Scopri, impara e cresci

Dieci anni di nuovi linguaggi della comunicazione

Saggio di Alessandro Cecchi Paone

Saggio di Alessandro Cecchi Paone

Continua senza tregua la grande trasformazione dei mezzi di comunicazione di massa. E tutto grazie a uno strumento tanto potente quanto ormiai familiare: il computer. Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine: tra casa e scuola o ufficio la maggior parte di noi sa lavorare  su un pc. E, di conseguenza, molti sanno “navigare”, ovvero effettuare ricerche su internet per trovare le notizie di cui si ha bisogno. Laddove per notizie si intendono informazioni di qualsiasi genere: dalla ricetta per fare la pasta frolla, alle informazioni sugli andamenti della borsa, alle previsioni del tempo o alla ricerca su napoleone per l’interrogazione di Storia. La grande comodità e versatilità di impiego che la connessione ad internet via computer consente, tuttavia, ha avuto e continuerà ad avere anche in futuro conseguenze molto importanti sull’evoluzione, lo sviluppo e la fruizione degli altri mezzi di comunicazione di massa.
La rivoluzione informatica, infatti, ha cambiato in maniera profonda il modo in cui si costruiscono e conducono i programmi televisivi. ha cambiato il modo in cui si pensano e progettano i programmi radiofonici ed oggi è parte fondamentale nella realizzazione dei film di maggiore successo che si possono andare a vedere al cinema: basti pensare agli effetti speciali, che così tanto affascinano il grande pubblico e che vengano creati da appositi programmi computerizzati. Insomma, la grande trasformazione innescata dall’uso del computer in molti ambiti della nostra vita quotidiana ha finito con il cambiare non solo le nostre abitudini, ma anche i mestieri, il come si fanno le cose, il modo in cui queste si progettano e così via.

Questa rivoluzione è iniziata 34 anni fa, quando il colosso dell’informatica IBM realizzò il primo personal computer. Niente a che vedere con le torrette e gli schermi piatti che oggi abbiamo nelle nostre case e che si possono facilmente inserire in qualsiasi contesto di arredamento domestico: all’epoca con il termine personal computer si indicavano enormi elaboratori elettronici che pesavano alcune tonnellate. E che servivano non tanto per far lavorare software di vario genere ma solo per eseguire calcoli matematici che non potevano più essere fatti a mano, o con il regolo calcolatore. Sembrerà strano ma la capacità di calcolo di quegli enormi mostri, che spesso richiedevano addirittura la disponibilità di un locale interamente dedicato e di impianti di raffreddamento appositamente costruiti, era infinitamente inferiore a quella che oggi è necessaria ed disponibile per far funzionare una consolle per videogiochi.

Ma la nascita del personal computer e la sua diffusione sulle scrivanie, avvenuta verso la prima metà degli anni ’80, è solo uno dei due ingredienti che ha permesso di avviare la rivoluzione a cui abbiamo accennato e di cui stiamo per parlare più diffusamente: l’altro ingrediente di questo mix rivoluzionario consiste nella  creazione, nel 1969, del primo collegamento telefonico tra computer. All’inizio questo ponte di collegamento era un progetto segreto, chiamato ARPANET, che aveva lo scopo di condividere nel minore tempo possibile tutte le informazioni utili all’interno delle varie strutture militari della difesa degli Stati Uniti. Con il tempo, però, questa rete di comunicazione ha allargato la sua disponibilità ed ha trovato applicazioni di carattere civile: in particolare è stata messa a disposizione delle università al fine di accrescere lo scambio di informazioni, studi e ricerche che si svolgevano negli atenei. Così è cominciata l’avventura di internet: un’avventura in rapida e costante espansione e di cui oggi non si intravedono i limiti di crescita.

Per comprendere la portata dell’evoluzione di questo fenomeno basta citare alcuni dati: quelli relativi alla crescita del numero di host dal 1994 ad oggi, laddove con questa parola, host, si intende un computer collegato alla rete internet. Nel 1994 la cifra di questi era di poco superiore ai cinque milioni, nel mondo. Oggi i dati relativi all’inizio del 2008 indicano in 541 milioni e 677 mila il numero degli host connessi alla rete, e ben distribuiti in tutti i Paesi più tecnologicamente avanzati. Ma anche un altro dato deve e può far pensare: quello relativo alla cifra delle pagine web, cioè il totale delle pagine contenute in tutti i siti internet oggi esistenti nel cyberspazio. Ebbene la cifra è talmente sterminata da non poter nemmeno essere conteggiata: oscillerebbe infatti tra i 100 e 200 miliardi di pagine. Si tratta di cifre mostruose, a fronte delle quali diventa evidente la portata di quanto abbiamo detto in precedenza: si tratta di una vera e propria rivoluzione. Ma andiamo con ordine per capire dove questa rivoluzione è arrivata in questi ultimi dieci anni, in modo che si possibile provare a sbirciare dove potrebbe condurci nel prossimo futuro. Il modo migliore compiere questo viaggio è quello di vedere quali sono stai i cambiamenti imposti dalla rivoluzione informatica sui vari mezzi di comunicazione di massa. Tra tutti i media che prenderemo in esame il più antico, e quindi prestigioso, il quotidiano. E da lì cominciamo il viaggio per comprendere l’evoluzione del linguaggio dei media negli ultimi dieci anni.

Il quotidiano nell’era digitale
Sono ormai decenni che si sente dire che l’era dei quotidiani è arrivata al capolinea. Più di un a volta troviamo fior di sociologi o esperti in scienze della comunicazione che intonano il de profundis per questo mezzo di comunicazione di massa che ha fatto la storia della comunicazione negli ultimi 300 anni. Tuttavia, vuoi perché le persone sono comunque affezionate al giornale quotidiano nella sua forma cartacea, vuoi perché dopo 300 anni di storia i giornali hanno comunque sviluppato la loro pellaccia e sono duri a morire, ebbene i quotidiani non solo sopravvivono, ma trovano anche sempre il modo di rinnovare i propri linguaggi superando di slancio le difficoltà imposte dai cambiamenti che il tempo e la sfida della modernità portano con sé.

Del resto non è la prima volta, nella storia, che i quotidiani stessi hanno rischiato di essere, o sono stati considerati, una specie in via di estinzione. Lo stesso discorso infatti si faceva già negli anni ’30, quando la radio ha trovato la prima grande ondata di diffusione nelle abitazioni delle persone. E ancora di più il pericolo della scomparsa del quotidiano è stato rilanciato a tamburo battente negli anni ’60, quando è arrivato il momento in cui, nelle case delle persone, sono entrate le televisioni. Ovviamente resistere a questi assalti non è stato semplice: per riuscirci si è reso necessario adottare delle trasformazioni a 360 gradi. Queste hanno riguardato sia l’aspetto grafico del giornale, sia la filosofia della costruzione del giornale stesso, sia le tecniche di vendita per invogliare il pubblico all’acquisto del quotidiano. Per non parlare poi del linguaggio giornalistico: anche quello è cambiato, nel corso del tempo e sotto lo scacco imposto dalla competitività degli altri mezzi di comunicazione di massa.

Queste trasformazioni, stando almeno all’analisi fatta da uno dei massimi storici del giornalismo, Paolo Murialdi, può essere riassunta con un termine lungo ma efficace: settimanalizzazione. Con questa parola si sottointende che tutte le trasformazioni a cui già abbiamo accennato poche righe sopra, hanno reso il giornale quotidiano in qualche modo simile ad un settimanale. In che modo è accaduto ciò? Cominciamo questa analisi partendo da ciò che maggiormente salta all’occhio, ovvero la veste grafica. Il primo grande cambiamento in questo senso è consistito nell’introduzione dell’immagine a colori. L’introduzione del colore nelle prime pagine (e poi anche nelle pagine interne) dei quotidiani è servito per rendere il giornale più caldo, più emotivamente coinvolgente per il lettore, più ricco e gradevole visivamente e anche più moderno.
Del resto il fatto che i quotidiani fossero di fatto l’unico mezzo di comunicazione che manteneva le immagini in bianco e nero, come accaduto fino quasi a metà degli anni ’90, era diventato ormai un pericoloso anacronismo: noi tutti siamo infatti abituati a vedere immagini a colori sulla Tv di casa, sullo schermo di un computer, su una rivista settimanale. Le immagini in bianco e nero dei giornali facevano apparire questo media come antico, superato e quindi, in definitiva inutile. Tuttavia l’introduzione del colore nei quotidiani non è stata una innovazione da poco: ci è voluta una vera e propria trasformazione tecnologica che permettesse di impaginare e stampare immagini a colori, mutando completamente tutta la catena produttiva di un giornale.
La difficoltà consisteva nel fatto che la lavorazione del giornale non ammette ritardi o ripensamenti: il quotidiano deve uscire ogni giorno, e quindi ogni variazione nella catena di lavorazione essere studiata, preparata e realizzata in modo da non interrompere un flusso di lavoro estremamente complesso e che ha bisogno di tempistiche certe per essere portato a termine (e quindi in edicola) nei tempi corretti.

Oltre al colore, sempre pensando all’aspetto grafico dei giornali, i quotidiani hanno importato dai settimanali anche un’altra abitudine grafica, tipica delle riviste a periodicità maggiore: la cosiddetta infografica. Con questo termine si intendono tutte le immagini disegnate, le cartine geografiche, gli schemi, i grafici e i diagrammi, riassumendo: tutte quelle tabelle che permettono di comprendere il senso di un argomento anche senza avere letto l’articolo a cui sono riferite. Fino a pochi anni fa l’infografica era impensabile per un quotidiano, e il motivo di ciò era molto semplice: la composizione del quotidiano stesso non avveniva per via elettronica, ma la pagina veniva composta e poi stampata meccanicamente. Ed essendo i tempi di lavorazione dei quotidiani molto ristretti, dato che devono andare in stampa nella notte per essere al mattino presto nelle edicole, non era pensabile, se non in casi eccezionali e ben preparati nel tempo, ricorrere a questo tipo di risorsa. Oggi che abbiamo a disposizione i computer dotati di software in grado di lavorare facilmente sulle immagini, è più semplice realizzare l’infografica ed impaginarla in tempi brevi. Ragione per cui si è trovato naturale fare ricorso a questo genere di linguaggio per arricchire ulteriormente la pagina del quotidiano, altrimenti troppo densa di testo.

Fino a qui abbiamo parlato dei cambiamenti grafici, di veste, quelli che saltano all’occhio. Ma il processo di settimanalizzazione dei quotidiani non si limita solo alla parte grafica ma riguarda anche il modo in cui le notizie vengono fatte arrivare al lettore. Dato che i direttori dei giornali sanno bene come la televisione la radio (e adesso anche internet) sono in grado di arrivare sulla notizia con grande anticipo rispetto al quotidiano, si è pensato che i giornali non dovessero servire solo per informare, ma anche e soprattutto per approfondire: il motivo di questa scelta editoriale è facilmente comprensibile se pensiamo al tipo di informazione che arriva allo spettatore con gli altri mezzi di comunicazione di massa. Prendiamo come esempio un giornale radio o un telegiornale: questi notiziari sono strutturati in modo da dare tante notizie nel minor tempo possibile. Questo ovviamente a scapito dell’approfondimento, che è spesso relegato in fondo alla scaletta del Tg, in rubriche apposite.

È quindi stato il giornale quotidiano a raccogliere questo compito di approfondimento, per cui la sfida raccolta dai quotidiani non è consistita tanto nel voler competere con gli altri mezzi di comunicazione di massa in quanto a possibilità di arrivare per primi sulla notizia, ma si è concentrata essenzialmente sul come diventare lo strumento ideale per interpretare le informazioni che arrivano dalla televisione, dalla radio e dalla rete. Così, se fino a dieci anni fa accadeva che una singola notizia venisse trattata solo all’interno di un articolo, oggi vediamo che gli articoli stessi tendono a diventare più brevi, perché si suppone che le persone conoscano già abbastanza bene il fatto di cui si parla. Ma accanto alla cronaca pura e semplice fiorisce una serie di altri articoli, magari più brevi, che contengono un approfondimento, un commento, un secondo articolo che spiega che cosa è accaduto prima e che cosa ci si attende che possa accadere dopo quel dato fatto. Insomma, il quotidiano sta attraversando una fase di trasformazione progressiva che lo sta rendendo da primo strumento di informazione a primo strumento di approfondimento dell’informazione stessa.

Ma i cambiamenti non si esauriscono qui: oggi infatti possiamo contare su una inedita ricchezza di contenuti, rispetto al passato. Il perché di questa ricchezza, che alla fine determina anche un aumento della foliazione, cioè del numero di pagine del quotidiano. Questo dipende dal fatto che si è sviluppato un interesse vasto e sincero nei confronti di ciò che accade lontano da noi: e il perché di ciò è presto spiegato: si tratta di una conseguenza obbligata di quel fenomeno che passa sotto il nome di globalizzazione per cui, grazie alla velocità dei trasporti e alla disponibilità di accessi alla rete internet, praticamente non esiste più un angolo del mondo che possa essere considerato completamente isolato. La globalizzazione quindi moltiplica il numero delle potenziali notizie, arricchendo il giornale di contenuti.

Ma questi cambiamenti hanno determinato solo un effettivo miglioramento del giornale inteso come prodotto editoriale? Oppure esiste anche un rovescio della medaglia di qualche genere? Purtroppo in questo caso è tutto oro quello che riluce: in realtà sono poche le testate, cioè i giornali, che hanno la possibilità di investire tempo e risorse per mandare gli inviati sul luogo in cui stanno accadendo i grandi fatti internazionali. Al contrario la maggioranza dei quotidiani si accontenta, per così dire, di notizie di agenzia, alle quali poi fa seguire un’intervista a commento. Il risultato di questa situazione è che i giornali stessi, eccetto i più importanti e prestigiosi che possono permettersi economicamente di seguire le notizie sul posto, finiscono con il somigliarsi un po’ tutti. E internet non è certo immune da responsabilità, quando consideriamo questo discorso di appiattimento della qualità del lavoro giornalistico.

Il perché di questa responsabilità della rete nei confronti della debolezza, in alcuni casi, del prodotto editoriale è presto spiegata e spiegabile: fino a qualche anno fa trovare una notizia richiedeva un vero e proprio lavoro di indagine. E infatti un certo tipo di impostazione giornalistica veniva chiamata “giornalismo d’inchiesta” perché andava a scavare nei problemi, nelle situazioni anche più intricate e difficili. Il giornalista poteva essere considerato un vero e proprio detective, una sorta di agente segreto che alla fine della missione, anziché assicurare alla giustizia i colpevoli di alcune malefatte, rendeva pubblico un malaffare, uno scandalo e così via.
L’esempio più chiaro e semplice di questo fenomeno sta nel ricordare quanto accadde negli anni ’70, quando due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, riuscrono a sconfiggere sul tempo nientemeno che l’FBI e scoperchiarono il caso di spionaggio politico che è passato alla storia sotto il nome di Watergate e che decretò la fine del mandato presidenziale dell’allora presidente USA Richard Nixon. Oggi il giornalismo d’inchiesta sta lentamente scomparendo dalle colonne dei quotidiani: diventa infatti molto più semplice affidarsi alla rete per reperire determinate notizie, che sono senz’altro utili per la realizzazione del pezzo, cioè dell’articolo, ma allo stesso tempo non muovono la curiosità del cronista. Il risultato è che abbiamo articoli ineccepibili da un punto di vista tecnico, ma poco approfonditi. E dato che le fonti sono più o meno sempre le stesse, i giornali tendono a somigliarsi gli uni con gli altri, sia in quanto a notizie riportate, sia in quanto a contenuti. E differiscono solo nel commento. 

Questa omologazione del prodotto giornalistico non è passata inosservata: giornalisti, direttori ed editori hanno compreso i rischi di questo atteggiamento passivo nei confronti della notizia, ed hanno pensato che fosse il caso di introdurre degli ingredienti innovativi di altro genere al fine di differenziare una testata dall’altra. Così abbiamo potuto assistere ad una crescente estremizzazione relativamente alla violenza verbale delle titolazioni e alla nascita di un linguaggio giornalistico meno forbito che in passato. Oggi sono ammesse parole volgari, cosa impensabile solo fino a pochi anni fa. Così come, in determinate situazioni, non sono solo tollerati ma anche apprezzati intercalare dialettali, quando effettivamente riescono a rinforzare l’emotività dell’articolo stesso.
La settimanalizzazione dei quotidiani passa poi anche attraverso l’introduzione di tecniche di marketing: il giornale ormai non è più solo il foglio quotidiano. Spesso infatti è accompagnato da vere e proprie testate allegate, gli inserti, che possono andare dalla finanza alla salute, dalla scienza al magazine di informazione, magari dedicato prevalentemente alle lettrici, andando quindi a scovare una clientela che fino ad oggi sembrava meno interessata all’acquisto del quotidiano. Per non parlare di film, cd, cd rom, collane di enciclopedie o libri: a volte sembra che il quotidiano sia il vero intruso all’interno della grande quantità di iniziative collaterali ad esso legate.

Ovviamente a questo genere di azione ne è corrisposta anche una uguale e contraria: il giornalismo quotidiano ha infatti trovato anche un’altra risposta alla sfida della modernità: ci riferiamo ad un altro modo di fare giornalismo, quello della cosiddetta free press, ovvero il giornale gratuito. Questo è un fenomeno editoriale che ha trovato grande successo, e la causa di ciò non può essere semplicisticamente legata al fatto che il giornale free press non costa nulla. ma proseguiamo con ordine e vediamo quali sono i punti di forza di questo nuovo modo di fare i giornali. Con il termine free press si intende una forma diversa di giornalismo quotidiano, che consiste nella distribuzione pubblica di un giornale gratuito, i cui costi di produzione sono completamente coperti dalle entrate pubblicitarie. La fortuna che ha incontrato questo strumento di comunicazione, consiste nel fatto che questo genere di quotidiano ha saputo individuare ed intercettare un bacino di potenziali lettori a cui nessuno aveva ancora pensato.

Il lettore del free press ama questo prodotto perché viene subito al sodo della notizia. Al contrario del giornale a pagamento, che abbiamo visto essere sempre molto ricco di commenti e approfondimenti, il quotidiano gratuito vuole cercare di informare il più possibile nel minore tempo possibile, dato che ci si attende che la sua lettura completa debba richiedere, come tempistica, un tempo non superiore a quello necessario per portare a termine un tragitto medio in autobus o in metropolitana. Il free press, di conseguenza, si interessa solo all’indispensabile, cioè alle grandi notizie di carattere internazionale o nazionale. Ma non solo: è nella sua vocazione anche informare rispetto a quanto accade nel territorio di diffusione.
Il ragionamento è semplice: se infatti è abbastanza normale supporre che tutti sappiano più o meno che cosa succede nel mondo, non è così scontato che ciò sia vero anche per quanto accade a pochi isolati di distanza da noi, specie nelle grandi città. La free press, in fondo, raccoglie una nobile abitudine dei vecchi quotidiani, abitudine che oggi è stata abbandonata, quella del cosiddetto pastone. Con questo termine ci si riferiva a quelle sezioni di quotidiano in cui, in maniera il più possibile varia, venivano trattati temi di carattere generale di cui però ci si poteva occupare solo superficialmente. Ebbene i free press, lungi dal voler dare a questa definizione un’accezione negativa, sono in realtà dei pastoni molto densi di notizie autoconcluse.

Ma c’è di più: c’è anche da notare che il lettore tipo di un quotidiano free press ha poco a che vedere con il compratore di quotidiano a pagamento. La free press ad esempio, è preferita dai ragazzi giovani, che sono abituati ad un linguaggio rapido, veloce, più simile a quello che potrebbero trovare sul web. La free press soddisfa le necessità di un lettore che ha bisogno di rapidità e la cui capacità di concentrazione su un unico tema è minore rispetto a quella del lettore di un quotidiano tipo.

In ultimo, anche se riprenderemo questo discorso più avanti, non dobbiamo dimenticare che le stesse redazioni dei quotidiani cartacei hanno oggi una costola on line che permette una maggiore velocità di aggiornamento rispetto alla stampa del giornale. E grazie alla tecnica del link, cioè del collegamento ponte tra notizie affini, esiste la possibilità per chi lo desidera di accedere in maniera molto più veloce a eventuali notizie d’archivio, consultando un database on line e senza quindi doversi sobbarcare il peso di estenuanti ricerche in emeroteca.

L’evoluzione del linguaggio televisivo
Dovendo analizzare quella che è stata l’evoluzione dei media nell’ultimo decennio, uno dei capitoli più importanti di questo discorso riguarda sicuramente la televisione. È stata infatti proprio la Tv a vedere svilupparsi e mutare i suoi linguaggi nella maniera più repentina, e ciò è avvenuto in maniera impressionante proprio in questi ultimi tempi. I motivi che sono alla radice di questa trasformazione sono molteplici: e riguardano vari aspetti, gli uni e li altri strettamente legati tra loro. Ci sono stati infatti mutamenti di tipo economico, culturale e sociale, per non parlare di quelli tecnologici, perché anche in questo caso la situazione non poteva rimanere ferma, dopo l’accelerazione imposta della rivoluzione informatica.
Il primo grande cambiamento nel linguaggio televisivo va però individuato, da un punto di vista storico, nei primi anni ’80, con l’avvento delle prime televisioni private e commerciali.
È questo, infatti, il momento di passaggio dalla cosiddetta paleotelevisione alla neotelevisione, secondo la teoria elaborata da uno dei massimi mass mediologi mondiali, Umberto Eco. Tuttavia questo passaggio non può essere compreso nella sua complessità se prima non spieghiamo in termini chiari che cosa vogliono dire questi due termini, paleotelevisione e neotelevisione appunto.

Paleotelevisione è una parola composta da due termini: quello di televisione, riferito appunto al mezzo televisivo, e dal prefisso paleo, che significa “antico” e con cui  si indica la televisione delle origini. La paleotelevisione, era essenzialmente caratterizzata da una scrittura “alta” del testo televisivo e dalla necessità di offrire per lo più trasmissioni di servizio, da cui anche la definizione di “servizio pubblico”, riferita all’ente radiotelevisio in generale. La televisione aveva una sua autorevolezza, al pari di quella che potevano avere i quotidiani nell’era pre televisiva: ciò che diceva la Tv era vero in quanto tale, come se fosse la lezione di un professore di grande cultura da una cattedra di scuola. Non è un caso che, in quell’epoca, gli italiani abbiano imparato a parlare una lingua unica proprio grazie alla televisione, che è stata il grande elemento di unificazione culturale di un Paese che fino a quel momento vedeva il primato dei dialetti sulla lingua ufficiale. Trasmissioni tipo “Non è mai troppo tardi”, in cui il leggendario maestro Alberto Manzi insegnava a leggere e scrivere attraverso il video è forse l’esempio più chiaro di come la televisione delle origini sia effettivamente servita a migliorare le basi culturali del Paese.

Ovviamente non tutto era cultura e servizio: la televisione era anche intrattenimento garbato, e la conduzione dei programmi televisivi era spesso affidata a personaggi che avevano calcato i palcoscenici teatrali, prima di porsi di fronte ad una telecamera. I ritmi televisivi erano infinitamente più lenti, anche perché la stessa offerta televisiva era minore: l’assetto televisivo della paleotelevisione era infatti caratterizzato da due sole emittenti di stato, Rai 1 e Rai 2 che non erano, in questo modo, ostaggi degli indici di ascolto, anche perché non esisteva un metodo per capire che cosa gli italiani guardassero, nelle proprie case, davanti alla TV.
Un altro aspetto da non sottovalutare è che, essendo ridotta l’offerta televisiva, tutti finivano con il guardare le stesse cose. Ciò creava di conseguenza una vera e propria cultura televisiva. Basti pensare al successo epocale dei primi quiz a premi, introdotti in Italia da Mike Buongiorno: rappresentavano, questi, una forma di intrattenimento che univa spettacolo e cultura, dato che i quiz stessi prevedevano una preparazione specifica da parte dei concorrenti, rispetto ad argomenti che potevano essere anche di grande spessore. Questo scenario, che appartiene comunque al passato remoto della televisione, va ricordato se non altro perché ci consente di comprendere al meglio i mutamenti di linguaggio che si sono avuti in questi ultimi anni, cambiamenti che hanno avuto un ritmo addirittura vertiginoso.

Verso la metà degli anni ’80, infatti, abbiamo avuto quattro trasformazioni di straordinaria importanza. La prima, di tipo visivo, è consistita nella grande diffusione del televisore a colori. Questo ha ovviamente contribuito a rendere l’immagine televisiva più coinvolgente per il pubblico, più spettacolare, più calda. E ciò ha contribuito anche a decidere di variare l’offerta televisiva in direzione di quegli avvenimenti che si poteva giovare di questa innovazione. Lo sport, ad esempio, è diventato un argomento televisivo molto più importante di prima perché anche solo il fatto di poter finalmente guardare le maglie colorate dei calciatori su un campo verde smeraldo ha aumentato il fascino e il coinvolgimento emotivo (già potente) di una partita di calcio. ma lo stesso potrebbe essere detto per le maglie azzurre della nazionale di pallacanestro, oppure per il rosa della maglia del leader del giro d’Italia e così via per molte altre discipline ed avvenimenti sportivi.

La seconda trasformazione riguarda la maggiore disponibilità di canali televisivi: l’avvento della televisione commerciale e la nascita della terza rete Rai ha di fatto moltiplicato l’offerta per lo spettatore. Una maggiore scelta, quindi, ha fatto sì che i diversi canali cominciassero a individuare un certo tipo di spettatore. Quello più tradizionalista poteva trovare su Rai 1 la continuità con la paleotelevisione delle origini. Rai 2 offriva invece la possibilità di approfondire temi differenti e Rai 3 diventava il laboratorio in cui sperimentare nuove trasmissioni, nuovi linguaggi televisivi. ma anche la televisione commerciale dava il suo contributo in termini di aumento dell’offerta televisiva: la programmazione televisiva ha iniziato ad essere non stop nell’arco delle 24 ore. E la concorrenza ha portato nel nostro Paese un modo di fare Tv impensabile fino a pochi anni prima. Basti pensare alla fortuna che hanno avuto le cosiddette Soap Opera, come Dallas o Dinasty, che hanno consacrato la televisione commerciale, dopo essere state scartate dall’emittente di Stato perché considerate inadeguate al ruolo istituzionale delle reti Rai.

Contestualmente all’aumento di questa offerta di programmazione, il telecomando ha fatto il resto: il telecomando ha regalto allo spettatore la possibilità di cambiare canale con una rapidità impensabile fino a pochi anni prima. La curiosità di vedere che cosa c’era nelle “altre reti” poteva essere esaudita solo avendo in mano un mezzo che permettesse di cambiare canale con rapidità, in modo che si sarebbe poi potuto tornare sul canale iniziale, una volta verificato il fatto che non c’era niente di meglio da vedere.

Ma la facilità con cui si poteva cambiare canale ha anche reso necessario effettuare le prime rilevazioni degli indici di ascolto. Dato che la televisione commerciale aveva introdotto l’uso di spezzare le trasmissioni con stacchi pubblicitari (mentre nell’epoca della paleotelevisione esisteva il famoso carosello come contenitore unico delle pubblicità), chi investiva soldi in pubblicità voleva essere sicuro che i programmi sponsorizzati fossero effettivamente visti dal pubblico. E così arrivò l’auditel, ovvero il sistema per cui ancora oggi ci sono famiglie dotate di un apposito rilevatore in grado di controllare secondo per secondo ogni cambio di programma. Ciò, come è facile immaginare ha introdotto una vera e propria concorrenza tra le varie reti televisive. E questa concorrenza ha segnato lo spartiacque tra la paleotelevisione e la neotelevisione, che è poi la nostra.

Arrivati al presente, dopo questo viaggio nella storia della TV, possiamo finalmente fare il punto di ciò che sta accadendo in questi ultimissimi anni. Oggi viviamo una situazione per cui la televisione è, con ogni probabilità, l’elettrodomestico più diffuso nelle nostre case. Se una volta infatti c’era una sola televisione nel salotto di casa attorno alla quale si radunava tutta la famiglia per condividere un programma televisivo, oggi non è rara la situazione per cui ogni componente della famiglia stessa ha una sua televisione personale, nel proprio ambiente di casa. Questo perché l’offerta televisiva è talmente diversificata che ogni membro del nucleo familiare, a seconda dell’età, del sesso e degli interessi, ha la possibilità di sintonizzarsi sul canale che più di altri soddisfa i suoi interessi, il suo modo di essere. L’offerta televisiva, infatti, con l’avvento delle reti satellitari prima e del digitale terrestre poi, ha moltiplicato la scelta non per 10, ma per 100 o addirittura per 1000. Ci sono canali televisivi dedicati all’infanzia che programmano esclusivamente cartoni animati, reti tematiche che trasmettono documentari, ci sono canali tematici grazie ai quali si può seguire praticamente ogni avvenimento sportivo, reti che si occupano di finanza, altre di cucina e così via. Ovviamente questo moltiplicarsi di canali tematici ha messo un po’ in crisi la televisione tradizionale, quella che in genere viene definita definita “generalista” per via del fatto che è stata pensata come contenitore in grado di occuparsi di informazione, intrattenimento, sport, approfondimenti e quant’altro, mantenendo così una finestra aperta su vari argomenti.

Ebbene, per sopravvivere alla sfida lanciata dai canali tematici, la televisione generalista ha dovuto inventarsi modi nuovi di comunicare, cercando di attrarre un pubblico non omogeneo per età interessi e formazione culturale mischiando generi e linguaggi. Detto in termini più semplici la televisione generalista ha dovuto mischiare i generi televisivi, inventando modi che consentono di informare divertendo o educare divertendo o ancora coinvolgere il pubblico di casa con quiz, televoto o sondaggi. E questa fusione di stili ha creato due generi televisivi assolutamente inediti: l’infotainment e l’edutainment. Con la prima definizione ci si riferisce a quel modo di fare TV che mischia la necessità di fare programmi di approfondimento giornalistico e, nello stesso tempo, coinvolgere in modi diversi il pubblico. Come acennato poco sopra questo può essere coinvolto direttamente lasciandogli la possibilità di esprimere un’opinione o porre domande via telefono, mail o sms. L’infotainment tende a ribaltare l’ordine naturale della trasmissione televisiva: c’è un conduttore che per lo più dirige il traffico delle domande o controlla che la situazione non trascenda o vada fuori tema. Ma per il resto il flusso di problematiche, risposte, interventi è lasciato libero di correre, anche a costo di trovare lo spunto polemico, che può anche essere consumato di fronte alla telecamera stessa. Ovviamente una situazione del genere, in anni di paleotelevisione, non sarebbe stato nemmeno immaginabile.

L’edutainment, invece, cerca di educare divertendo: in pratica si pone l’obiettivo del recupero di quella funzione di formazione che abbiamo visto essere storicamente connaturata ad un certo tipo di TV, ma con linguaggi più moderni, divertenti, coinvolgenti, che a loro volta sono stati resi possibili dal ricorso ai nuovi mezzi di comunicazione di massa.
Un punto centrale nella trattazione del mutamento del linguaggio televisivo, infatti, è anche quello relativo alle tecniche di inquadratura e di elaborazione elettronica dell’immagine. Già solo avere un movimenti di camera un po’ inusuale consente di creare spettacolo, di ammaliare lo spettatore con immagini inconsuete. Oggi alcune trasmissioni, persino se vanno in onda in diretta televisiva, vengono prodotte utilizzando il cosiddetto blue screen. Con questo termine tecnico si indica l’assenza di uno studio vero e proprio dtatato di una sua scenografia fatta di mobili, mattoni, pannelli, luci e decorazioni di qualsivoglia genere. In pratica lo studio è ridotto ad essere una stanza nuda circondata da pannelli neutri, sui quali viene, dalla regia, inserita una scenografia virtuale, computerizzata, simile per concezione alla schermata di un videogioco, dove però le persone agiscono liberamente. Questo sistema, che è abbondantemente usato nel cinema, sta avendo una discreta fortuna anche sul mezzo televisivo e consente, ad esempio, di inserire animazioni, personaggi virtuali, in pratica dotare ricorrere ad effetti speciali, che magari non sono ancora di altissima qualità ma che sicuramente aumentano l’impatto visivo del programma sullo spettatore.

Ma il modo di fare TV è cambiato anche per altri motivi: fino ad ora, infatti, abbiamo trattato la televisione come strumento di comunicazione di cui si può usufruire solo nel momento in cui avviene l’emissione del programma. In realtà la neotelevisione è anche altro: grazie all’avvento dei video registratori prima e dei canali satellitari poi, è mutato anche il modo di usufruire della TV. La grande rivoluzione di questi ultimi anni è infatti coincidente con la ricerca della massima interattività tra spettatore e mezzo. Ma come si può assicurare questo servizio? Per quanto riguarda il videoregistratore il meccanismo è molto semplice: si può registrare un programma e riguardarlo, anche a frammenti, nel momento desiderato.
Ciò ha di molto diminuito l’importanza di essere presente all’appuntamento televisivo: all’epoca della paleotelevisione, la “diretta” era un evento che produceva un meccanismo simile a quello di uno spettacolo teatrale: si doveva essere presenti all’appuntamento perché, in caso contrario, la partita di calcio, o il Festival della Canzone, non avrebbero certo aspettato lo spettatore televisivo, per iniziare. Oggi non è più così. Il rapporto con la televisione è molto meno vincolato agli orari di inizio e fine strasmissione: addirittura le televisioni via cavo consentono di usufruire di servizi pay per view (letteralmente “paga per vedere”) che permettono di registrare su un server appositamente dedicato il programma che non si vuole perdere e decidere poi, in un secondo momento, il momento opportuno per poterlo guardare.

L’offerta di questo genere di servizi, ovviamente, sta rivoluzionando i criteri di programmazione delle emittenti, in modo da soddisfare il più possibile lo spettatore pagante, in modo da metterlo in condizione di usufruire dello spettcolo nel momento in cui lo desidera. Se a questo aggiungiamo come ormai sia diffusa la pratica di collegare alla TV anche impianti di amplificazione ad altissima fedeltà, e il fatto che le emissioni in digitale offrano una qualità visiva quasi perfetta, vediamo che la TV sta diventano uno strumento molto diverso da quello delle origini. In pratica si sta mutando in una specie di cinema di ridotte dimensioni, che consente di seguire gli spettacoli partecipando attivamente agli stessi o di godere della proiezione di un film come e meglio di quanto non possa accadere in un multisala di ultima generazione. È la rivoluzione dell’Home theatre, ovvero, tradotto dall’inglese, del teatro a casa propria, resa possibile proprio grazie all’innovazione tecnologica di questi ultimi 10 anni.

Resta una considerazione da fare: la grande offerta televisiva, la disponibilità di personalizzare la programmazione secondo le esigenze personali, familiari e lavorative stanno facendo diventare la televisione uno strumento di comunicazione molto differente rispetto a quello delle origini. E se da una parte il singolo spettatore può avvantaggiarsi di questa grande quantità di spettacoli tra cui scegliere liberamente, oggi viene meno quel senso di evento condiviso che una volta legava le persone a prescindere dal loro grado di istruzione, dalla provenienza geografica e così via. Anni fa era normale, comune, piacevole commentare ciò che si era visto la serata precedente alla TV, perché quello era uno spettacolo  che facilitava la comunicazione tra gli individui, essendo l’unico possibile a livello televisivo. Oggi, con la frammentazione dell’offerta, questo senso di grande comunità sta lentamente ma inesorabilmente venendo meno. E le conseguenze sociali e culturali di questo fenomeno sono ancora tutte da interpretare, perché ne vedremo i risultati solo negli anni futuri.

La radio: sempre diversa, sempre uguale a se stessa.
Dopo avere visto le grandi trasformazioni che hanno coinvolto i giornali quotidiani e la televisione in questi ultimi anni, diventa forse più semplice immaginare che cosa possa essere accaduto ad un latro mezzo di comunicazione di massa tra i più amati dal pubblico. In effetti, pur con le debite differenze, anche la radio sta trovando modi e mezzi per aumentare la sua capacità di comunicare, attraverso le innovazioni tecnologiche oggi a disposizione. Tuttavia l’analisi dei mutamenti di linguaggio per quanto riguarda il mezzo radiofonico non può prescindere da una considerazione che solo all’apparenza è banale: la radio non si vede, ma si sente e basta. La radio, quindi, non ha risentito di tutta quella trasformazione prettamente visiva che ha coinvolto in misura più o meno grande giornali e televisione.
Ciò nonostante anche questo capitolo contiene delle notazioni interessanti, perché le conseguenze della interazione tra radio e web sono molto interessanti da diversi punti di vista. Innanzi tutto cominciamo anche questo capitolo con una ricostruzione di carattere storico. Vale infatti la pena ricordare che anche la radio, come abbiamo visto essere accaduto ai giornali, ha dovuto pensare già molto tempo fa ad un rinnovamento di linguaggi e contenuti vista la concorrenza spietata della televisione. Ciò ha fatto sì che la radio, prima dei giornali e in modo differente da questi, imparasse a ritagliarsi molto presto una sua nicchia di ascoltatori affezionati tanto al mezzo che al linguaggio radiofonico.

La prima grande trasformazione, al pari di quanto avvenuto negli anni ’80 per la televisione, si è avuta con la nascita delle radio private nella seconda metà degli anni ’70. Era, quella, una stagione segnata dalla necessità di avere un canale di comunicazione alternativo rispetto a quello fornito dalle emittenti di Stato e la radio permetteva di ottenere tutto ciò con prezzi enormemente più contenuti di quanto non fosse possibile in televisione. E non deve quindi sorprendere come molto spesso le prime radio private fossero in realtà degli strumenti di propaganda politica per quelle formazioni che non trovavano rappresentanza in Parlamento. Ovviamente questo discorso rischia di portarci fuori dal tema del saggio, quindi lo scenario che abbiamo appena descritto deve servire per lo più a sottolineare un dato di fatto culturale: la radio commerciale o privata che sia, nasce dalla voglia di comunicare aspetti di realtà quotidiana che solitamente sfuggono all’attenzione degli altri mezzi di comunicazione di massa.
Ecco perché la radio ha storicamente avuto da sempre un’attenzione particolare verso il contatto con il pubblico e nel descrivere ciò che accadeva sul territorio nel quale riesce a far giungere il suo segnale. La radio ha mantenuto nel tempo, nonostante tutte le rivoluzioni di linguaggio e di tecnologia, una forte vocazione territoriale, unita alla capacità di coinvolgere lo spettatore in modo da farlo sentire parte integrante della trasmissione radiofonica.

A riprova di questo fatto abbiamo un dato interessante: quello per cui la media europea di ascolti pro capite è di circa 186 minuti al giorno, una quantità di tempo considerevole, se pensiamo a quanto tempo dedichiamo ad esempio alla televisione. Nell’analizzare questo dato vanno comunque evidenziati alcuni aspetti: il primo tra questi consiste nel fatto che la radio è il mezzo di comunicazione più gradito nel momento in cui si affrontano gli spostamenti lavorativi in automobile. La velocità con cui, in radio, si passa dall’intrattenimento di una conduzione, alla musica, ai radiogiornali, alle informazioni di servizio è una caratteristica del linguaggio radiofonico che attrae un gran numero di ascoltatori. Ciò ha determinato una strategia di comunicazione radiofonica per cui gran parte dei contenuti vengono concentrati in quelle che sono le ore di punta di ascolto, mentre il resto della giornata è per lo più lasciato ad una programmazione neutra, musicale, che permette quindi un livello di impegno lavorativo minore rispetto a quanto non accada ad esempio in televisione: in Tv infatti non si può smettere di andare in onda specialmente oggi che anche la programmazione pomeridiana è piena di programmi studiati appositamente per chi sta a a casa, i cosiddetti contenitori familiari.

A questa calma apparente dei momenti di stanca fa da contraltare l’eccitazione febbrile delle ore di punta, quando la radio offre il meglio di se stessa. la radio, infatti, ha storicamente promosso un livello di coinvolgimento del pubblico maggiore rispetto ad altri mezzi di comunicazione di massa. E per avere prova di ciò ciò basti pensare al cosiddetto “microfono aperto”, comune a tutte le emittenti radiofoniche. Ebbene questa caratteristica, che poi è stata fatta propria anche dalla televisione, oggi è andata arricchendosi della possibilità di ricevere sia email sia sms, aumentando quindi le possibilità di contatto. Ma c’è di più: la radio ora sta cominciando sempre più frequentemente ad utilizzare piattaforme internet per la diffusione del suo segnale riuscendo in questo modo a superare i confini stabiliti dall’assegnazione delle frequenze territoriali.
La commistione tra internet e la radio porterà ad un sistema misto? Assolutamente sì. Già oggi ne vediamo le prime applicazioni. Basti pensare alla cosiddetta “radio on demand”, per cui l’utente ha la possibilità di accedere al sito internet della radio, ascoltarne le trasmissioni dotandosi di un software leggerissimo che permette di eseguire lo streaming della programmazione e convertire così i file digitali in segnale audio che può essere diffuso dalle casse collegate al computer. Grazie a questa tecnica un utente della radio può oggi postare messaggi per la conduzione musicale, effettuare richieste specifiche, creare compilation o scaricare conduzioni che sono andati in onda nelle ore precedenti. 

Ma non è tutto: gli stessi programmi per computer permettono oggi di creare delle vere e proprie web radio in cui la singola persona, senza bisogno di antenne o di studi insonorizzati, può decidere di affidare alla rete ciò che più desidera. Ma riprenderemo questo discorso più avanti, quando parleremo diffusamente del podcast come ultima novità in fatto di scambio di informazioni audio video attraverso internet.

I nuovi media vanno al Cinema
Dopo avere esaminato i cambiamenti più o meno radicali che hanno coinvolto i mezzi di comunicazione di massa che sono più strettamente legati al mondo dell’informazione, passiamo ora a vedere le trasformazioni degli altri media, cioè quelli dedicati esclusivamente all’intrattenimento, come ad esempio il Cinema.
Il Cinema è di fatto uno dei mezzi di comunicazione di massa che più hanno assorbito le trasformazioni imposte dalla rivoluzione informatica, questo perché – all’opposto di quanto accaduto con la radio – il Cinema è il media visivo per eccellenza: non esiste cinema senza spettacolo visivo. Ebbene questo spettacolo ha moltiplicato la sua efficacia con il progressivo sviluppo e perfezionamento dei software per l’elaborazione delle immagini digitali.

Il mutamento è stato talmente profondo che allo stato attuale non dovremmo neppure più avere la possibilità o il diritto di chiamare l’opera cinematografica “film”, come invece siamo abituati a fare. Ciò perché la pellicola, il film, non esiste più in senso fisico. le bobine sono state rimpiazzate da supporti digitali di vario genere e formato. Tuttavia, prima di anticipare conclusioni che trarremo in maniera più logica ed organica nel corso delle prossime righe, vediamo quali sono oggi le teorie di riferimento che spiegano la portata delle trasformazioni del linguaggio cinematografico. Per avere una panoramica esauriente del fenomeno, ci faremo guidare dalle considerazioni effettuate in merito da Lev Manovich, professore associato al dipartimento di arti visuali all’universita della California di San Diego dove insegna Teoria dei nuovi media, e uno dei massimi teorici mondiali relativamente al rapporto tra arti visive e new media.

Manovich, nella sua analisi, parte da un dato di fatto: il cinema è nato e si è evoluto abbeverandosi alla fonte del progresso tecnologico. E ha sempre sfruttato ogni possibile novità per aumentare la possibilità espressiva del mezzo stesso. Detto in altri termini, e soprattutto inserendo il discorso nella storia della cinematografia, possiamo infatti vedere come il cinema abbia da sempre assorbito ogni possibile novità tecnologica non appena questa è stata resa disponibile. Dall’uso del sonoro, a quello del colore, alla possibilità di inserire parti di animazione all’interno del girato cinematografico e così via, il cinema ha sempre cercato di superarsi e stupire, dai tempi di George Meliès, uno dei primi cineasti della storia, fino ai fratelli Wachowsky, registi e sceneggiatori del celebre “Matrix”. E per stupire non si è mai badato ai mezzi: il cinema ha da subito scoperto l’efficacia delle doppie esposizioni per creare immagini fantastiche, ha immediatamente compreso il valore aggiunto del ricorso ad effetti speciali per rendere lo spettacolo più intrigante, ha realizzato fin dalle origini set appositamente studiati per creare ambientazioni storiche o di fantasia.

Pertanto non deve sorprendere che la maggior parte dei blockbuster oggi in circolazione, cioè dei film di grande successo al botteghino, siano in realtà quasi più figli del computer che non della macchina da presa. Il senso di questa frase è presto spiegato: oggi ci troviamo nella situazione in cui molte pellicole vengono girate quasi interamente in blue screen, laddove il blue screen è una sorta di fondo neutro sul quale, in un secondo momento, vengono inserite le immagini digitali quale sfondo. Gli esempi di questo modo di fare cinema sono molteplici: basti pensare infatti alla già citata saga di “Matrix” dei fratelli Wachowsky, oppure alla seconda parte della serie di “Guerre Stellari” di George Lucas o ancora alle immagini di un’altra trilogia resa possibile solo ed esclusivamente dall’uso delle nuove tecnologie: “Il signore degli anelli”, di Peter Jackson che ha finalmente reso possibile vedere ciò che fino a ieri poteva solo essere immaginato, cioè i personaggi fantastici creati dalla penna e dalla fantasia di Tolkien.
Ebbene molte delle ambientazioni che possiamo vedere in queste pellicole non sono reali: sono state costruite grazie a software creati appositamente per la computer grafica, grazie ai quali è stato possibile modificare immagini esistenti oppure di realizzare scenografie totalmente virtuali.

Ma le innovazioni tecnologiche applicate alla lavorazione cinematografica non finiscono qui. Un’altra innovazione importantissima, infatti, è quella, già prima citata anche se solo di sfuggita, dell’adozione di supporti digitali per la visione dei film. Oggi il formato più diffuso è il DVD. Ebbene il DVD è un supporto di registrazione talmente capace, in termini di informazioni audio e video registrate al suo interno, da avere creato un problema, nei produttori: riuscire a riempire tutto lo spazio a disposizione nel DVD stesso. Avere tutto quello spazio a disposizione e non usarlo rappresentava infatti uno spreco immotivato: è questa una delle ragioni per cui, accanto al film vero e proprio, sta prendendo sempre più piede l’abitudine di inserire i cosiddetti “contenuti speciali”.
Questi sono di vario genere: possono andare dal commento in diretta degli attori protagonisti che va ad accompagnare tutto il film, alle interviste ai protagonisti stessi. Ma ciò che per noi è più interessante è il sempre crescente interesse nei confronti del “making of” di un film, ovvero il far vedere, grazie ad un breve documentario, tutte le fasi di lavorazione della pellicola stessa, dai primi bozzetti fino alla fase di post produzione, quando tutto prende forma proprio grazie alla tecnologia digitale.
Grazie a questi making of possiamo renderci anche conto di come stia cambiando il lavoro dell’attore: una volta l’attore era interprete di una scena che comunque era inserita all’interno di un set reale, ripresa da una macchina da presa. Oggi all’attore viene chiesto anche di essere in grado di immaginare la scena così come verrà dopo il lavoro di elaborazione grafica, che si effettua alla fine del percorso di lavorazione. A volte quindi accade che nemmeno lo stesso attore è in grado di dire, nel mentre della lavorazione, che cosa stia effettivamente girando. Il DVD consente anche di includere nei contenuti speciali anche le scene tagliate, rispetto alla versione che è stata messa in commercio. Questo consente allo spettatore di ricreare, con un piccolo sforzo di immaginazione, il cosiddetto “Director’s cut”, ovvero il montaggio così come era stato pensato e immaginato dal regista ma che poi ha subito variazioni al momento della commercializzazione. In questo modo è possibile andare incontro alle esigenze dello spettatore comune, del curioso e anche del cinefilo, che ha così la possibilità di conoscere quale sarebbe stata l’intenzione originaria del regista.

Va poi sottolineato come le tecniche di elaborazione dell’immagine abbiano ridato fiato ad un genere cinematografico che stava conoscendo un periodo di crisi profonda: il cinema di animazione. Infatti i progressi della computer grafica sono stati tali da restituire a questo genere i fasti che non si conoscevano più dai tempi di Walt Disney. Film come “Shrek”, o “Alla ricerca di Nemo” o ancora “Ratatuille” rappresentano la dimostrazione più chiara di come computer e cinema di animazione siano veramente legati a doppio filo. E le persone che vanno al cinema a vedere film di questo genere non solo si attendono di ottenere divertimento per sé e magari per i propri bambini legato alla sceneggiatura, al soggetto e quant’altro. Si attendono anche di essere stupiti.
Citando Maurizio Porro, critico cinematografico del Corriere della Sera, possiamo dire che il film di animazione, grazie al computer, è diventato adulto perché lo spettatore non solo non è in grado di immaginare che cosa vedrà (così come accade per ogni film), ma non immagina nemmeno il come lo vedrà. Proviamo a spiegare meglio questo concetto attraverso un esempio pratico: il lungo piano sequenza, cioè quella scena senza stacchi di camera o tagli, della fuga del topolino chef nel film “Ratatuille” sono l’esatta descrizione di questo concetto. Una inquadratura del genere, nella quale sembra di essere piccolissimi e a pochi centimetri da terra, cioè riproducendo fedelmente il punto di vista di un topolino, sarebbe stato assolutamente impossibile per qualsiasi macchina da presa.

Resta infine un ultimo argomento da accennare, ma che troverà pieno sviluppo in uno dei prossimi capitoli: gli stessi software usati per gli effetti speciali sono oggi utilizzati anche per la produzione delle scenografie dei videogiochi ispirati ai film. Può sembrare banale, ma anche questo fenomeno è il segno di una rivoluzione: per la prima volta possiamo riscrivere noi il film, interpretando attraverso una consolle per videogiochi, uno dei protagonisti della pellicola. E farci, quindi, il nostro film. Di cui possiamo cambiare scene, finali e svolgimento a seconda delle nostre capacità e della nostra volontà.

Dal sito al blog. Dal blog al podcast
A questo punto del nostro percorso, dobbiamo affrontare quello che può essere considerato a tutti gli effetti l’argomento centrale di questa discussione: l’evoluzione dei linguaggi nel mondo del web. Fino a questo momento, infatti, abbiamo visto come hanno reagito gli altri media all’ingresso di internet nel mondo della comunicazione. Lo hanno fatto adattandosi, specializzandosi, entrando in collaborazione o conflitto. Però adesso si tratta di andare proprio nella tana del lupo, per cercare di capire come sta cambiando la situazione all’interno del web stesso. Iniziamo subito con il dire che il mondo della rete è in costante e continua evoluzione: si tratta di un mondo fluido, in cui le novità si susseguono incessantemente e quindi ogni tentativo di essere esaustivi in materia è destinato a fallire.

Ciò dipende, da un punto di vista tecnico, dal fatto che sempre più persone possono accedere alla rete grazie alla cosiddetta banda larga: una sorta di autostrada informatica nella quale è possibile veicolare un grande numero di informazioni in poco tempo. Le prestazioni dei computer sono oggi di tutto rispetto anche per le fasce di spesa più basse e il continuo aggiornamento di software definiti “open source” (cioè non protetti da diritti e quindi scaricabili gratuitamente all’interno della rete) permette di dotare il proprio pc di tutto quello che serve a funzionare, e bene, senza spendere troppi soldi. Ovviamente tutti questi cambiamenti mettono in condizione potenzialmente chiunque di creare un modo di comunicare, avere un’idea, realizzare un progetto che può velocissimamente sovvertire tutte le regole fin qui valide.Tra l’altro l’uso del computer sta diventando sempre più intuitivo per cui si è in grado di lavorare sul mezzo anche senza avere una formazione informatica di base, un tempo necessaria.

Fatta questa doverosa premessa, andiamo al sodo dell’argomento in qyestione. E cominciamo con una frase che molto probabilmente risulterà ad effetto: il sito internet è morto. Il motivo per cui facciamo questa affermazione così potente è molto semplice: i siti internet, cioè le nostre case virtuali affacciate sulla strada della rete, hanno avuto grande diffusione e sviluppo nel settore commerciale e industriale, ma non nel settore privato. Le persone che volevano effettivamente affacciarsi alla rete solo per condividere le proprie conoscenze o abitudini o stati d’animo, non hanno trovato nel sito internet, e quindi nelle difficoltà di gestione quotidiana che avere un sito comporta, uno strumento efficace per fare comunicazione. Ovviamente questo non significa che i siti verranno meno dall’oggi al domani: continueranno ad esistere e molto probabilmente per loro ci sarà una evoluzione che li renderà meravigliosi, interattivi, pieni di immagini, filmati, musica e ogni altra applicazione possibile. Ma per quanto possano diventare sempre più belli, non hanno niente di nuovo da offrire.
E infatti, le persone comuni, nel frattempo, hanno iniziato la loro rivoluzione privata: quella del blog.
Era la seconda metà degli anni ’90 quando, partendo proprio dal presupposto appena citato per cui la gestione di un sito internet costringeva le persone alla fatica di aggiornare le proprie competenze informatiche e a lavorarci impiegando molto tempo per la costruzione grafica delle pagine web, è nato il concetto di blog. Il diario informatico, così infatti, possiamo chiamare il blog  (a sua volta questo termine deriva dalla contrazione di due parole inglesi, “web” e “log”, cioè “rete” e “traccia”) è la risposta a quella domanda di facilità d’uso che il privato chiedeva ad uno spazio web. Questa rivoluzione ha una data di inizio: il 18 luglio del 1997. Quel giorno infatti un programmatore statunitense di nome Dave Winer riuscì a far funzionare un software al quale stava lavorando da qualche tempo.

Lo scopo del lavoro di Winer era quello di offrire agli utenti di Internet la possibilità di pubblicare sulla rete qualsiasi tipo di contenuto in tempi brevissimi, senza per forza dover progettare e creare altre pagine web o dotarsi di un sito internet. Secondo Winer ciò avrebbe consentito una maggiore facilità di accesso alla rete, che si sarebbe finalmente aperta anche a coloro che non avevano conoscenze specifiche in campo informatico. Come è facile immaginare, e come la storia ha dimostrato, è stato boom: i blog hanno preso piede in tutto il mondo, sbarcando in italia nel 2001 e diventando in questi anni la vera novità nel campo della comunicazione mondiale. A riprova di ciò anche piccoli ma significativi mutamenti di costume: era il 1999 quando Peter Merholz utilizzava la parola we blog, coiniando il fatto il verbo inglese to blog che oggi fa parte del linguaggio informatico mondiale.
Bloggare, quindi, è diventata un’attività. Per molti un semplice passatempo, per altri qualcosa di più: la dimostrazione che ci si può scambiare informazioni di prima mano evitando di passare attraverso i media e allo stesso tempo alimentare uno scambio di opinioni in una piazza virtuale, in tempo reale o quasi.
Che cosa sia un blog in pratica è presto detto: secondo quanto scrive Giuseppe Ranieri nel suo Blog generation, Il blog altro non è che una sorta di diario virtuale il cui proprietario decide di pubblicare le informazioni che ritiene più opportune sugli argomenti di suo interesse. Non esiste una legge (al di là del codice penale, ovviamente) che regoli quale deve essere l’argomento del blog: questo può essere specialistico o generalista. L’unica regola è quella legata ai codici di comportamento che devono essere mantenuti dagli utenti del blog per non ostacolare il flusso delle informazioni. Una volta aperto un blog, e generalmente ci vogliono davvero pochi minuti perché gli spazi web sono forniti gratuitamente dai più importanti internet provider, questo è di uso immediato. E anche di fruizione immediata: il messaggio postato è immediatamente visibile sul web e pronto per essere commentato, collegato ad altri siti, sfruttato in tutti i modi che internet consente, insomma.
Ma qual è la finalità di avere un diario on line? Fondamentalmente è la condivisione: il blog serve come strumento atto a comunicare per condividere contenuti di vario genere, in modo da creare un polo di attrazione aperto e fidelizzato, la cosiddetta community, che si raduna nella piazza virtuale per discutere di un argomento, di una passione condivisa. Non deve quindi sorprendere il fatto che i blog oggi siano considerati uno strumento di informazione alternativa rispetto ai canali di informazione ufficiali. Molte persone decidono spontaneamente, attraverso l’apertura di un blog, di contribuire al processo di formazione della collettività mettendo a disposizione le informazioni, su qualsiasi tema, di cui sono in possesso. Ma l’informazione attraverso i blog è davvero attendibile? Il blog può sostituirsi al giornale, alla televisione, alla radio?
Questa risposta merita un approfondimento a parte, perché il web non permette di distinguere la spazzatura dalla vera informazione: non esiste una responsabilità penale oggettiva se qualcuno decide deliberatamente di dire cose false in rete, perché i blog e i siti internet non sono di fatto dei giornali e quindi non devono rispettare le regole di alcun codice deontologico professionale. Si è posto allora il problema della regolamentazione dei blog. Qualcuno ha pensato che i siti dovessero essere in qualche modo sottoposti al vincolo di avere un responsabile legale paragonabile al direttore responsabile dei giornali. Ma ciò va contro la filosofia su cui è stata virtualmente costruita la rete: quella della libera condivisione delle notizie, anche quando artefatte, anche quando palesemente false. Ovviamente questo genera un problema di ingorgo delle informazioni, perché se facciamo una ricerca su internet possiamo trovare con eguale misura tutto e il suo contrario. Diventa così difficile avere gli strumenti per separare il buono dal meno buono o dal cattivo addirittura. E alla fine abbiamo questo paradosso: non c’è niente di più semplice che accedere al web per ottenere un’informazione ma allo stesso tempo non c’è niente di più complicato che riuscire a valutare quell’informazione per la sua reale attendibilità.

Proseguendo il discorso sui blog non possiamo non notare che oggi è abitudine comune affiancare un blog al proprio sito internet: è un fenomeno in ascesa che serve anche per portare pubblico sui propri siti e aumentare così il numero di visite, con conseguente ritorno di immagine. Ma proprio mentre si chiarisce sempre di più l’idea del fatto che il blog è uno strumento quasi irrinunciabile per chi lavora nel web o solo lo ama, si intravedono già i limiti di questo strumento. Questo formato, infatti, comincia ad andare stretto a tutti coloro che avvertono la necessità di condividere non solo le proprie idee in forma scritta, ma anche file audio o video, che spesso non possono essere caricati sulle piattaforme messe a disposizione dai provider di internet. Quindi, a fianco dei blog stanno nascendo i cosiddetti podcast: database di file multimediali (audio o video o fotografici: tutto ciò che può essere messo in rete, insomma) da scaricare liberamente, messi gratuitamente o meno a disposizione da chi ha la proprietà intellettuale dell’opera.

Il tema della proprietà intellettuale di un’opera è, allo stato attuale, uno dei più grandi problemi da risolvere, per quanto riguarda internet. Esistono infatti siti che permettono lo scambio di file audio e video eludendo così il pagamento dei diritti di autore agli artisti che vedono piratata e distribuita al di fuori dei canali ufficiali la loro opera. Si tratta di un sistema che ancora fa fatica a trovare una sua regolamentazione perché non si comprende, legalmente parlando, se il libero scambio di informazioni possa in qualche modo essere limitato: le tesi contrapposte sono due. La prima, che difende questo libero scambio, si rifiuta di prendere in considerazione che lo scambio di file possa essere equivalente ad un furto. La seconda tesi, opposta, ravvisa nel fatto che copiare e trasmettere un’opera di cui non si è proprietari è una violazione del diritto d’autore, laddove il diritto d’autore è anche la vera fonte di guadagno per gli artisti. E quindi provare l’artista delle sue fonti di reddito significa strangolare l’arte.
A questo punto i primi rispondono ai secondi che i prezzi per la fruizione della musica o dei film sono tali da autorizzare moralmente il libero scambio. E il dibattito continua. In attesa che qualcuno trovi una soluzione di legge, c’è chi si porta avanti: un gruppo musicale britannico tra i più famosi al mondo, i Radiohead, hanno pensato di consentire ai loro fans di scaricare gratuitamente il loro ultimo disco, lasciando poi la possibilità di versare una cifra a piacere, anche simbolica, in modo che sia il pubblico a stabilire quale sia il reale valore del lavoro artistico.

Tuttavia i siti che permettono lo scambio di materiale audio e video non sono solo fonte di dibattito o polemiche: oggi infatti assistiamo alla crescita dei cosiddetto social forum, cioè siti internet che mettono a disposizione uno spazio per caricare immagini, file audio o video, in modo da farsi conoscere nel mare magno della rete. E a qualcuno questa scelta arride e porta al successo, a riprova del fatto che la rete è veramente uno strumento che permette una visibilità inedita a tutti coloro che fanno un mestiere legato alla comunicazione. Senza dimenticare l’ultimo nato in queste comunità on line, second life. Questo sito permette di costruirsi una identità parallela a quella reale, vivere la vita che si sarebbe sempre voluto vivere. Cambiare sesso, lavoro, aspetto fisico.

Nuove tecnologie e new generation: un rapporto in costante evoluzione
A questo punto del nostro viaggio dobbiamo esaminare i cambiamenti di costume che le trasformazioni informatiche hanno portato con sé nel corso di questi ultimi anni. Lo sviluppo delle tecnologie ha infatti decretato delle novità assolute, difficilmente immaginabili fino a qualche tempo fa. Questi cambiamenti di abitudini e costume per lo più riguardano le generazioni più giovani, che di fatto sono cresciute insieme alle tecnologie e sono in grado di utilizzarle con maggiore facilità rispetto agli uomini e alle donne che si sono formate, culturalmente, prima del 2000.

Questi cambiamenti di costume sono diventati cultura: buona parte della cultura dei ragazzi, infatti, è ormai strettamente legata al mondo del web. Nel concreto questo discorso può essere esemplificato con due mutamenti di linguaggio, impensabili prima dell’avvento della telefonia mobile e di internet: le trasformazioni nella sintassi della lingua e l’uso dei cosiddetti emoticon, ovvero di quei segni grafici fatti da punti e parentesi che molti chiamano genericamente “faccine“.
Partiamo dal linguaggio. Non deve sorprendere che, con l’avvento degli sms e delle mail, la lingua sia cambiata. Digitare un messaggio richiede del tempo, che può essere accorciato attraverso l’uso di vocaboli che in realtà non esistono nella lingua italiana. “Cmq” al posto di “comunque”. “TVB” per indicare “Ti voglio bene” o anche l’inserimento della consonante “k” per sostituire il “ch” in termini tipo “chiave” (che quindi si scrive “kiave”) sono esempi di come queste trasformazioni offrono una maggiore rapidità di esecuzione per la scrittura del messaggio stesso. Il problema è che nella brevità e nella freddezza dell’sms o della mail, c’è anche bisogno di esprimere sentimenti, sensazioni, stati d’animo particolari: a questo servono le faccine, chiamate in termine tecnico “emoticon”. Un viso che sorride può infatti essere sintetizzato graficamente con i due punti, un trattino e una parentesi chiusa, con il seguente risultato 🙂 che è comprensibile solo se letto verticalizzando lo schermo (o piegando la testa!).
L’uso degli emoticon, in realtà, nasce proprio negli anni ’80 negli ambienti del Masacchusetts Institute of Technology, cioè una delle più rinomate università del mondo, per venire incontro a questa esigenza di comunicare l’emozione che accompagna il messaggio mail. Dopodiché si è avuto uno sviluppo e una evoluzione di questo linguaggio, tanto che oggi esiste praticamente un simbolo per ogni stato d’animo, anche i più complessi. Poi si sono aggiunte delle abbreviazioni che hanno senso solo nel mondo del web. Un esempio è l’acronimo “ROTFL”, che sta per l’inglese “Rolling on the floor”, che letteralmente vuol dire “rotolarsi sul pavimento” e che significa ridere di gusto.

Ormai la tecnologia è parte integrante del mondo dei ragazzi e non ha senso fingere che non sia così. Ogni ragazzino possiede un telefono cellulare con il quale può scattare fotografie, eseguire brevi filmati, inviare foto e video ad un server. Attraverso il cellulare si possono inviare e leggere mail. È diventato, il cellulare, una sorta di prolunga delle capacità di comunicare dei ragazzi e tra ragazzi, in un modo che disorienta l’adulto e spesso lascia intravedere dei pericoli, a livello educativo, che in realtà non sono certo aumentati per “colpa” della tecnologia. La vita è sempre stata pericolosa. I ragazzi hanno sempre avuto la tendenza a superare i limiti imposti dall’educazione familiare per verificare fino a dove ci si può spingere senza farsi del male. Dare la colpa alla tecnologia e alle opportunità che questa offre significa cercare il colpevole sbagliato, perché il telefonino, internet, la rete sono strumenti e basta, non istigano di per sé alla violenza o a comportamenti antisociali.

Lo stesso si diceva dei fumetti negli anni ’70 e dei cartoni animati giapponesi negli anni ’80: eppure questo modelli sono stati rivalutati nel tempo per la loro funzione formativa e anche culturale. Perché lo stesso non dovrebbe accadere anche per l’uso che i ragazzi fanno della tecnologia attuale? Il discorso a questo punto, può e deve spostarsi sui videogiochi. Talvolta gli adulti ravvisano in questo genere di passatempo un pericolo per la formazione dei ragazzi, senza rendersi conto che i videogiochi rappresentano, oggi, una specie di passaporto sociale. Chi non videogioca, chi non ha nemmeno coscienza del fatto che esistano le consolle per videogiocare è tagliato fuori dal contesto e dal gruppo. Come se venti o trenta anni fa un bambino non avesse dimostrato interesse per il calcio perché i genitori consideravano le partite alla TV diseducative.
Ovviamente questo non significa che più i bambini (video)giocano e meglio è: è importante che curino anche altri interessi. Ma non deve sorprendere nessuno il fatto che oggi si vendano più consolle per videogiocare che televisioni. Il dato è recente e indica una tendenza in atto: quella per cui la consolle per giocare sta diventando una piattaforma in grado di offrire molti altri servizi, come l’accesso a internet, diventare un player musicale, uno strumento per inviare mail e così via. Fingere di non vedere questa trasformazione o, peggio, osteggiarla è una battaglia persa che ha come conseguenza l’aumento delle difficoltà di integrazione dei nostri figli nel mondo. Perché prima o poi, per gioco o per dovere, dovranno fare i conti con strumenti che faranno sicuramente parte della loro vita quotidiana.

Considerazioni finali: dove stiamo andando
Cerchiamo allora di fare un rapido punto della situazione. La tecnologia sta trasformando in maniera radicale il nostro modo di vivere. Scambiare mail, avere un telefono cellulare, cercare informazioni su internet consente a tutti noi di avere delle opportunità di comunicare che mai sono state così ampie nella storia dell’umanità. Certo, risulta ancora difficile trovare un punto di equilibrio tra le possibilità che la tecnologia ci offre e l’uso che ne facciamo, ma il saldo è ampiamente positivo: le opportunità sono maggiori delle difficoltà. Grazie alla tecnologia esiste ormai una schiera di liberi professionisti che non hanno più bisogno di recarsi in ufficio ogni giorno per svolgere le proprie mansioni, permettendo quindi di gestire con maggiore libertà il proprio tempo e i propri orari. Possiamo condurre opertazioni bancarie o postali che fino a poco tempo fa imponevano lunghe code agli sportelli.
È possibile prenotare una vacanza senza andare alla cieca o leggere recensioni del rinomato ristorante per festeggiare un anniversario o una ricorrenza importante. Oggi persino le lezioni universitarie possono essere fatte a distanza, e non vincolano più a quell’obbligo di frequenza che è spesso stato decisivo (in negativo) per le scelte universitarie di molti ragazzi che magari non potevano permettersi di allontanarsi dal luogo di origine per andare a studiare nelle università delle grandi città. Da un punto di vista tecnologico, poi, stiamo andando verso l’unificazione dei vari sistemi informatici: ormai i confini tra TV, web TV, viodeofonini e consolle per computer sono sempre più labili ed ogni strumento, presto, diventerà sempre più simile agli altri, fino a confondersi, compenetrarsi, concentrare le potenzialità di ognuno su un unico mezzo più versatile.
Questo scenario, che sembra lontano ma che in realtà appartiene al prossimo futuro, cambierà ancora una volta il nostro modo di vivere. Fingere che non sarà così sarebbe dire una bugia. L’importante, allora, è conoscere il passato per poter gestire il futuro. Che è già attorno a noi e non possiamo permetterci il lusso di non saperlo, al fine di interpretare e sfruttare appieno le possibilità che ci offre.