ordine diretto delle parole (tendono a diminuire le inversioni che avevano caratterizzato molta prosa italiana), la diminuzione dei legami subordinanti a favore di quelli coordinanti, la correlazione, i costrutti apposizionali, i costrutti nominali del tipo fatto che, è a lui che, è la prima volta che, nell’ambito di una generale preferenza dei valori nominali su quelli verbali, fenomeno caratteristico della prosa moderna.

Ma nonostante questi segni di rinnovamento, la lingua italiana resta ancora strumento di comunicazione dei dotti, anche se l’aumento della circolazione culturale e la maggiore mobilità allargano la fascia di coloro che, al di fuori della Toscana (dove, come sappiamo, vigeva la privilegiata condizione di identità di scritto e parlato), usano l’italiano. Testimonianza illustre del faticoso apprendimento del toscano parlato da parte di un non toscano è, per esempio, il piemontese Vittorio Alfieri. “Una lingua tanto impura e difforme e bislacca sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia”: ecco come Giuseppe Baretti, letterato settecentesco, definiva i tentativi di italiano parlato fuori di Toscana.

 

L’OTTOCENTO FINO ALL’UNITÀ

All’inizio dell’Ottocento l’italiano è ancora dunque quasi unicamente scritto. Nel parlato, oltre ai dialetti, in alcune aree e presso i ceti elevati si usa il francese (che era la lingua della conversazione colta nella Milano del Manzoni).

Esistono però sporadiche testimonianze di timidi e incerti tentativi di usare un italiano parlato a livello regionale: leggiamo come il Manzoni definisce il “parlar finito”, cioè affettato, a Milano

Voleva dire adoprar tutti i vocaboli italiani che si sapevano, o quelli che si credevano italiani, e al resto supplire come si poteva, e per lo più, s’intende, con vocaboli milanesi, cercando però di schivar quelli che anche ai milanesi sarebbero parsi troppo milanesi, e gli avrebbero fatti ridere; e dare al tutto insieme le desinenze della lingua italiana

e come il Foscolo attesta l’esistenza di una lingua “itineraria e mercantile” di comprensione interregionale

Infatti che la lingua italiana non sia parlata neppur oggi apparisce a chiunque abita, e chiunque attraversa quella penisola. Le persone educate negli altri paesi d’Europa si giovano della lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe. Or questo in Italia è privilegio solo di chi, viaggiando nelle provincie circonvicine, si giova d’un linguaggio comune tal quale tanto da farsi intendere, e che potrebbe chiamarsi mercantile ed itinerario. Bensì chiunque, dimorando nella sua propria, si dipartisse appena dal dialetto del municipio, affronterebbe il doppio rischio di non lasciarsi intendere per niente dal popolo, e di farsi deridere nel bel mondo per affettazione di letteratura

Al livello scritto, va prendendo corpo sempre di più una lingua media, impiegata per le diverse esigenze comunicative di una società sempre più complessa, al di fuori della letteratura.

Terreno particolarmente adatto alla formazione e alla diffusione di questo tipo di prosa è la stampa periodica, che conosce in quest’epoca, soprattutto in alcune città tra cui Milano, uno straordinario sviluppo. Si tratta di una lingua composita, certo poco omogenea, nella quale coesistono più o meno pacificamente elementi vecchi ed elementi nuovi: nella sintassi e nella struttura del periodo, per esempio, a un tipo di periodare complesso, letterario, tradizionale, si alterna una costruzione più semplice, lineare, moderna. Il lessico, nonostante la persistenza di certo vocabolario tipicamente letterario ed elevato, mostra spinte innovative molto forti. Citeremo soltanto i due aspetti più rilevanti dell’arricchimento lessicale che, nella prima metà dell’Ottocento, investe soprattutto la prosa media (meno, come vedremo, quella letteraria): l’elemento tecnico-scientifico e l’influsso straniero.

Il notevole sviluppo scientifico e tecnico, le nuove scoperte, le nuove invenzioni creano la nascita di numerosissime voci, che si diffondono con grande velocità soprattutto attraverso i molti periodici scientifici e settoriali sorti in questi decenni. Nella chimica: calcio, iodio, cloro; nella medicina: difterite, encefalite, tifo, per fare qualche esempio. Tra le nuove invenzioni spicca la ferrovia, introdotta negli anni trenta, la cui terminologia è in buona parte di origine inglese (vagone, rotaia, tunnel, ferrovia). Appaiono la fotografia, la stenografia, il telefono. Si moltiplicano i mezzi di trasporto. Insomma, un’infinità di nuovi termini che vanno ad arricchire proprio quei settori tradizionalmente più carenti.

Nell’ambito degli stranierismi, aumenta vertiginosamente il numero dei francesismi, che, con la dominazione napoleonica, investono soprattutto la politica, l’amministrazione, oltre ai settori già da tempo interessati dall’influsso francese.

Ma cominciano a penetrare anche anglicismi, in particolare nella politica e nella terminologia relativa ai trasporti.

Il panorama della lingua della prosa letteraria si presenta nei primi decenni ancora molto tradizionale: si assiste anzi, sulla scia delle posizioni classicistiche e puristiche espresse a livello teorico da molti letterati, ad una tendenza fortemente tradizionalistica, in opposizione a certa prosa settecentesca modernizzante.

Così, non sono certo da considerare eccezioni la prosa arcaizzante di un Botta o quella classicistica di un Giordani.

Esempi di scrittura più moderna e personale, anche se ancora nell’alveo della tradizione, sono la prosa foscoliana delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e quella leopardiana delle Operette morali.

Ma chi impresse una svolta assolutamente decisiva nella storia della prosa italiana fu Alessandro Manzoni. Egli affrontò con una consapevolezza e con un impegno veramente unici la scrittura dei Promessi sposi, muovendo dalla constatazione che in Italia non esisteva una lingua adatta per il romanzo, e in particolare per il suo romanzo romantico, popolare. Egli inizialmente cercò di costruire in modo personalissimo la lingua del suo romanzo, e ne venne fuori quella che lui stesso chiamò “un composto indigesto”, cioè la lingua della prima stesura, il Fermo e Lucia (che non pubblicò). A questa seguirono altre due redazioni (l’edizione del 1827 e quella del 1840), nella continua e incessante ricerca di una lingua viva, che fosse in grado di esprimere i particolari contenuti della sua opera e che potesse imporsi a livello nazionale. Ne uscì il capolavoro, l’edizione definitiva dei Promessi sposi, scritta in una lingua (fondamentalmente il fiorentino vivo ottocentesco parlato dalle persone colte) rivoluzionaria rispetto a quella della tradizione italiana. Il Manzoni aveva rifiutato l’artificiosità, la retorica, l’arcaismo in favore della naturalezza e della modernità. L’esempio dei Promessi sposi, anche se il suo fiorentinismo venne esasperato da alcuni seguaci, rappresentò la tappa fondamentale nel processo di modernizzazione della prosa italiana.

Dal punto di vista teorico, il Manzoni ha per primo attribuito alla questione della lingua un valore anche sociale, e non soltanto letterario, in linea con la sua posizione romantica.

La grande svolta che doveva modernizzare la lingua della poesia sarebbe arrivata qualche decennio più tardi: nella prima metà dell’Ottocento essa si muove ancora decisamente nel solco della tradizione.

I romantici, che pure sostenevano la necessità di un avvicinamento alla realtà e al popolo, trasferirono in minima parte queste istanze innovative nella lingua, continuando ad usare arcaismi e latinismi (per esempio nel Berchet dalle membra è svanito un algore, cioè un freddo, e e co’ baci una lagrima dice, cioè fa uscire); alcuni, soprattutto i più tardi come Prati, Aleardi, Betteloni, aprirono il loro lessico a voci realistiche, ma ne sortirono effetti di stridente contrasto tra queste sporadiche immissioni e l’impianto tradizionale della lingua.

Un poeta che, dall’alto della sua grandezza, innovò moderatamente ma magistralmente fu Giacomo Leopardi. In lui il tentativo di conciliare l’elemento tradizionale con la componente familiare e realistica ottenne risultati ben diversi da quelli dei poeti minori del suo tempo: egli, infatti, immette nel suo lessico voci come gallina, erbaiuolo, artigiano, accanto a voci poetiche “classiche”, vaghe e fuori dal tempo come eterno, antico, ultimo, mortale, passato, infinito.

L’indefinitezza e 1’evocatività, caratteristiche peculiari della poesia leopardiana, non escludono la quotidianità e la proprietà, anzi ad esse si saldano in una mirabile sintesi poetica.

GLI ULTIMI CENTO ANNI

Con l’unità nazionale si creano le premesse perché l’italiano diventi lingua anche parlata, diventi finalmente la lingua comune del paese e di tutti i cittadini. Al momento dell’unificazione nazionale la percentuale di coloro che parlavano l’italiano si aggirava intorno al 2,5% (una cifra davvero irrisoria!): tutto il resto della popolazione usava il dialetto. Il sorgere di uno stato unitario determina le condizioni perché si crei l’unificazione linguistica, attraverso un processo lento e complesso.

I fattori che hanno concorso all’unificazione linguistica sono stati principalmente: scuola, emigrazione esterna e interna, industrializzazione, centralità burocratico-amministrativa, leva obbligatoria, mezzi di comunicazione di massa.

La scuola (anche se l’obbligo dell’istruzione per i primi anni delle elementari fu largamente disatteso) ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione dell’italiano: essa infatti ha ridotto gradualmente la percentuale degli analfabeti, che al momento dell’unità d’Italia si aggirava intorno all’80%.

L’emigrazione (solo nel trentennio 1870-1900 emigrarono ben un milione e trecentomila persone) ha contribuito alla crescita economica e culturale di molti italiani, e quindi alla loro acquisizione della lingua a spese del dialetto.

Altra spinta determinante è stata l’industrializzazione, con i conseguenti fenomeni dell’urbanesimo e dell’emigrazione interna, che hanno contribuito alla mobilità nell’ambito della penisola, alla comunicazione fra classi socio-culturali diverse e agli scambi linguistici.

Ancora, fattore di unificazione linguistica è stata l’istituzione di un apparato burocratico-amministrativo centrale, che ha promosso l’apprendimento dell’italiano da parte di coloro che lavorano nell’amministrazione pubblica e ha favorito la sua diffusione.

La coscrizione obbligatoria, con lo spostamento da una regione all’altra dei militari di leva e l’occasione di comunicazione fra uomini provenienti da zone diverse, ha fortemente contribuito agli scambi linguistici e all’acquisizione dell’italiano.

Una forte spinta alla diffusione della lingua unitaria è venuta poi dai mezzi di comunicazione di massa, la stampa periodica prima e soprattutto, più tardi, la radio e la televisione.

Tutti questi fattori hanno contribuito a determinare una modificazione sostanziale della realtà linguistica del nostro paese: i vari dialetti sono venuti via via perdendo alcune delle loro caratteristiche più municipali e hanno subito un processo di italianizzazione, ma soprattutto si sono venute formando le varietà regionali di italiano che costituiscono oggi la realtà linguistica dominante di tutta Italia (cfr. il capitolo seguente).

Per l’italiano, dunque, si è verificato in pochi decenni un processo che per la maggior parte delle lingue è maturato nel corso di secoli, cioè l’acquisizione della lingua parlata da parte della massa dei cittadini e l’avvicinamento della lingua parlata e di quella scritta: fenomeni che in Italia sono avvenuti in tempi di società di massa e di standardizzazione della cultura e negli altri paesi molto prima di questa fase. Ciò ha comportato conseguenze molto sensibili nell’evoluzione della lingua stessa. I tempi e i modi della diffusione dell’italiano hanno favorito l’introduzione di molti fatti innovativi, e quella rapida evoluzione che da molti viene considerata una degenerazione. In questi ultimi anni si sono moltiplicati accesi dibattiti sulle condizioni dell’italiano, di cui molti lamentano la decadenza e per cui sostengono la necessità di una norma che ne argini le innovazioni.

Ma non deve essere considerato uno sconvolgimento o una degenerazione quella che è un’evoluzione inevitabile, anche se rapida e vistosa. Un’elencazione e un esame dei numerosi fatti nuovi che caratterizzano l’evoluzione dell’italiano nell’ultimo secolo sono certo impossibili in questa sede, e andrebbero fatti tenendo conto dei diversi livelli di lingua (parlata, scritta, linguaggi settoriali ecc.). Ci limiteremo perciò a riassumere alcune linee di tendenza generali che hanno caratterizzato tale evoluzione. Intanto, dal punto di vista morfologico, è venuta quasi completamente meno quella polimorfia (cioè, esistenza di forme diverse concorrenti, di doppioni: per esempio, sarebbe/saria, potrebbero/potrebbono, aveva/avea) che aveva caratterizzato da sempre l’italiano.

Nell’ambito sintattico hanno assunto sempre maggiore peso i valori nominali a scapito di quelli verbali, e si è venuto formando quello “stile nominale” che è caratteristico di molta parte della lingua scritta, in particolare di quella giornalistica.

Forte è la spinta all’economia linguistica, che si manifesta per esempio nell’uso di prefissi, prefissoidi, composti, sigle.

La generale tendenza al livellamento si riscontra nella lingua parlata e in molte espressioni di quella scritta, ma ad essa si oppone una tendenza alla settorializzazione, alla specializzazione, che investe in particolare i linguaggi speciali (cfr. i capitoli specifici su questo argomento).

Qualche parola, ora, sulla lingua letteraria. Verso la fine del secolo scorso si è verificata una profonda rivoluzione nell’ambito della lingua poetica, che si era mantenuta fino ad allora, come sappiamo, molto lontano da quella della prosa: è con Giovanni Pascoli che il linguaggio poetico si libera per la prima volta radicalmente dai modi della tradizione e dell’aulicità che lo aveva caratterizzato nel corso dei secoli. Pascoli, avvicinando la sua poesia, nei temi e nella lingua, alla vita di tutti i giorni, impiega un lessico realistico, quotidiano, anche dialettale, e rifugge decisamente dalle voci della tradizione aulica ed elevata.

Il ricorso alla quotidianità, alle cose di tutti i giorni chiamate con i loro nomi si fa più evidente e consapevole con i crepuscolari: parole comuni, banali, poco poetiche acquistano risalto accostate nella rima, con intento ironico, a parole auliche (esempio divino/intestino); continue sono le ripetizioni di parole; il periodare è lineare, più prosastico che poetico

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena

ospite della mia sorella sposa,

sposa da sei, da sette mesi appena (M. Moretti)

Un diverso tipo di ribellione alle forme della lingua poetica tradizionale muove un’esperienza come quella del futurismo, che attaccò la lingua italiana e la volle rivoluzionare dalle fondamenta (parole a caso senza legame, verbo all’infinito, abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio, eliminazione dei nessi sintattici ecc.): una posizione estremistica che non poteva che restare isolata.

Del linguaggio della grande poesia italiana novecentesca, quella degli ermetici, di Ungaretti e Montale soprattutto, è impossibile riferire in poche parole. Ci limitiamo a qualche breve considerazione: in questi poeti (per Montale e Ungaretti, soprattutto nella loro seconda stagione artistica) la tradizione non viene rifiutata, ma riassunta in un contesto poetico moderno. In Montale, in particolare, coesistono voci dalla provenienza più diversa (parole auliche e difficili come àlido, chiarìa, corimbi, cinigia, bruire; voci quotidiane e banali come pentola, cappelliera, stuzzicadenti, accappatoi; termini tecnici come megafoni, telescrivente, propellente), liberate dalla loro più decisa caratterizzazione e fatte proprie dalla sensibilità poetica dell’autore. caricate di intenso valore poetico, anche attraverso raffinatissimi procedimenti fonico-stilistico-metrici.

L’evoluzione della lingua della prosa letteraria degli ultimi cento anni è difficilmente sintetizzabile, data la grande varietà di esperienze, soprattutto nel nostro secolo: toccheremo solo i momenti più significativi. Dopo il Manzoni la prosa ottocentesca conosce le due grandi esperienze della Scapigliatura e del Verismo, entrambe permeate dall’esigenza di un linguaggio aderente alla nuova realtà nazionale. I narratori scapigliati tendono soprattutto allo svecchiamento e alla sprovincializzazione della lingua, in polemica con la tradizione retorica e accademica, accolgono nel loro lessico voci diversissime, dai cultismi agli stranierismi ai dialettalismi, realizzando singolari pastiches (in particolare Dossi e Faldella). Alla loro aristocratica operazione linguistica si oppone la lingua dei veristi, alcuni dei quali ricorrono più decisamente all’elemento dialettale, mentre altri (in particolare il Verga dei Malavoglia) assumono mediatamente la componente dialettale e popolare, filtrandola in un racconto dalla struttura linguistica apparentemente tradizionale.

In tutt’altra atmosfera ci troviamo con Gabriele D’Annunzio, che realizzò un tipo di prosa fortemente individuale, raffinata, tesa in una spasmodica ricerca formale, alla cui ricchezza espressiva contribuì, insieme ad altre componenti, la varietà lessicale: fu, la sua, un’esperienza piuttosto isolata. Nei primi decenni del Novecento si afferma un filone che potremmo chiamare di prosa “media”, costituito da autori anche molto diversi dal punto di vista letterario, accomunabili in certo modo per aver realizzato una scrittura di tono medio, non fortemente innovativa anche se piuttosto moderna, soprattutto dal punto di vista sintattico (possiamo collocarvi autori come Pirandello, Svevo, Panzini. Deledda, e molti altri).

A questa lingua non eccessivamente elevata si oppone quella dei rondisti, fautori di una prosa d’arte raffinata, aristocratica.

Negli anni trenta si hanno i primi sentori di quella tendenza, che sarà propria del neorealismo, ad una scrittura semplice, piana, aderente al reale. Nella categoria del neorealismo entrano autori e opere certamente molto diversi: di essa dal punto di vista linguistico va notata la tendenza ad un linguaggio che rifletta direttamente la vita quotidiana e popolare (notevole l’immissione di regionalismi e dialettalismi). La tendenza ad una lingua semplice continua anche al di là del neorealismo, ed è presente in molti autori di questi ultimi decenni.

Fra le altre espressioni della prosa contemporanea, citeremo infine i romanzi di Gadda, caratterizzati soprattutto dalla ricerca dell’espressività, dal rifuggire l’impoverimento sia sintattico che lessicale (apertura estrema del lessico ai tecnicismi, ai dialettalismi, agli stranierismi, agli arcaismi; varietà morfologica ecc. fino ad arrivare in certi punti ai limiti dell’inintellegibilità).