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Gli extra vaganti

Tra i film atipici dell’ultimo decennio va sicuramente menzionato La Commune (2000) di Peter Watkins.

Tra i film atipici dell’ultimo decennio va sicuramente menzionato La Commune (2000) di Peter Watkins. Nella pellicola, il cineasta britannico porta alle estreme conseguenze il metodo già impiegato in Culloden (il suo lavoro d’esordio del 1964 in cui un inviato della televisione veniva catapultato nell’aprile 1746 a intervistare i protagonisti della celebre battaglia).
In La Commune sono coinvolti 200 attori, di cui molti non professionisti, scelti in base alle proprie convinzioni (gli attori politicamente orientati a destra interpretano personaggi anticomunardi, mentre quelli di sinistra impersonano i rivoluzionari). Oltre che a recitare, ai componenti di questo supercast è richiesto anche di condurre delle ricerche storiche sui fatti del 1871 e di esporre i risultati del proprio studio ai reporter che, come in Culloden, li intervisteranno durante le oltre 5 ore di durata del film.

   

Altro progetto decisamente stravagante è quello ideato da un altro grande regista britannico, Peter Greenaway. Il suo The Tulse Luper Suitcases è un work in progress destinato a non avere mai fine. O meglio, come afferma lo stesso autore, a durare «finché il produttore non mi dirà basta, finiranno i soldi, o io non mi annoierò». Il progetto, per adesso, si è articolato attraverso tre film, una serie televisiva, web interattivi, libri, giochi elettronici, concorsi a premi, installazioni e happening in cui lo stesso Greenway si improvvisa dj.
Costruito intorno al numero 92 e a un personaggio «prigioniero di professione», The Tulse Luper Suitcases è concepito in maniera da generare infiniti progetti a partire da ogni indizio disseminato nel testo, cominciando magari dal contenuto delle 92 valigie del titolo: la 42a valigia, ad esempio, contiene 92 lingotti d’oro e l’idea è rintracciare l’origine e la storia di ciascuno di questi ligotti… Tulse Luper, insomma, è il personale contributo di Greenaway a una «alfabetizzazione delle immagini» dal momento che, «a causa di una cultura che ha il suo fondamento sulla realtà testuale, abbiamo perso la capacità di capirle, di capire come sono create, come recepirle».

Meno megalomane ma altrettanto labirintico nel suo vorticoso gioco di rimandi apparentemente slegati è Inland Empire (2006). Il film (sorta di ideale completamento di Mulholland Drive) è concepito dallo statunitense David Lynch come punto di arrivo del lungo viaggio dell’inconscio iniziato nel 1977 con Eraserhead e proseguito utilizzando linguaggi e materiali diversi che, in questa conturbante allucinazione, ritroviamo mirabilmente tutti insieme.