Scopriamo insieme cos’è la lingua…
Scopriamo insieme cos’è la lingua…
Silenzio, o faccio sgombrare l’aula!
Un simile enunciato perentorio fa indubbiamente parte dell’esperienza personale di ciascuno di noi, se non altro sul piano di quella diffusissima “esperienza mediata” che è il messaggio televisivo o cinematografico. Tutti quindi, o almeno moltissimi, riconoscono pienamente il senso di questa frase, ma non tutti sono altrettanto consapevoli che la sua reale “comprensione” avviene attraverso conoscenze e riconoscimenti multipli e simultanei.
Proviamo a riflettere: ascoltando questa frase ci si rende immediatamente conto che qualcuno ha parlato, qualcuno che è quasi certamente un magistrato nella particolare situazione di un’aula di giustizia. Nello stesso tempo ciascuno è pronto a scommettere che la Pretura o il Tribunale in questione si trova in Italia, in quanto chi ha parlato si è espresso in italiano; e, se nella pronuncia sono evidenti certe caratteristiche dialettali, l’identificazione del luogo in cui si sta svolgendo il processo può essere ancora più precisa. Contemporaneamente si capisce benissimo che il giudice ha parlato perché altri parlavano producendo un rumore per lui intollerabile, e che il suo invito al silenzio ha lo scopo di agire sui presenti, chiunque essi siano e qualunque cosa dicano in qualsiasi lingua.
Ci sono, insomma, in ogni attività linguistica, tre aspetti fondamentali, complementari e compresenti, che il parlante-ascoltatore (ciascuno di noi infatti è vicendevolmente l’uno e l’altro a seconda della situazione di discorso) realizza e riconosce senza prenderne coscienza, ma che il linguista assume consapevolmente nella sua riflessione scientifica. Li enunceremo di seguito, riferendoci alla frase da cui siamo partiti.
- L’aspetto universale, per cui ogni attività linguistica è tale in quanto possiede certi caratteri che ricorrono in tutte le lingue e negli atti linguistici di tutti i parlanti, senza distinzione di spazio, tempo, situazione ecc. Uno di questi tratti, il più vistoso (e quello che distingue il linguaggio umano da altri non umani, come ad esempio quello delle api o dei calcolatori) è l’espressione verbale che si manifesta con il rumore prodotto dagli organi di fonazione (… proprio il rumore che dà fastidio al nostro giudice!). Un altro tratto universale, in questo caso di carattere non materiale, è la funzione comunicativa del parlare: nel nostro esempio Silenzio…! implica la presenza di ascoltatori e insieme la possibilità di agire linguisticamente sul loro comportamento.
In questa prospettiva il linguista vede nella fonazione e nella funzione comunicativa dei fatti universali, cioè fatti “di lingua” in quanto manifestati da tutte le lingue e da tutti i parlanti.
- L’aspetto storico-geografico-contestuale che permette di attribuire ogni produzione linguistica ad uno specifico codice (lingua) proprio di una specifica comunità di parlanti, in un certo luogo ed in una certa epoca. Così la frase del nostro giudice non è solo un generico invito al silenzio, che poteva essere realizzato mediante altri innumerevoli “rumori” dotati di funzione comunicativa (ad esempio ssst!, zitti! favete linguis, stop talking!, still!…), ma è costruita secondo le regole della lingua italiana e di una certa lingua italiana. Cioè essa appartiene all’italiano proprio di una determinata regione, ad un linguaggio settoriale ben caratterizzato (si osservi il termine tecnico aula rispetto ad un generico stanza) e ad un registro indubbiamente elevato (la presenza di sgombrare esclude automaticamente che l’aula sia quella di una scuola e che la frase possa essere stata pronunciata da una maestra!).
Il linguista, quando constata queste caratteristiche non si occupa più della lingua come fatto universale, ma di una lingua storica, nel nostro caso l’italiano, vista nelle sue manifestazioni particolari (italiano più o meno dialettale, specializzato, elevato ecc.).
- L’aspetto individuale che riguarda direttamente i caratteri dell’attività linguistica in quanto produzione di un singolo parlante, in una particolare situazione comunicativa.
Nel nostro caso la frase del giudice non deve essere più considerata in astratto, come esempio di lingua o di lingua italiana, ma dobbiamo immaginarla inserita nel verbale ufficiale dell’udienza, in quanto pronunciata dal giudice XY in un preciso momento del dibattito.
In questa prospettiva l’enunciato Silenzio, o faccio sgombrare l’aula si rivela dotato del suo senso o valore particolare, perché è ricondotto al discorso più ampio di cui fa parte, e che si realizza in un ben individuabile contesto comunicativo: diciamo che è un frammento di testo. Il livello individuale e concreto della lingua si manifesta dunque nei testi: solo a livello di testo la lingua può essere registrata dalla scrittura, col passaggio dal testo orale al testo scritto (non si scrive una lingua, ma si scrivono testi in una lingua); solo a livello di testo essa può essere tradotta (non si traduce una lingua in un’altra, ma si traduce – cioè si trasporta – un testo da una lingua all’altra); solo a livello di testo una lingua può essere appresa o insegnata (non si impara una lingua, ma si impara a produrre o a comprendere testi in una lingua).
Il linguista di fronte ai testi non è più uno che teorizza sulla lingua o che descrive una certa lingua, ma piuttosto uno che teorizza e descrive certe operazioni linguistiche (costituzione di testi, traduzione, apprendimento o insegnamento delle lingue ecc.).
Già queste prime riflessioni su che cosa significhi comprendere una frase ci fanno intravvedere l’enorme complessità del fenomeno: ci fanno anche capire perché, secondo le epoche e le mode culturali, la lingua sia stata sentita come fatto eminentemente universale, o storico o individuale, e quindi riconosciuta come manifestazione del “Pensiero”, o dello “Spirito di una nazione”, o come irripetibile atto individuale, cioè come “Arte”.
In realtà la lingua è simultaneamente tutto questo ed altro ancora: e giustamente uno dei più grandi linguisti moderni, Ferdinand de Saussure, ricorda che l’oggetto della linguistica dipende interamente dal punto di vista, cioè che i fatti linguistici esistono solo come conseguenza della prospettiva in cui ci si colloca per esaminarli (a differenza di quanto avviene per lo più nelle scienze naturali).
Da questa presa di posizione di Saussure deriva, nella linguistica moderna, il concetto di pertinenza, cioè la considerazione necessaria dei soli fatti che rientrano nel punto di vista scelto. Per chiarire: la pronuncia dialettale, ipotizzata per la frase del giudice, non è pertinente in un’analisi di tipo testuale (tanto è vero che gli eventuali tratti dialettali non emergeranno di fatto nemmeno nel testo trascritto dal cancelliere).
Né è pertinente in uno studio rivolto alla funzione comunicativa della frase (e infatti perché questa funzioni, cioè sortisca il suo effetto, non contano i fatti dialettali, ma altri fattori, ad esempio l’autorevolezza del parlante, o la potenza della sua voce). La pronuncia dialettale è invece pertinente in uno studio dialettologico o sociolinguistico (o, al limite, psicolinguistico, se essa è vista come spia di una particolare situazione emotiva: è noto che quando si è adirati si perde il controllo, anche quello linguistico…).
L’eccezionale complessità della lingua è dunque, almeno dopo Saussure, ben presente ai linguisti; essa sembra sfuggire alla coscienza dei parlanti comuni, ma non a quella dei letterati, e soprattutto dei poeti che della lingua sono senz’altro gli utenti più sensibili e consapevoli. Viene qui m mente – e l’associazione ci trasporta d’un balzo da un tribunale terreno ad un luogo di pena ultraterreno – la terzina di Dante (Inferno, canto III, versi 25-27) nella quale la varietà delle manifestazioni linguistiche è mirabilmente sintetizzata in un vorticoso succedersi di sostantivi che corrispondono ad altrettanti aspetti della lingua:
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira
voci alte e fioche…
e suon di man con elle
Qualcuno si chiederà, a questo punto, se l’ultimo tipo di suono citato da Dante è automaticamente escluso dalla considerazione del linguista in quanto manifestazione non verbale. Certamente il linguaggio non si esaurisce nei segnali trasmessi attraverso gli organi di fonazione: gesti, atteggiamenti, rumori prodotti intenzionalmente rientrano, insieme alla lingua, in una vasta e non sempre ben definibile costellazione di atti comunicativi. Di essi tuttavia non si occupa direttamente la linguistica, che ha come suo oggetto specifico la lingua, cioè il più importante e codificato dei sistemi di comunicazione umani. Gli altri sistemi di segni utilizzati nella vita sociale (si pensi, ad esempio, al linguaggio gestuale dei sordomuti, o al codice di comunicazione a distanza mediante bandiere utilizzato in marina) costituiscono – ancora secondo la proposta di Ferdinand de Saussure – l’oggetto di studio della semiologia (dal greco: scienza dei segni). In questa prospettiva la linguistica rappresenterà solo una parte, sia pure la più importante, di questa scienza generale della comunicazione umana.
La scoperta di quanto sia complesso il fenomeno “lingua” e di quanto numerose siano le prospettive nelle quali è possibile collocarsi per studiarlo, avrà rivelato a ciascuno di noi che la domanda che abbiamo messa a titolo del nostro discorso sulla lingua e sulla linguistica sfiora i confini dell’assurdo ed è (forse) provocatoria. Tuttavia la nostra riflessione sulla frase del giudice avrà chiarito almeno che interrogarsi su cos’è la lingua significa affrontare innanzi tutto l’aspetto che abbiamo chiamato universale.
Per tentare di rispondere in modo soddisfacente non bastano, o forse non servono, le definizioni che gli “addetti ai lavori” (linguisti in testa, ma in buona compagnia: filosofi, letterati, pensatori a vario titolo…) possono tentare di dare. Ogni possibile definizione, infatti, è per così dire costretta dentro il penoso sforzo di contenere, in un piccolo numero di parole, tutti, ma proprio tutti, gli aspetti universali ed “essenziali” del fenomeno lingua.
Tuttavia per dare un’idea dell’ambito in cui si sono mosse e si muovono la linguistica teorica e la filosofia del linguaggio bisogna provare ad indicare alcune soluzioni che sono state date ai problemi generalissimi impliciti nella nostra domanda.
Una prima risposta è quella che identifica la lingua con il pensiero: la filosofia antica, di impronta aristotelica, ritiene, ad esempio, che nella lingua si manifestino le categorie universali del pensiero. L’analisi logica che ci viene – o ci veniva – insegnata a scuola riflette perfettamente questo punto di vista: soggetto, predicato sono contemporaneamente categorie di pensiero e categorie di lingua, e sono proposti come concetti universali, necessari, sempre presenti in ogni frase.
Quanto alle così dette parti del discorso, sembrano mostrare, almeno nei loro nomi tradizionali, un carattere di necessità ed universalità ancora maggiore, che pare venir loro dall’esterno, dalla “realtà”, sia pure attraverso la mediazione del pensiero: il sostantivo è il corrispondente linguistico della “sostanza” che si manifesta nell’essere; l’aggettivo corrisponde all’ “accidente” (ciò che è occasionale, aggiunto); il verbo, poi, cioè la “parola” per eccellenza (lat. verbum = parola), riflette il “giudizio” del parlante-pensante sulla realtà.
In anni recenti questa impostazione, che ha resistito, sia pure con alterne fortune, almeno nell’insegnamento della grammatica nel mondo occidentale, è stata scossa, anzi rovesciata, da esperienze sul campo di antropologi e linguisti. La conoscenza di lingue “esotiche”, ed in particolare di quelle dell’America precolombiana, ha indotto Edward Sapir e dopo di lui Benjamin L. Whorf – due linguisti americani attivi nella prima metà del nostro secolo – a sostenere che le categorie del pensiero non precedono quelle linguistiche, ma anzi si modellano su queste ultime, e quindi sono tutt’altro che universali, uguali presso tutti i popoli, anzi piuttosto diverse ed incommensurabili come lo sono le lingue fra di loro.
Di fronte al fenomeno “lingua” ed alla sua diffusione multiforme presso tutte le comunità umane due sembrano quindi gli atteggiamenti possibili: porre l’enfasi sulla differenza fra le lingue e conseguentemente fra i modi di pensare attraverso le lingue (relativismo linguistico); oppure insistere sul carattere universale della capacità linguistica, fino a sostenere il carattere innato della facoltà di linguaggio (logicismo, innatismo).
Questo ci porta al problema dell’origine del linguaggio: coloro che dall’antichità in poi hanno cercato di risolverlo si sono mossi su un piano fondamentalmente speculativo, filosofico. Ci si è chiesti, ad esempio, se il linguaggio sia una facoltà naturale dell’uomo oppure sia il risultato di un’antichissima convenzione, in altri termini di un patto che ha istituzionalizzato il modo di comunicare linguistico. Qualunque sia la soluzione scelta, una verifica sul piano storico, oggettivo, è impossibile. Non solo, ma entrambe le scelte aprono la strada a nuovi problemi: se la lingua deriva da una convenzione, dove si è realizzato il primo accordo? e quando? E questo presunto accordo è avvenuto in un unico punto, o in più punti del mondo peistorico? In altri termini, si deve pensare ad un’origine unica (monogenesi) o plurima (poligenesi)? E se la lingua è un fatto naturale, perché le lingue sono diverse?
Sia la strada del rapporto fra lingua e pensiero, sia quella in fondo connessa dell’origine del linguaggio si sono rivelate dei vicoli ciechi, o se si preferisce, delle piste di decollo per lo spazio stratosferico delle speculazioni. A questo punto, anche per evitare di doverci pronunciare sulla storia di Adamo ed Eva e su una loro presunta lingua edenica, dobbiamo “planare” verso terra e proporci, più modestamente, di tracciare almeno un “identikit” molto sommario di questa entità ancora latitante che è “la lingua”.
La fisionomia che potrà emergere da questa operazione assomiglierà, almeno all’inizio, più ai classici “omini” dei primi disegni infantili che alle raffigurazioni perfette di Raffaello. Tuttavia, come il bambino riconosce, e si prova a riprodurre, certi tratti costanti che fanno di un uomo un uomo (testa, corpo, braccia, gambe ecc.), così anche noi, nel costruire una teoria linguistica elementare, ci accorgeremo che in tutte le lingue ricorrono certi fatti -sempre quelli – e tenteremo di individuarli e di descriverli.
C’è però una differenza: nel disegno infantile, certe parti del corpo umano vengono individuate e rappresentate per prime (testa, corpo), altre compaiono in un secondo momento e sono chiaramente subordinate (arti, tratti del volto, abbigliamento); nella nostra raffigurazione non esiste, invece, alcuna gerarchia di tratti caratterizzanti. In altri termini non si potrà dire se nel nostro “ritratto” abbiamo cominciato dalla testa oppure dai piedi. Nella lingua non esistono “testa” e “piedi” e le sue caratteristiche fondamentali sono tutte allo stesso titolo in rapporto fra di loro, e non è opportuno cercare di metterle in ordine di importanza.
Ad un primo sguardo la lingua appare come un insieme di parole, cioè come una nomenclatura fatta di una serie praticamente illimitata di nomi per una serie praticamente illimitata di cose. Ma questa è solo un’illusione: se per parlare fosse necessario produrre un segnale diverso per ogni diverso contenuto di comunicazione, la quantità di segnali diventerebbe immediatamente tale da rendere impossibile la loro memorizzazione e quindi il loro uso. Un contenuto come quello espresso dalla frase ho mal di denti dovrebbe essere comunicato con un segno unico e particolare, dato che si riferisce ad un’esperienza unica e particolare. In pratica dovremmo realizzare un ahi! per il mal di denti, uno diverso per il mal di testa, un altro per il mal di pancia e così via. Parlare sarebbe paragonabile a servirsi di una macchina da scrivere immensa in cui (sarebbe un vero incubo) ogni tasto corrisponderebbe ad un particolare aspetto dell’esperienza.
Se guardiamo più attentamente la frase ho mal di denti ci accorgiamo che essa è costruita di parti che sono utilizzate per formare altre frasi, e quindi messaggi, completamente diversi (ho fame; mal te ne incolse; di notte; dentifricio). Ciò significa che per comunicare tante cose diverse si può ricorrere agli stessi elementi linguistici variamente combinati (ho, mal, di, denti): il numero dei tasti della nostra macchina da scrivere diminuisce già così notevolmente. Abbiamo infatti scoperto il primo espediente di economia comunicativa della lingua, la prima articolazione, che consiste in un repertorio di forme dotate di significato (segni linguistici) che possono essere articolate in strutture diverse per riferirsi ad ogni aspetto della realtà o dell’esperienza. Questa procedura linguistica permette di superare 1’ “ineffabile” perché ogni possibile cosa o situazione può essere rappresentata linguisticamente combinando variamente gli elementi di prima articolazione: anche i neologismi, cioè le parole “nuove”, sono sempre fatti di elementi “vecchi” (ad esempio astronave). La prima articolazione è dunque un principio fondamentale, ed è particolarmente evidente in quelle lingue in cui la parola stessa è articolata, cioè formata di pezzi riutilizzabili in altre parole: [cant – iamo] rispetto a [ball – iamo] e a [cant- ate] ecc.
L’economia raggiunta nella prima articolazione lascerebbe tuttavia il costruttore di una ipotetica “macchina per parlare” ancora alle prese con una tastiera immensa: un tasto per ogni concetto minimo, sia esso espresso da una parola o da una parte di parola. Le macchine da scrivere che tutti conosciamo hanno invece un numero assai circoscritto di tasti: ciò è possibile grazie all’esistenza, nella lingua, di una seconda articolazione. Ogni parola infatti è costituita da una combinazione di un numero ristretto di elementi linguistici scelti in un repertorio che comprende in media dalle venti alle trenta possibìlità. Si tratta dei cosiddetti fonemi, cioè di “tasselli” minimi, privi di significato, ma capaci di trasmetterlo e di distinguerlo quando si trovano in combinazione: m – a – l- d – i – d – e – n – t – i – denti – senti – santi – tanti – tonti – tondo -fondo – mondo…
Questi giochetti, di cui sono pieni i settimanali di enigmistica, svelano i meccanismi della prima articolazione, anche nei loro aspetti più paradossali e bizzarri: una serie di considerazioni astratte sulla struttura della lingua potrebbe essere perciò utilmente sostituita da una riflessione su un cruciverba…
Il carattere articolato della lingua, che è poi il principio della sua economia, si ritrova ancora all’interno degli stessi fonemi: i fonemi non sono completamente diversi, come non lo sono completamente le parole fra loro, ma sono anch’essi combinazioni differenti di tratti (articolatori, acustici), che sono ovviamente in numero ancora più ristretto. Basta riflettere sul fatto che i fonemi italiani /d/ e /n/ si distinguono solo perché in /n/ l’aria passa attraverso il naso (tratto di nasalità); per il resto sono identici, in quanto rappresentano la stessa combinazione di tratti: la punta della lingua appoggiata agli alveoli dei denti (tratto di dentalità) ed una vibrazione delle corde vocali (tratto di sonorità).
La lingua dunque non è una nomenclatura, cioè una serie di cartellini diversi applicabili alla realtà e all’esperienza, ma è un complesso di forme in rapporto fra loro. Ferdinand de Saussure ha riconosciuto in questo gioco di rapporti quello che ha chiamato il meccanismo della lingua, e che gli ha permesso di definirla come un sistema. Abbiamo già accennato ai rapporti di combinazione sia fra le parole nella frase, sia fra le parti della parola (morfemi) nella parola, sia fra i fonemi. Questi rapporti si definiscono sintagmatici e si realizzano in una dimensione lineare. La linearità della lingua, che si rivela uno dei suoi aspetti caratteristici, dipende dal fatto che ogni produzione linguistica si svolge in una successione temporale: non si possono pronunziare due parole contemporaneamente, o due parti di parola contemporaneamente, o due fonemi contemporaneamente.
Poiché abbiamo detto che gli stessi elementi (ad esempio ho, mal, di, denti) possono apparire in combinazioni diverse, ne consegue che il parlante, a seconda delle sue esigenze, può selezionarli da un repertorio ideale, in cui essi non stanno disordinati, o ammucchiati, ma piuttosto organizzati secondo rapporti di parziale somiglianza. Queste classi di forme linguistiche sono stabilite mediante rapporti paradigmatici:
hai, hanno
avevo
avrò
non ho
ho
bene
dolore
sofferenza
piacere
mal
a
da
con
per
di
testa
stomaco
bocca
dentista
denti
Si potrebbe dire che parlare consiste nel fare selezioni e combinazioni adeguate al messaggio da trasmettere.
Comincia ad apparire evidente che il meccanismo della selezione e della combinazione permette di comunicare non grazie alla qualità intrinseca degli elementi selezionati e combinati (pensiamo per comodità alle parole), ma grazie al valore che questi elementi assumono in quanto selezionati da un paradigma e combinati in un sintagma. Male, ad esempio, ha vari valori paradigmatici: antonimo di bene, ma anche sinonimo di sofferenza, ed ha uno specifico valore sintagmatico (“sofferenza fisica”) in quanto combinato nell’espressione mal di denti.
Il significatolnguistic dipende completamente da questi molteplici giochi di rapporti, e non è una proprietà della parola, ma dei rapporti di selezione e combinazione (ho ha significati diversi nelle frasi ho mal di denti, ho un bambino, ho detto). Esso non è, come si potrebbe pensare, qualcosa di trascendente, spirituale, indefinibile, o, al contrario, un puro rapporto fra parola e cosa, ma è un aspetto del valore, e si realizza soltanto all’interno della struttura linguistica. Alcuni studiosi hanno sottolineato il carattere paradigmatico del significato, scomponendolo in elementi più piccoli (semi o sememi): ad es. le parole gelato, freddo, fresco, tiepido, caldo e bollente hanno in comune il sema “temperatura”; la parola gatto comprende i semi “animale”, “felino”, “domestico”. Altri ne hanno messo in evidenza il carattere sintagmatico: in questa prospettiva il significato di una parola può essere ricavato solo dal contesto in cui essa viene usata: ad esempio, “il gatto mangia il pesce”, “il gatto a nove code”, “il gatto mammone” ecc.
Se una lingua è in un certo senso un “gioco”, la sua regola fondamentale è di funzionare con identità e differenze: bisogna però scoprirle perché non sono immediatamente evidenti. Nel repertorio dei suoni, /p/ e /b/ sono diversi come /s/ sorda ed /s/ sonora; eppure se dico “patto” e “batto” questa differenza funziona anche come distinzione di due diversi significati, mentre se pronuncio la parola casa con la /s/ sorda, come nell’Italia meridionale, o con la /s/ sonora come nell’Italia settentrionale il significato rimane lo stesso. L’identità e la differenza non dipendono quindi dalla costituzione materiale di un dato elemento, ma dalla sua capacità di funzionare (qui come elemento distintivo) in un sistema di opposizioni. Nella terminologia corrente per /p/ e /b/ si parla di fonemi in opposizione, per /s/ sorda ed /s/ sonora di varianti dello stesso fonema.
Riferendoci ai fonemi ed ai significati abbiamo visto che per la loro identificazione contano unicamente i rapporti. Ora, il rapporto fondamentale su cui si regge la lingua come sistema sermologico è quello che lega necessariamente il versante dei suoni ed il versante concettuale. Si tratta di due entità complementari che sono state identificate molto precocemente, ad esempio dai filosofi stoici, e che Ferdinand de Saussure, riprendendo la loro terminologia, chiama significante e significato. Il significante (che Saussure descrive come “immagine acustica” per sottolineare il suo carattere di rappresentazione psichica e, in definitiva, la sua natura formale e non materiale) esiste solo in quanto correlato ad un significato. Se riprendiamo l’esempio ho mal di denti, vediamo che nessuna altra sequenza di suoni, se non quelle segnalate dalla separazione delle parole, ha un qualche valore nella lingua italiana:
[homal]
[maldi]
[diden]…
non sono né parole né parti significative di parole, perché non sono significanti in rapporto a significati. Invece l’elemento i nella parola denti ha valore di unità linguistica, con i significati di “maschile” e “plurale”. Nel dichiarare inscindibile il rapporto fra significante e significato Saussure ne ha contemporaneamente sottolineato il carattere arbitrario. Con questo egli intendeva che non c’è alcun motivo perché a certe combinazioni foniche corrispondano certi concetti, se non la natura convenzionale della lingua, che impone che, all’interno di una stessa comunità, si rispettino le regole del gioco, cioè si accettino senza indebite modifiche i valori linguistici, così come si accettano quelli altrettanto convenzionali delle carte da gioco, o degli sacchi …
Dal carattere arbitrario e convenzionale del rapporto che, nel segno linguistico, collega il significante ed il significato deriva la possibilità che questo rapporto si modifichi nel corso del tempo. La ricerca linguistica non dovrà quindi confondere fra i valori che emergono in uno stato di lingua (punto di vista sincronico) e quelli che appaiono modificati quando si prendono in considerazione due epoche successive (punto di vista diacronico). In quest’ultima prospettiva si muove ad esempio la ricerca etimologica, il cui scopo è precisamente quello di render ragione degli spostamenti di rapporto che avvengono, nel corso del tempo, fra significante e significato: si pensi a casi come (ad)necare/ “uccidere” che si trasforma in an-negare / “affogare”, o come captivus / “prigioniero (del diavolo)” che si trasforma in cattivo / “malvagio”.
Le regole del gioco implicano i giocatori: la lingua ha una sua dimensione sociale e generale quando è vista come un sistema di elementi e di regole accettate da una comunità di parlanti (langue, secondo Saussure); ma ha anche una dimensione individuale quando si realizza concretamente nell’uso linguistico di un singolo parlante (parole, secondo Saussure). Il punto di vista della langue e della parole implicano, naturalmente pertinenze diverse: nel primo caso saranno rilevanti gli aspetti normativi, che si impongono al parlante in modo più o meno automatico, nel secondo le libere scelte dell’individuo nell’ambito delle possibilità offerte dal sistema (stili individuali o idioletti).
Sono queste le linee fondamentali dell’identikit della lingua; esse corrispondono, come si è detto scherzando, alla sagoma dell’ “omino”, cioè permettono di “riconoscere” la lingua con sufficiente chiarezza. Riassumiamole:
– Carattere articolato (doppia articolazione);
– Gioco di rapporti sintagmatici e paradigmatici;
– Linearità della procedura comunicativa;
– Carattere formale delle identità e delle differenze;
– Arbitrarietà del segno linguistico;
– Sua convenzionalità;
– Sua mutabilità nel tempo;
– Dimensione sociale ed individuale.
Questo è il disegno nel suo aspetto essenziale, come essenziale era il disegno della figura umana, uomo e donna, inviato anni fa nello spazio a portare ad ignoti interlocutori notizie sul genere umano.
Ma come c’è una enorme distanza fra le figurine dell’astronave ed i ritratti di Raffaello, così la nostra raffigurazione dei tratti essenziali della lingua potrebbe passare da quello che è stato definito un identikit minimo, attraverso l’integrazione di chiaroscuri e prospettive, a un’immagine sempre più complessa e somigliante.
Si tratta di tener conto dei molteplici livelli della strutturazione linguistica (i diversi giochi nel gioco), da quello più basso dei fonemi a quello più alto e conclusivo dei testi. Il linguista francese Emile Benveniste ha fatto notare come ciascuno dei livelli ha i suoi tratti pertinenti e le sue strutture oppositive, tanto da poter diventare oggetto di studio specialistico (fonologia, morfologia, lessicologia, sintassi). Tuttavia i livelli sono fortemente interconnessi, tanto è vero che l’identificazione di un’unità ad un certo livello deve essere fatta sempre con riferimento al livello superiore, in cui l’unità deve poter essere integrata in modo da contribuire alla costituzione del senso. Pertanto si dirà che i tratti acustico-articolatori funzionano come elementi di senso nei fonemi, i fonemi nei morfemi, i morfemi nelle parole, le parole nei sintagmi, i sintagmi nelle frasi, le frasi nei testi.
L’unità inferiore funziona nell’ unità superiore
[occlus.] [dentale] [sonoro] TRATTI [/d/]
[/d/] FONEMA ent- [dent-]
[– i] dent- MORFEMA [denti]
[denti] mal di PAROLA [mal di denti]
[mal di denti] ho SINTAGMA [ho mal di denti]
[ho mal di denti] Qualcuno disse FRASE Qualcuno disse: “Ho mal di denti” = TESTA
Questa concezione stratigrafica della lingua è tipica dello strutturalismo funzionalista europeo, di cui Benveniste è stato uno dei massimi rappresentanti. Essa porta ad un notevole arricchimento dell’identikit, mediante l’aggiunta di particolari e sfumature.
La fonologia, ad esempio, ci mostra che non tutti i fonemi sono tra loro nello stesso tipo di opposizione. Ad esempio fra /p/ e /b/ c’è un’opposizione privativa (/p/ è privo del tratto di sonorità); ma /p/ e /b/ sono tra loro nello stesso rapporto di /t/ e /d/, e quindi costituiscono anche un’opposizione proporzionale. Invece tra i fonemi vocalici /a/ /e/ ed /i/ si verifica un’opposizione graduale, perché il tratto di apertura decresce gradualmente dal fonema più aperto (/a/) a quello più chiuso (/i/).
Lo strutturalismo ha fatto emergere diversi modi universali che oppongono le unità linguistiche tra di loro. Uno di questi è la cosiddetta marca, cioè quel tratto (fonetico, morfologico, lessicale) che crea una distinzione tra un’unità linguistica che lo possiede e l’altra che ne è priva. Il riconoscimento della marca è relativamente facile in fonologia: nell’opposizione tra /p/ e /b/ si è visto che la marca è la sonorità di cui /p/ è sprovvisto. Più complesse sono le cose sul piano morfologico: ad esempio se opponiamo studente e studentessa non si capisce immediatamente quale dei due termini è “marcato”, se il primo (maschile) o il secondo (femminile). Si dirà che è privo di marca il termine che può essere usato estensivamente, cioè anche in luogo dell’altro con cui sta in opposizione. Se parliamo di diritti dello studente intendiamo riferisci ad entrambi i sessi: perciò il termine non marcato è il maschile. Il ragionamento si applica anche nelle opposizioni lessicali: nella coppia giorno-notte il termine non marcato è giorno, come si vede dall’espressione torno a casa tra dieci giorni, che implica naturalmente il riferimento anche alle notti.
Sono questi solo alcuni esempi dei metodi di accostamento strutturalistico alla lingua. La loro moltiplicazione ed il loro progressivo affinamento portano a chiaroscuri e prospettive che possono attribuire al nostro disegno rilievi e profondità sufficienti a trasformarlo in una rappresentazione a tutto tondo, una specie di bambola che la curiosità può indurre ad aprire per scoprirne i meccanismi interni o le “regole” di funzionamento.
È l’esigenza che muove la linguistica nota come grammatica generativa, che vuole superare il momento teorico descrittivo per rendersi conto di come funzionano i meccanismi che permettono da un lato al bambino di acquisire in brevissimo tempo il complesso gioco della grammatica, dall’altro al parlante adulto di realizzare tutte le frasi corrette ed adeguate alle situazioni senza averle mai sentite prima.
Il linguista americano Noam Chomsky chiama questa capacità competenza, ed assegna alla grammatica il compito di scoprire le regole su cui essa si fonda. Diventa quindi centrale il problema di spiegare perché fra tutte le combinazioni di parole teoricamente possibili solo alcune sono effettivamente prodotte e riconosciute come frasi grammaticali dal parlante nativo. L’analisi di una qualsiasi frase consisterà nella ricostruzione della sua “storia derivazionale”. Essa rivelerà che per produrre un enunciato il parlante ha applicato – in modo del tutto automatico – due tipi principali di regole: le regole di riscrittura che assegnano una struttura ai costituenti profondi della frase F (SN = sintagma nominale, SV = sintagma verba-le), generando la struttura profonda; e le regole trasformazionali (tr. passiva, tr. relativa, tr. riflessiva, tr. interrogativa ecc.) che proiettano le sequenze generate dalle regole di riscrittura nella struttura superficiale.
La grammatica generativo-trasformazionale opera di solito con rappresentazioni ad albero (indicatori sintagmatici). Le trasformazioni relativa e passiva, che operano su F1, trasformano la struttura profonda rappresentata nello schema nella struttura superficiale: ho saputo che la carne che ho comprato è stata mangiata dal gatto, nella quale le tre frasi appaiono fuse in un unico periodo (i generativisti parlano di frase “matrice” e di frasi “incassate”).
La teoria di Chomsky si propone implicitamente come la nuova analisi logica, ed ha importanti implicazioni nello studio dell’apprendimento della lingua materna e dell’insegnamento di una seconda lingua. La sua ricerca ha punti di contatto con la problematica classica del rapporto lingua-pensiero, come emerge chiaramente da questa dichiarazione: “ciò che più mi interessa è la possibilità di arrivare, studiando il linguaggio, a scoprire quei principi astratti che ne governano la struttura e l’uso, principi la cui universalità risponde ad una necessità biologica, non a un mero accidente storico, e che derivano da caratteristiche mentali della specie”.
Accanto alla competenza Chomsky considera l’esecuzione, cioè l’uso effettivo della lingua che il parlante ascoltatore fa quando realizza una concreta e personale attività linguistica.
Lo studio dell’esecuzione è di fatto compito della psicolinguistica e della pragmatica, discipline che tengono presenti i condizionamenti sia interni che esterni del parlante-ascoltatore, non più considerato come un individuo ideale.
La considerazione della lingua in questo ultimo caso abbandona definitivamente ogni astrazione. Dal disegno, attraverso la bambola animata, potremmo dire di essere passati al cinema o, per servirci di un altro paragone, potremmo dire che il percorso compiuto dalla linguistica teorica somiglia a quello che collega nel campo della medicina l’anatomia, la fisiologia e la clinica.
Assistiamo dunque ad un nuovo mutamento del punto di vista e all’emergere di nuove pertinenze: la psicolinguistica, infatti, si occupa di tutto ciò di cui si occupa la linguistica teorica, ma mentre quest’ultima descrive che cosa impariamo per parlare una lingua, la psicolinguistica riflette su come avviene questo apprendimento e su che cosa la lingua sia per il parlante. Un aspetto di questo “come” è dato dalle associazioni che ciascuno realizza più o meno consciamente quando parla o ascolta parlare. Ad esempio la parola sole e la parola luna, in rapporto ai loro diversi generi grammaticali, si collocano, per il parlante italiano, in una rete di associazioni che non potrà essere uguale a quella del parlante tedesco, nella cui lingua die Sonne è femminile e der Mond è maschile.
I principi psicolinguistici dell’associazione si manifestano con particolare evidenza nel linguaggio poetico. Pensiamo al Cantico delle creature di San Francesco:
frate foco: bello, iocundo, robustoso, forte
sora acqua: utile, umile, preziosa, casta
Un altro momento dell’animazione dell’oggetto lingua, è quello che chiama in causa, come dato pertinente, la situazione comunicativa in cui il parlante “agisce” in maniera complessa, realizzando, col suo concreto parlare, una serie di funzioni diverse.
Una formulazione classica è quella del grande linguista di origine russa Roman Jakobson che, nell’esame dell’atto linguistico, assume sei diversi punti di vista (il parlante, l’ascoltatore, il contesto, il messaggio, il canale, il codice), ai quali corrispondono sei diverse funzioni. Esse sono, nell’ordine: 1) la funzione emotiva, nella quale sono pertinenti gli aspetti riferiti al parlante (l’uso del pronome io, le esclamazioni ecc.); 2) la funzione conativa, centrata sull’ascoltatore (si manifesta nell’uso del tu, nell’intonazione interrogativa ecc.); 3) la funzione referenziale, che rivela se l’atto linguistico è un brano narrativo, una prescrizione, una preghiera o altro (fra i numerosissimi indizi possiamo citare formule come c’era una volta, vietato…, amen); 4) la funzione poetica, in cui è pertinente la forma stessa del messaggio ed il suo valore estetico (nel mezzo del cammin di nostra vita rispetto a all’età di trentacinque anni); 5) la funzione fatica, consistente in segnali relativi alle condizioni di comunicazione (i sì che si dicono al telefono, i non è vero?, i cioè del discorso “nevrotico”); 6) la funzione metalinguistica, per cui ogni atto linguistico manifesta il codice impiegato (pensiamo alle volte che diciamo: In che senso?, Cosa volevi dire?).
Quelli che abbiamo chiamato punti di vista sono in realtà i fattori costitutivi di ogni atto linguistico, e quindi le funzioni che corrispondono a ciascuno di essi sono presenti in tutti i testi, orali e scritti, tuttavia secondo un ordine gerarchico che vedrà primeggiare l’una o l’altra a seconda del tipo di testo. (In un testo scientifico la funzione referenziale sarà al primo posto, in un poema emergerà la poetica ecc.)
In anni recenti la pragmatica (che si propone come “dottrina dell’uso dei segni” o “linguistica del dialogo” o “teoria dell’azione linguistica”) tende a considerare gli atti linguistici come vere e proprie operazioni. Significativo è in tal senso il titolo di un libro di J.L. Austin How to Do Things with Words (in italiano “Quando il dire è il fare”). Austin ha sostenuto che con il semplice pronunciare una frase si compie un atto, molto generale (atto enunciativo): ma questo atto, per essere veramente comunicativo, e non essere la frase di un pappagallo o di un registratore, deve contenere una forza, un’intenzione, una funzione precisa. Austin chiama atti illocutivi quelli eseguiti nel dire qualcosa, come quando dicendo lo ti battezzo si compie l’atto del battezzare (lo stesso avviene quando si dice ti prometto, ti chiedo, vi suggerisco…). “faccio sgombrare l’aula” è, in quest’ottica, un’implicita “minaccia”, nella situazione del giudice così come l’abbiamo descritta; implicita in quanto pur non comparendo il verbo performativo minacciare tale forza illocutiva è comunque manifestata ad esempio dall’intonazione. Ma la stessa frase può essere una “promessa”, nel caso in cui un sindaco assicuri che un’aula scolastica sarà liberata dagli occupanti abusivi. Questa diversa forza illocutiva sarà manifestata da altri tratti sia linguistici sia contestuali. Tuttavia “minaccia” e “promessa” sono atti che presuppongono di produrre un effetto sull’interlocutore, ad esempio “intimidire” o “rassicurare”. Gli atti linguistici possono quindi essere considerati anche da questo punto di vista, e allora si definiscono perlocutivi. Molto del nostro parlare si configura proprio come atto perlocutivo: parliamo per “convincere”, per “consolare”, per “incoraggiare”, per “offendere”, an-che se non lo diciamo esplicitamente. Saranno gli altri, gli interlocutori, che potranno nominare linguisticamente l’azione perlocutiva con frasi come mi hai convinto, non mi hai consolato, mi hai offeso ecc.; faccio sgombrare l’aula è quindi anche un atto perlocutivo, in quanto nella situazione descritta “agisce” come intimidazione sugli ascoltatori, i quali hanno la consapevolezza che il giudice può agire concretamente in tal senso in quanto ne ha l’autorità.c.v.)