Nel sentir parlare una persona, appare spesso chiara ed evidente – in certi casi anche troppo – la provenienza geografica…
Nel sentir parlare una persona, appare spesso chiara ed evidente – in certi casi anche troppo – la provenienza geografica grazie alla pronuncia (livello fonetico). Possiamo dire altrettanto per gli altri livelli della lingua, quello morfosintattico, cioè le forme e i costrutti, quello lessicale, cioè le parole? Certamente no. Quanto al lessico, esistono molti termini specifici per ciascuna area, ma non necessariamente vengono impiegati in ogni discorso: a differenza della pronuncia, che nell’italiano regionale è sempre più o meno caratterizzata geograficamente, il lessico può anche non esserlo. Se passiamo al livello morfosintattico, ci accorgiamo che la sua caratterizzazione regionale è generalmente piuttosto scarsa.
Pochissimi, poi, sono i tratti regionali strettamente morfologici, che riguardano cioè la forma delle parole, mentre la maggior parte sono usi sintattici, cioè costrutti, modi di impiegare, all’interno delle frasi o dei periodi, determinate forme o parole: tratto morfologico è, per esempio, dasse per desse (voce del verbo dare), mentre uso sintattico è l’indicativo al posto del congiuntivo in frasi del tipo credevo che ce l’aveva lui.
Tratti comuni a più aree
Molti tratti morfosintattici sono comuni a più di una varietà regionale, e caratterizzano quindi l’italiano soprattutto parlato (lo scritto è molto meno influenzato dal regionalismo, in quanto più condizionato dalla norma) di persone appartenenti a più aree geografiche. Alcuni di questi usi si sono ormai tanto diffusi nell’italiano contemporaneo, da essere quasi accettati nella lingua comune: diciamo quasi perché esistono significative differenze di vedute all’interno dei linguisti e dei grammatici relativamente a quali usi rientrino nella norma e quali no.
Se molti, per esempio (e certo i più) ritengono che gli per loro e l’indicativo al posto del congiuntivo siano da considerare usi scorretti, alcuni li comprendono fra i tratti ormai accettabili, in virtù della loro larghissima diffusione nei più svariati livelli di lingua, anche scritta (si vedano i giornali).
Senza entrare, qui, nel merito della loro accettabilità o meno nell’italiano comune, limitiamoci a elencare i principali tratti morfosintattici comuni alla quasi totalità delle aree regionali italiane:
– lui, lei, loro come pronomi personali soggetto: sai che lui ti aspetta;
– gli per loro, dativo: telefona ai Bianchi e digli che non possiamo andare;
– il chiacchieratissimo uso dell’indicativo al posto del congiuntivo in dipendenza dai verbi del tipo credere, pensare, volere: credo che Giovanni non ha voglia di partire, voglio che vai dalla nonna;
– sostituzione del futuro con l’indicativo presente: domani vado a Roma;
– semplificazione dei diversi tipi di periodo ipotetico nei due tipi: a) se potevo, facevo; b) se potrei, farei.
Tratti tipici di aree specifiche
Varietà settentrionale:
– sostituzione di cosa? a che cosa? o che? (cosa vuoi per cena?), molto diffusa ormai anche nell’italiano parlato comune, tranne che nell’area centro-meridionale, dove prevale che?;
– assenza dell’articolo determinativo davanti ai possessivi: mia mamma è anziana;
– uso pleonastico di pronomi e particelle pronominali: a me mi piace;
– uso errato delle negazioni nei costrutti del tipo ho mica visto, c’è nessuno, si fa niente tutto il giorno;
– impiego costante del passato prossimo invece del passato remoto: l’estate scorsa sono andata in Sardegna, tratto, anche questo, che va diffondendosi molto anche al di fuori dell’Italia settentrionale.
Varietà toscana:
– il pronome personale obliquo te usato come soggetto (mentre me è più tipico dell’area settentrionale): te non sai quanto è bello;
– sostituzione di ci/ce con si/se (anche in Italia settentrionale): vogliamo andarsene;
– prima persona plurale dei verbi espressa dal si + impersonale: noi si va al mare;
– forme verbali come vedano, sentano per vedono, sentono, come dichino, faccino per dicano, facciano, e come dasse, stasse per desse, stesse.
Varietà romana:
oltre ai tratti comuni alla più parte delle aree (in particolare l’indicativo al posto del congiuntivo), partecipa di alcuni usi della varietà toscana (te per tu, se/si per ce/ci) e di altri di quella meridionale (per esempio l’impiego della preposizione a invece di in con i nomi di luogo e di strade, piazze: abitiamo a Piazza Navona).
Varietà meridionale:
– estensione dell’uso della preposizione a: al posto della preposizione di dopo amico, figlio (sono amico a Luigi); dopo verbi transitivi, soprattutto in reggenza di nomi di esseri animati (io lo picchio a mio figlio) e in generale in posizione pleonastica (lo hai visto a studiare?);
– scambi tra il congiuntivo e il condizionale, per esempio nel periodo ipotetico impiego del tipo se potessi, facessi, oltre al tipo se potrei, farei, usato anche in altre parti d’Italia;
– costruzioni particolari come voglio comprato il pane, o voglio essere comprato il pane;
– uso del gerundio preceduto dal verbo stare per indicare il perdurare di un’azione: non lo sto vedendo per non lo vedo.
Usi dell’italiano popolare
Ma, al di là di questi tratti che caratterizzano l’italiano a livello regionale (anche se alcuni sono comuni a più aree) e in linea di massima prescindono dal livello sociale dei parlante, potendo anche essere usati, pur se nei registri più informali, da persone di medio ed elevato grado socioculturale, vanno citati altri tratti morfosintattici del parlato. Si tratta di quegli usi che sono caratteristici fondamentalmente dell’italiano popolare, cioè dell’italiano «imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto», parlato (e scritto) generalmente da persone di scarsa scolarizzazione e di basso livello culturale, quasi sempre privi di particolari influssi dialettali (a parte qualche caso). Vediamone i principali:
– nell’ambito dei pronomi, gli per le e le per gli (decisamente più scorretti, quindi, di gli per loro); ci per gli, le, loro (soprattutto del Nord);
– i comparativi analogici come più migliore, più peggiore, più meglio;
– il che polivalente, cioè impiegato al di là del suo uso normale, in sostituzione di altre forme (per esempio al quale, del quale, nel quale, dove): il paese che sono andato è bello; oppure in modo pleonastico: quando che vai dimmelo, mentre che dormo non penso ecc.;
– scorretti usi preposizionali: da per me, da per aria, in dei miei panni;
– uso improprio degli ausiliari: essere per avere, per esempio sarà pesato tre etti; avere per essere, per esempio mi ho preso una cotta;
– costruzioni sintattiche irregolari, dette anacoluti: siamo tre giorni che non usciamo, io il vino non mi prende alle gambe;
– concordanze logiche o a senso: la gente vengono, nessuni bambini, la tua mamma è troppa buona.
Anche se la maggior parte di questi usi suonano decisamente scorretti e molto probabilmente continueranno a restare confinati nella competenza linguistica di parlanti incolti, non si può escludere che alcuni di essi conosceranno negli anni a venire una più larga diffusione: questo potrebbe accadere, per esempio, e se ne hanno già parecchie avvisaglie, per l’uso improprio dei pronomi e degli ausiliari.
Estensione di moduli tipici del parlato
In generale, l’estensione dell’uso di moduli tipici della lingua parlata (e questo vale certo più per i tratti dell’italiano regionale che non per quelli dell’italiano popolare), tendenza molto viva nella lingua italiana contemporanea, è un processo difficilmente arginabile, nonostante le preoccupazioni e le proteste di molti linguisti e anche di persone non addette ai lavori. Esso trova le sue ragioni nella sempre più larga acquisizione dell’italiano da parte di classi sociali fino a pochi decenni fa estranee all’uso della lingua nazionale, nella semplificazione e nell’appiattimento della lingua, influenzata in misura crescente da modelli standardizzati come i mass media, i fumetti ecc.
Molti lamentano la progressiva e preoccupante influenza del parlato sullo scritto: non dimentichiamo che l’italiano, per la sua storia particolare, si è trovato a vivere entro un periodo molto ridotto processi, come quello appunto dell’avvicinamento della lingua scritta e di quella parlata, che altre lingue europee hanno sviluppato lungo secoli e secoli, e che tutto questo è avvenuto nel momento della standardizzazione e della massificazione della cultura.
Regionalismo lessicale
Esaminiamo ora la componente lessicale delle diverse varietà regionali dell’italiano.
Prima di passare all’individuazione delle parole che caratterizzano maggiormente l’italiano settentrionale, quello toscano, quello romano e quello meridionale, è necessario fermarsi su alcune considerazioni preliminari. L’aspetto lessicale è, dei diversi aspetti che costituiscono una lingua, quello più facilmente investito da scambi e influssi tra diverse realtà linguistiche; ed è soggetto a evoluzioni e cambiamenti molto più rapidi e immediatamente percepibili rispetto alla fonologia, alla morfologia, che sono i settori più stabili delle lingue, e anche della sintassi, che evolve sensibilmente, ma sempre meno velocemente del lessico. Dato il continuo apporto di voci dai dialetti e dalle varietà regionali all’italiano comune nazionale, è molto importante stabilire un approccio rigorosamente sincronico, cioè attuale, ad un esame delle voci che caratterizzano i diversi italiani regionali, per evitare di includere in questi elenchi parole che sono già penetrate stabilmente nell’italiano comune e sono ormai conosciute, se non tutte ugualmente usate, dalla totalità o quasi degli italiani.
Passaggio di voci dal dialetto alla lingua
Sappiamo che la penetrazione di voci dialettali e regionali nella lingua comune è dovuta principalmente a due ragioni: la tradizionale carenza del lessico italiano nell’ambito del vocabolario pratico, delle arti e dei mestieri, degli oggetti della realtà materiale e quotidiana, e la forte impronta espressiva di molte voci dialettali accolte proprio in virtù di questa nel patrimonio comune.
Se già nel corso dei secoli, dalle origini dell’italiano all’Ottocento, alcuni dialettalismi sono entrati nella lingua (per esempio arsenale, gazzetta, doge e gondola dal veneziano, abbaino dal genovese, rione dal romanesco), dall’epoca dell’unità d’Italia decine e decine sono le voci dialettali penetrate nell’italiano comune, diffuse soprattutto dai giornali, dalla radio e dalla televisione, dal cinema, da alcuni linguaggi settoriali (pubblicitario, tecnico) e, a un livello più alto, dalla letteratura. Il grado di penetrazione di queste parole è facilmente documentato dal loro generale accoglimento nei dizionari dell’uso, anche se il comportamento di questi non è uniforme e esente da differenze.
Molte di queste voci sono termini gastronomici, diffusi al di fuori della regione d’origine con la specialità che denominavano.
Voci settentrionali
Dai dialetti dell’area settentrionale sono entrate nell’italiano, tra le altre, le seguenti parole, la maggior parte delle quali non viene ormai più sentita come tipica dell’area di origine.
Piemonte: arrangiarsi, grana (noia), grissini, gianduia, barbera, nebbiolo. Lombardia: filanda, brughiera, scartoffia, calmiere, caseggiato, anta, grappa, risotto, panettone, mascarpone. Liguria: piovasco, rivierasco (il suffisso aggettivale -asco è tipico dell’area ligure), arselle, ravioli. Emilia: grana (tipo di formaggio), cotechino, tortellini, cappelletti. Veneto: pontile, ditta (più antichi catasto, regata, pettegolo, oltre a quelli citati più sopra). Territori alpini: malga, croda, con i derivati incrodarsi, crodaiolo.
Voci romane
Da Roma, soprattutto attraverso il cinema, la radio e la televisione, provengono voci come burino, cocciuto, abboffarsi, pizzardone, macello (disastro), abbacchio, bullo, fasullo, paparazzo.
Voci meridionali
All’area meridionale, e in particolare a Napoli, riportano: carosello, iettatura, camorra, malocchio, citrullo, cafone, vongole, mozzarella, pizza. Infine, dalla Sicilia provengono: mafia, omertà, picciotti, cassata.
Come si può facilmente notare, se si eccettuano i numerosi termini di specialità culinarie, molte delle voci settentrionali appartengono alla terminologia industriale o del lavoro in genere, mentre le parole centro-meridionali sono in gran parte di carattere espressivo o relative a costumi sociali.
Qualche etimologia in breve
carosello
dal napoletano carusiello «salvadanaio», da un verbo carosare «tosare» (per avvicinamento metaforico tra un salvadanaio e una testa pelata). Nel Cinquecento carusiello fu usato per indicare un gioco di origine araba importato a Napoli dagli spagnoli, significato che è alla base dell’attuale carosello.
citrullo
dal napoletano cetrulo «cetriolo», con evidente riferimento metaforico al membro virile.
mafia
dal siciliano mafia «baldanza, braveria», derivato probabilmente dall’arabo mahias, «millanteria».
omertà
voce siciliana di origine discussa. È stata ricollegata o a umiltà (in napoletano omertà) o alla voce astratta siciliana omertà «l’essere uomo».
paparazzo
dal nome di uno dei fotoreporter del film La dolce vita di Federico Fellini.
pizzardone
dal romanesco pizzarda «tipo di cappello a feluca portato dalle guardie municipali» che ricordava il becco della beccaccia, detta anche pizzarda.
ravioli
dal genovese ravieu, «smerlo».
vongole
napoletano, dal latino tardo conghula, «conchiglietta».
Voci impiegate solo a livello regionale
Veniamo ora ai regionalismi che sono ancora, almeno per ora, tali: a differenza delle parole che abbiamo appena visto, sono, questi, termini impiegati soltanto a livello regionale, e che caratterizzano quindi l’italiano nelle sue diverse varietà geografiche.
Alla varietà settentrionale appartengono: balera «ballo pubblico all’aperto», bauscia «sciocco, millantatore», busecca «trippa», ghisa «vigile», giambone «prosciutto», pattina «presina per pentole», panetteria e prestineria «forno», posteria «salumeria», paletò «cappotto», riga «scriminatura», tiretto «cassetto», tosa «ragazza», vera «anello matrimoniale», fare i mestieri «riordinare e pulire la casa». Settentrionalismi semantici sono avanzare «risparmiare» e capitare «arrivare».
Caratteristici dell’area toscana sono: acquaio «lavandino», appigionasi «affittasi», balocco «gioco», cencio «straccio», diaccio «freddo», granata «scopa», midolla «mollica», mesticheria «negozio di vernici», pizzicagnolo, pizzicheria «salumiere, salumeria», sciocco, «che sa poco di sale», star lustro «star fresco», il tocco «l’una».
Alla varietà romana riportano, tra gli altri, i seguenti termini: ammappete, ammazzete, ammazzelo «caspita», borgata «villaggio satellite», caciara «chiasso», fanatico «vanaglorioso», mannaggia, mondezza «immondizia», pedalino «calzino», pedicello «foruncolo», rimediare «ottenere», tardona «donna anziana».
Alla varietà meridionale: cacciare «cavar fuori», carnezzeria «macelleria», cerasa «ciliegia», ciecato «cieco», compare «padrino», imparare «insegnare», paesano «concittadino», petrosino «prezzemolo», pittare «dipingere», sfizio «divertimento», stare «essere», tenere «avere», uscire pazzo «impazzire».
Fra i diversi termini elencati andrebbero poi distinti, a una indagine più approfondita, quelli di impiego più ristretto, che non escono al di fuori di un’area di impiego ben delimitata, come per esempio posteria, prestinaio, giambone, busecca, mesticheria, cerasa, petrosino, carnezzeria, e quelli di impiego più ampio, che tendono già ad uscire da un’area geografica definita, come balera, ghisa, balocco, tardona, sfizio. Termini, questi, ormai entrati nel lessico dell’italiano comune.
I geosinonimi
L’esistenza di nomi differenti nelle diverse aree per indicare un medesimo oggetto (i cosiddetti geosinonimi) può essere talvolta motivo di ambiguità e di incomprensioni.
Un settentrionale che si rechi, per esempio, a Firenze e impieghi senza preoccupazione i termini del proprio lessico abituale incorre sicuramente nell’incomprensione del fruttivendolo a cui chieda un’anguria: questo frutto, infatti, è chiamato in area centrale cocomero. Se poi, in un albergo fiorentino una signora milanese domandasse: «Per favore potrei avere un ometto?», susciterebbe l’ilarità stupita della cameriera, per la quale ometto indica soltanto una persona di sesso maschile non tanto alta, mentre l’oggetto a cui evidentemente la signora si riferisce è per lei la gruccia o l’attaccapanni.
Ambiguità può generare anche la parola scodella, che al Nord indica una tazza senza manico (ciotola in Toscana, tazza in Italia meridionale) mentre in Toscana indica il piatto fondo per minestra che dai settentrionali è detto fondina. Ancora, quartiere in Toscana e al centro significa appartamento, mentre al Nord indica una zona della città. Melone in Italia settentrionale denota il frutto giallo-arancione, detto popone in Toscana, mentre in Italia meridionale mellone d’acqua o mellone rosso indicano il frutto rosso con i semi neri.
Altri esempi di geosinonimi sono: posteria (in declino, sostituito dal comune salumeria) settentrionale / pizzicheria toscano / salsamenteria meridionale; padrino e madrina (di battesimo e di cresima) settentrionale e toscano / compare e comare meridionale / santolo e santola di area veneta; affittare settentrionale / appigionare toscano / locare meridionale; asino settentrionale / somaro centrale.
In alcuni casi si è imposto sugli altri geosinonimi il termine settentrionale, dotato della forza di diffusione esercitata dall’industria e dal commercio, settori nei quali l’Italia del Nord gode di un’indubbia preminenza: tapparella tende a imporsi su serranda e avvolgibile, centrali e meridionali; vasca da bagno ha decisamente avuto la meglio sul toscano e centro-meridionale tinozza, che ora pare quasi denotare un oggetto del passato; lavello, voce settentrionale diffusa dall’uso industriale e commerciale, tende a soppiantare il settentrionale lavandino (limitatamente, però, a quello della cucina) e il toscano acquaio. E si potrebbe continuare. Il regionalismo nel suo complesso costituisce, dunque, ancora oggi un forte elemento caratterizzante della lingua italiana parlata. Spinte unificatrici si fanno sentire, però, sempre di più sia a livello fonetico, sia, soprattutto, a livello lessicale. Difficile è prevedere il futuro della lingua italiana sotto questo riguardo: certo, i dialetti sono una realtà linguistica sempre più in regresso nella competenza e nell’uso dei parlanti del nostro paese, ma le differenziazioni regionali sono tuttora così marcate e vive da farci presumere che una unificazione e una standardizzazione che le annulli definitivamente sia ancora lontana, se non addirittura impossibile in un futuro reale. E, forse, è un bene che si conservi quello che, se per certi versi è un difetto, per altri versi è uno dei pregi della nostra lingua, così più ricca e varia di tante altre.