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Gli strumenti della scienza

Il più antico strumento di indagine scientifica è senza dubbio l’occhio umano

Il più antico strumento di indagine scientifica è senza dubbio l’occhio umano; a esso si devono le prime osservazioni del cielo, del Sole, della Luna, che scandivano i tempi delle attività quotidiane e agricole, e l’individuazione della stella Polare, prezioso punto di riferimento per gli spostamenti di navigatori e pastori.
Solo assai più tardi alcuni strumenti di uso quotidiano e alcuni ingegnosi meccanismi, fabbricati quasi per gioco da abili artigiani, furono adattati a fini più tipicamente scientifici con il duplice scopo di ampliare le limitate capacità sensoriali umane e di stabilire, attraverso una misurazione, il confronto tra determinate realtà e altre, prese come riferimento. È notissimo il caso del cannocchiale, la cui invenzione è generalmente attribuita a Galileo; di fatto, un congegno che ingrandiva gli oggetti lontani era stato già costruito qualche tempo prima da ottici olandesi, ma divenne uno strumento scientifico solo quando, agli inizi del XVII secolo, lo studioso italiano se ne servì per rivolgerlo verso il cielo. In questo senso si può considerare a tutti gli effetti un’invenzione galileiana. 

Orologi al quarzo
Gli ingranaggi e i bilancieri degli antichi cronometri sono stati sostituiti, nei moderni orologi, dal cristallo di quarzo. Il quarzo è uno dei minerali più abbondanti nella crosta terrestre e ha un’importante proprietà: quando è attraversato da una specifica corrente elettrica si polarizza. Questo significa che sulle sue facce opposte si posizionano cariche negative da un lato positive dall’altro che producono un’oscillazione.

Partendo da questo presupposto sono stati creati in laboratorio cristalli di quarzo artificiali in grado di compiere circa 33.000 oscillazioni al secondo grazie all’energia elettrica fornita da una comune pila a lunga durata. Le oscillazioni del cristallo producono un segnale di frequenza costante (cioè un numero costante di impulsi) che viene ridotto dai circuiti elettronici dell’orologio a un unico impulso che determina la durata di un secondo. A ogni impulso il chip presente nell’orologio invia un segnale alle lancette, o al display nel caso degli orologi digitali, consentendo la visualizzazione dell’ora esatta.

La misura e la scienza
L’attività del misurare è caratteristica del procedere scientifico; mediante questa operazione, eseguita con gli strumenti adatti, è possibile uscire dal mondo «del pressappoco» per entrare nell’universo della precisione e della quantificazione, descrivendo i vari aspetti della realtà non solo con le parole ma anche con i numeri, così da riuscire a confrontarli.
L’operazione di misurare ha anche un aspetto prevalentemente pratico, quando permette di definire con esattezza i confini di un campo, di conoscere l’entità precisa di un raccolto o la consistenza numerica di un gregge. La misura del tempo, ad esempio, ha avuto a lungo un carattere soprattutto sociale, sottolineato dalle campane della chiesa o del convento, che escludeva la necessità di una precisione assoluta; per passare da strumento quotidiano a strumento scientifico, il semplice orologio a contrappesi dovette quindi trasformarsi in cronometro. In questa forma divenne indispensabile per l’astronomia e la navigazione, in quanto permetteva di calcolare un elemento essenziale per conoscere la posizione di una nave: la longitudine.

In pieno XVII secolo, quando le grandi potenze marittime europee – la Francia, l’Olanda, la Gran Bretagna – lanciarono le loro navi fuori dal Mediterraneo alla conquista dell’oceano Atlantico, il problema dell’esatta determinazione della longitudine costituì addirittura la molla per la fondazione delle prime istituzioni scientifiche sovvenzionate, come l’osservatorio astronomico di Parigi o quello di Greenwich, in Inghilterra.

Per la determinazione della longitudine era necessario conoscere l’intervallo di tempo esistente tra il tempo assoluto (o tempo di Greenwich, come lo chiamiamo oggi) e il tempo locale; a sua volta, il tempo assoluto poteva essere determinato solo attraverso l’osservazione della Luna rispetto alle stelle, o appunto con un orologio molto preciso.

Il problema ebbe definitiva soluzione quando, nel 1765, un orologiaio inglese costruì un meccanismo che gli consentì di vincere il premio promesso dall’ammiragliato per la risoluzione del problema della longitudine. La caratteristica più importante del suo precisissimo cronometro era la presenza di un bilanciere a molla che non risentiva delle oscillazioni di una nave. Lo strumento si rivelò assai valido anche nel campo della fisica, nello studio del moto dei corpi e della verifica sperimentale di molte leggi.

Un prezioso aiutante
Anche per un’altra scienza, la chimica, il passaggio da una fase descrittiva dei fenomeni a una fase di formulazione di leggi è in gran parte legato a uno strumento tanto semplice quanto prezioso: la bilancia. Lo studioso Antoine Lavoisier, vissuto nel periodo della rivoluzione francese e ritenuto da molti il padre della chimica, considerava la bilancia il suo migliore assistente, e affermava di dovere all’uso costante di questo strumento la conferma sperimentale di molte intuizioni teoriche. Nel suo laboratorio, Lavoisier pesava sistematicamente non solo le sostanze che intervenivano in una reazione chimica, ma anche i contenitori, ripetendo la stessa operazione per tutti i prodotti che si ottenevano dalla reazione, compresi (ed era questo un aspetto molto importante) i gas che si sviluppavano come risultato del procedimento. Con le sue misure la bilancia fornì dunque la necessaria conferma sperimentale a una delle più importanti leggi della chimica, formulata da Lavoisier e nota come legge di conservazione di massa. L’uso della bilancia favorì inoltre la corretta interpretazione dei fenomeni chimici di combustione, permettendo allo studioso francese di identificare esattamente il ruolo dell’ossigeno in questo tipo di reazione e di scoprire le basi chimiche della respirazione degli esseri viventi.

Luce, lenti e strumenti ottici
La scoperta delle leggi di propagazione della luce attraverso il vetro trovò applicazione, a partire dal XVII secolo, in parecchi strumenti scientifici, come il microscopio di Leeuwenhoek o il cannocchiale galileiano

Una certa lentezza nell’evoluzione di questi strumenti ottici, che solo più tardi hanno rivelato le loro notevoli potenzialità di indagine rispettivamente nel mondo dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, si può spiegare con la difficoltà di ottenere una perfetta trasparenza del vetro e di limitare l’aberrazione cromatica. Mentre tuttavia già agli inizi del Settecento era possibile trovare in Inghilterra lenti corrette per telescopi, ci volle ancora quasi un secolo perché venissero fabbricate lenti analoghe, dette «acromatiche», destinate ai microscopi. Perché il telescopio decollò abbastanza in fretta mentre il microscopio, nato quasi parallelamente, segnò un ritardo? La risposta è probabilmente di natura pratica; il telescopio, oltre alla sua utilizzazione scientifica, aveva applicazioni commerciali, ad esempio nella navigazione o nelle esercitazioni militari di tiro. I medici, invece, che avrebbero potuto essere i maggiori fruitori del microscopio, nel Seicento e in parte anche nel Settecento erano ancora troppo assorbiti dalla recente libertà di usare bisturi e scalpello per le dissezioni anatomiche e ancora troppo impegnati nell’aspetto macroscopico del vivente per impegnarsi a fondo in campo microscopico. Eppure, come si comprese in seguito, certi aspetti della circolazione del sangue (la presenza e la funzione dei capillari, per esempio) sarebbero stati chiariti rapidamente da qualche osservazione microscopica diretta.

Dal microscopio ottico al microscopio elettronico
A partire dall’Ottocento l’evoluzione tecnologica del microscopio ottico, fermo restando il principio generale di funzionamento, ebbe uno sviluppo notevole: furono introdotti obiettivi a potere di ingrandimento diverso, posti su un portaobiettivi ruotante, a revolver, e furono realizzati notevoli miglioramenti nel sistema di illuminazione dei preparati, nonché nelle loro tecniche di preparazione e colorazione. Il microscopio ottico è praticamente arrivato al massimo della sua potenzialità quando, nel 1930 circa, è comparso sulla scena il primo microscopio elettronico. La novità consisteva in un radicale cambiamento nell’uso della fonte di illuminazione in quanto, al posto della luce visibile, esso utilizzava fasci di particelle negative, gli elettroni, dotati di un grande potere di penetrazione. Per metterli opportunamente a fuoco non occorrevano più lenti di vetro ma lenti elettroniche, determinate da un forte campo magnetico capace di deviare e indirizzare gli elettroni. Negli ultimi decenni il microscopio elettronico ha subito notevoli miglioramenti per quanto riguarda l’accelerazione degli elettroni, il potere di ingrandimento e la possibilità di ottenere preparati ultrasottili che, sottoposti a opportuni procedimenti, permettono di avere una visione molto nitida e tridimensionale del materiale osservato. Un buon microscopio ottico trova tuttora impiego in molti settori, non solo in biologia, medicina e chirurgia, ma anche in metallurgia e nell’industria elettronica, come indispensabile aiuto nel montaggio di transistor e circuiti integrati. Innegabilmente, peraltro, il microscopio elettronico ha ampliato i confini della conoscenza biologica delle ultrastrutture, permettendo di vedere la forma dei virus e di entrare all’interno degli organelli subcellulari per indagarne le strutture.

Dal sestante al radiotelescopio
Prima ancora che l’uso delle lenti aprisse una nuova era dell’astronomia, essa aveva raggiunto, nella seconda metà del XVI secolo, un vertice tecnologico coincidente con la nascita di un osservatorio astronomico notevolmente attrezzato e fornito di strumenti di misurazione apprezzabilmente precisi. Si tratta del centro sudi di Uraniborg, in Danimarca, che l’astronomo Tycho Brahe allestì fornendolo di sestanti, astrolabi e altri strumenti adatti a misurare l’altezza dei corpi celesti; la loro principale caratteristica consisteva nelle dimensioni, grandi fino al limite compatibile con la massima precisione delle misurazioni. La prima delle due rivoluzioni che successivamente dovevano contrassegnare la storia dell’astronomia fu causata dall’introduzione degli strumenti ottici; dapprima si trattò di telescopi rifrattori (caratterizzati da sistemi di lenti racchiuse in tubi più o meno lunghi e complessi), e in seguito di telescopi riflettenti costituiti da paraboloidi di metallo e specchi, spesso di notevoli dimensioni, come il «cinque metri» di Monte Palomar. Negli ultimi sessant’anni la scoperta che i corpi celesti non emettono soltanto radiazioni visibili ma anche altri tipi di radiazione a diversa lunghezza d’onda ha causato in astronomia una seconda rivoluzione, culminata con la costruzione di apparecchiature in grado di captare e interpretare tali radiazioni.

Attualmente quindi lo spazio non è sondato soltanto da potenti occhi artificiali, ma anche da gigantesche orecchie capaci di cogliere e identificare, su un suono di fondo diffuso, l’emissione di radiosorgenti isolate come i quasar e le pulsar. Poiché l’intensità dei segnali cosmici è molto bassa, è necessario che all’apparecchio ricevitore venga abbinato un radiotelescopio, molto simile a un telescopio ottico riflettente, costituito com’è da un paraboloide con un’antenna nel punto focale. In questo modo le radioonde raccolte dal paraboloide e concentrate sull’antenna inducono una corrente che, notevolmente amplificata, viene trasmessa al ricevitore. Maggiore è l’ampiezza del paraboloide, maggiore è l’energia che si può raccogliere; di qui le notevoli dimensioni dei radiotelescopi, come quello di Arecibo il cui paraboloide occupa un’intera vallata del diametro di 300 mi.

Per dare un’idea concreta di quanto sia debole l’intensità dei segnali cosmici che riceviamo, riportiamo un piccolo episodio. In una mostra tenuta presso l’osservatorio di Cambridge erano ben visibili su un tavolo dei foglietti bianchi; i visitatori curiosi che li sollevavano trovavano scritta sulla faccia coperta questa frase: «Per sollevare questo foglio di carta dal tavolo avete speso più energia di quella raccolta in tutta la storia dell’astronomia da tutti i radiotelescopi del mondo». 

Ancora altri strumenti
Una storia, sia pur breve, degli strumenti della scienza è ricca di esempi di ogni genere: accanto ai grandi protagonisti esiste una folla di attori di secondo piano o comparse, ognuno con il suo significato e con la sua utilità.

Alcuni strumenti, per esempio la macchina fotografica e la cinepresa, nati in origine in un campo assai diverso, hanno attualmente per la scienza un’importanza insostituibile; basti pensare al ruolo assunto nell’archeologia, nella geografia, nell’indagine ambientale dalle fotografie aeree di un territorio, o da quelle scattate con pellicole sensibili all’infrarosso, capaci di leggere il calore e di percepire cambiamenti e modifiche dove l’occhio umano non vede che una distesa uniforme.

È quasi superfluo poi accennare alla diffusione sempre crescente del computer in tutti quei settori, come la meteorologia, l’astronomia, lo studio dell’ambiente, che richiedono un’elaborazione veloce di dati e una loro restituzione in forma grafica sintetica. Consideriamo in particolare una delle indagini più moderne nel campo della medicina, che utilizza strumenti simili, nel principio di funzionamento, a quelli usati da altre scienze apparentemente assai lontane, come l’astrofisica. Si tratta di un’indagine che prende il nome dall’astrofisico Christian Doppler; questi, verso la metà dell’Ottocento, durante i suoi studi sulle galassie osservò che il colore di quelle in avvicinamento era diverso dal colore delle galassie che si allontanavano, in maniera analoga al fenomeno per cui i suoni diventano più gravi o più acuti a seconda che una sorgente sonora si avvicini o si allontani da noi. Secondo questo stesso principio, l’emissione di ultrasuoni viene utilizzata in medicina per studiare, ad esempio, la velocità del passaggio del sangue nei vasi, in modo da poter diagnosticare rapidamente l’eventuale occlusione di un vaso sanguigno. L’esame Doppler, utilizzato da circa vent’anni, è un’applicazione specializzata della tecnica di indagine chiamata più genericamente ecografia. Il suo principio di funzionamento si basa sempre su ultrasuoni emessi attraverso finestre molto piccole, che possono arrivare a notevoli profondità e il cui ritorno, l’eco appunto, viene in seguito opportunamente interpretato.

TAC, e la radiografia è fatta
Una sigla breve e incisiva, tac, indica comunemente l’indagine medica chiamata «tomografia assiale computerizzata». A differenza della normale radiografia a raggi X, che offre un’immagine piatta delle strutture anatomiche, la tac isola sezioni ben definite del corpo umano (in particolare quelle appartenenti al sistema nervoso centrale) che vengono esaminate successivamente, una dopo l’altra, per tutta la profondità necessaria, e sono infine riassunte da un computer. Il notevole salto di qualità prodotto dall’applicazione dei computer alle macchine radiologiche ha indirettamente favorito anche la diffusione di altri metodi di indagine, come la rem (risonanza elettromagnetica). Questa tecnica si basa su un grande magnete cilindrico, capace di creare un campo di intensità 60.000 volte maggiore rispetto a quello terrestre, nel quale si introduce il paziente. Sotto l’influsso di questo potentissimo campo magnetico i protoni (le particelle cariche positivamente presenti nei nuclei atomici degli elementi che compongono i tessuti viventi) cominciano a vibrare intorno alle loro posizioni; nel tornare in equilibrio, poi, emettono un leggero segnale radio specifico che viene registrato da un computer. Quest’ultimo ricostruisce un’immagine tridimensionale, i cui toni di grigio sono proporzionali all’intensità dei segnali ricevuti dai tessuti; tale immagine sarà interpretata in seguito dal medico.

GLOSSARIO

Aberrazione cromatica. Irregolarità nella trasmissione della luce attraverso le lenti dovuta alla dispersione del vetro, che provoca immagini differenti per ogni radiazione di diverso colore e formazione di iridescenze.

Acromatico. Senza colore, detto di lenti corrette che non presentano iridescenze dovute all’aberrazione cromatica.

Astrolabio. Antico strumento per determinare la posizione degli astri formato da un cerchio graduato su cui sono appoggiati una lamina che porta incisi i corpi celesti e una rete ruotabile; al centro è fissato un braccio anch’esso ruotabile.

Legge di conservazione di massa. Legge chimica anche detta «legge di Lavoisier», in base alla quale alla scomparsa di una certa quantità in peso di reagenti corrisponde la formazione di un’uguale quantità in peso di prodotti.

Longitudine. Posizione di un luogo calcolata in gradi in base alla distanza dal meridiano di Greenwich.

Macroscopico. Relativo a fenomeni o aspetti osservabili a occhio nudo (in contrapposizione a microscopico).

Occlusione. Chiusura di un condotto che si può verificare, ad esempio, per la formazione di un coagulo.

Paraboloide. Apparecchio dalla tipica forma a ombrello aperto, installato in cima a un’antenna radio, che permette la trasmissione a distanza di onde elettromagnetiche.

Pulsar. Oggetto astronomico relativamente vicino alla Terra, della grandezza apparente di un pianeta, che emette impulsi radio con notevole regolarità.

Quasar. Sistema di natura stellare a enorme distanza dalla Terra, che se ne allontana a velocità quasi pari a quella della luce ed emette una notevolissima quantità di energia.

Sestante. Strumento costituito da un settore circolare ampio 60° che misura l’angolo formato dalla visuale di due oggetti, usato in particolare per calcolare l’altezza degli astri sull’orizzonte.