Saggio di Francesco Alberoni
I movimenti collettivi e il loro effetto sul sistema sociopolitico italiano.
Il disagio di un Paese moderno
L’Italia, ancora nel primo decennio del 2000 ha gravi problemi di sviluppo economico. Gli investimenti in infrastrutture, autostrade, ponti, alta velocità sono fermi o per mancanza di finanziamenti o perchè qualcuno blocca i lavori. La nostra compagnia di bandiera l’Alitalia è fallimentare e non si riesce a costruirne un’altra efficiente come ha fatto la Svizzera. La Campania annega nei rifiuti.
La scuola e l’università diventano ogni giorno più scadenti, le multinazionali farmaceutiche spostano i loro laboratori dall’Italia con la perdita di migliaia di posti di ricercatori. Il sistema sanitario ancora buono nel Nord, anche se occorrono sei mesi per avere una ecografia, nel Sud è in pessime condizioni. Il sistema giudiziario è in condizioni patologiche: nel civile la maggior parte della gente, soprattutto le imprese evitano di ricorrere alla magistratura e si affidano all’arbitrato privato in cui però, talvolta, troviamo all’opera proprio gli stessi magistrati inefficienti su quello pubblico. Un po’ come nella sanità dove se vuoi un esame fatto in fretta devi pagartelo. Vi è una massa crescente di immigrati irregolari che alimenta il mercato nero e la criminalità e chiunque richieda misure radicali per evitare il loro aumento viene accusato di razzismo. Un quarto delle famiglie italiane non ha i soldi per arrivare alla fine del mese. Accanto a gente arricchita, ci sono le file per avere il pane.
La gente si domanda come siamo finiti a questo punto. E fra le risposte viene sempre più spesso citato il ’68, genericamente indicato come il momento in cui è stato messo in discussione e irreparabilmente alterato un sistema socio-politico-culturale che nel dopoguerra aveva realizzato la democrazia, il miracolo economico e garantito la pace sociale.
Questo sistema sul piano politico era caratterizzato da quello che Giorgio Galli ha chiamato il bipartitismo imperfetto, perchè la Democrazia Cristiana e i partiti alleati erano sempre al governo e il Partito Comunista Italiano sempre all’opposizione, però la stragrande maggioranza delle leggi veniva votata in commissione all’unanimità e i tre sindacati, comunista CGIL, cattolico CISL e socialista UIL, non avevano mai fatto rivendicazioni tali da mettere in difficoltà le imprese. Sul piano culturale c’era un sistema scolastico figlio della riforma Gentile e dell’influenza di Croce che dava una rigorosa educazione di base e una università per élites di altissimo livello. Nel Paese era diffuso un ethos prevalentemente ispirato ai valori cristiani tradizionali condivisi, in sostanza, anche dai comunisti, in cui veniva data grande importanza alla famiglia e all’autorità dei genitori.
Questo sistema socio-politico-culturale è stato messo in crisi da un complesso di movimenti che si sono succeduti e accavallati fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Ma poiché molte delle persone che in Italia parlano di movimenti collettivi non sono abituate a studiarli, mettono tutto insieme, e indicano il loro succedersi, incrociarsi, contaminarsi e i loro sbocchi istituzionali con un’unica espressione: il ’68.
Le ideologie del Novecento
Il XX secolo è stato caratterizzato da violenti movimenti collettivi animati da solide ideologie. In Russia il marxismo rivoluzionario, a opera di Lenin e di Stalin è riuscito a conquistare il potere e a costruire il primo vero Stato socialista della storia, ossia un apparato statale che gestisce direttamente tutta l’economia eliminando totalmente la proprietà privata. Questo modello, presentato come dittatura del proletariato e preludio alla totale eliminazione delle classi e alla creazione di un uomo nuovo senza più avidità ed egoismo, è stato poi adottato da tutti i regimi comunisti del pianeta grazie a una assoluta egemonia culturale del marxismo sovietico su ogni altra forma.
In parallelo allo sviluppo e al trionfo del marxismo, nella prima parte del secolo vi sono stati anche forti movimenti nazionalistici che hanno condotto alla prima guerra mondiale e, successivamente, hanno costituito la base per una reazione all’internazionalismo marxista sotto forma di fascismo e di nazismo. Ma, con la seconda guerra mondiale, questi regimi sono stati sconfitti e in Europa sono rimasti vincitori solo la democrazia anglosassone e il comunismo sovietico. Questo, verso la metà degli anni Sessanta, era arrivato a dominare addirittura una metà del pianeta (Paesi dell’Est europeo, Cina, Sud-Est asiatico, Cuba, Angola, etc.) e ha lasciato una impronta duratura sulle mentalità e sulle coscienze. Questo è avvenuto anche in Italia, dove esisteva il più importante partito comunista dell’occidente e dove il marxismo era fortissimo anche nel partito socialista, nei sindacati e negli ambienti culturali.
Perchè do tanta importanza al marxismo? Perché in Italia, dopo la sconfitta del fascismo, il nazionalismo ha perso ogni peso. Il mondo cattolico, molto forte sul terreno politico e ben radicato in quello economico, non ha mai avuto una grande importanza culturale. Non ha avuto grandi filosofi, a parte Augusto Del Noce, né grandi registi, scrittori e filosofi. La cultura milanese, pensiamo al Piccolo Teatro, era soprattutto socialista, quella romana, pensiamo al cinema, comunista. Vi era poi una forte corrente culturale liberale di sinistra presente nelle università e nella stampa (pensiamo a Giovanni Spadolini e a Indro Montanelli), ma non era organizzata attorno a un partito con una scuola e degli attivisti, e non aveva il controllo di potenti organizzazioni culturali.
L’Italia degli anni ’60 aveva avuto un impetuoso sviluppo economico. Dal Sud al Nord e dalla campagna alla città si erano spostati milioni di persone. Nel Nord si era formata una forte classe operaia in cui erano molto numerosi i giovani operai che venivano dal Sud. Questi erano solo parzialmente sindacalizzati e solo una minoranza militava nel partito comunista. Il loro ingresso nel sistema sindacale e politico avverrà nel 1969-1970 con un movimento collettivo a cui è stato dato il nome improprio di «autunno caldo».
Anche gli studenti delle scuole medie e della università erano molto cresciuti numericamente grazie all’urbanizzazione e al generale sviluppo economico. Anche qui troviamo moltissimi figli di immigrati senza una preparazione politica ma desiderosi di affermarsi, ambiziosi. Le regole dell’università d’élite stavano diventando strette per una massa di popolazione così grande.
Aggiungiamo che, nel nostro Paese, era presente un generico atteggiamento anticonsumistico e addirittura antiedonistico, in buona parte dovuto alla cultura cattolica e marxista che distingueva nettamente fra bisogni essenziali e non essenziali e sosteneva che lo sviluppo economico doveva occuparsi solo dei primi. Penso in particolare alle posizioni di Franco Rodano e di Claudio Napoleoni. Anche in questo campo la gente che stava meglio, che viaggiava, che voleva divertirsi incominciava a sentire strette le regole del costume tradizionale.
I movimenti americani degli anni ’60
Il grande cambiamento è stato messo in moto negli Stati Uniti d’America durante gli anni Sessanta. Vi hanno contribuito tre fattori. Il primo è l’enorme aumento del benessere e del numero degli studenti universitari che vivono in campus separati dalla città e sviluppano una propria cultura giovanile. Il primo segnale del cambiamento è la comparsa del rock di Elvis Presley che getta, nell’America puritana, una ventata di erotismo. È un fatto pre-politico, ma che costituisce, insieme a «Playboy», l’inizio della rivoluzione sessuale.
Il secondo fattore è rappresentato dalla guerra del Vietnam che costringe il governo a introdurre nuovamente la coscrizione obbligatoria per una guerra non che non viene sentita necessaria per la propria sopravvivenza. I giovani si ribellano e disertano. Il terzo fattore è la richiesta di emancipazione dei neri, anch’essi ormai profondamente inseriti nel sistema produttivo e nella cultura ma ancora emarginati e discriminati. Tutti questi fattori interagiscono ed esplodono in violenti movimenti collettivi che producono notevoli effetti politici e danno origine a una vera e propria rivoluzione culturale e del costume.
Un chiarimento sul concetto di movimento collettivo. Il movimento è una esplosione collettiva improvvisa che trascina gli uomini in un vortice di rivolta e di speranza, li unisce, li affratella in una nuova comunità che cerca di trasformare il mondo che la circonda. Un turbine di idee, di emozioni, di passioni che li porta a sognare, a credere, a odiare, a distruggere, talvolta a compiere efferatezze, ma che dona loro anche fede, entusiasmo, slancio, amore, dedizione. È a un tempo spinta verso il nuovo e recupero dell’antico, amore dirompente e odio sfrenato. Genera rancori implacabili ma anche pensieri sublimi e nuove forme d’arte.
Mobilita eroismo, energie creative, costruttive. Chi entra a far parte di un movimento rompe, in modo più o meno grande i legami che aveva in precedenza e ne forma dei nuovi, all’interno della nuova comunità. Lascia i vecchi amici per entrare in una diversa comunità, ed è questa ormai la sua nuova famiglia, la sua nuova gente, la sua nuova patria. I membri del movimento si chiamano fra loro fratelli, compagni, camerati e in certi casi cambiano addirittura nome, come i frati quando entrano in convento, o i partigiani che si danno un nome di battaglia. I membri di un movimento quando si incontrano fra di loro sono felici, orgogliosi di stare insieme, pieni di entusiasmo, di speranza, si sentono diversi dagli altri e manifestano la loro diversità creando rapidamente nuovi simboli, un nuovo linguaggio, nuove bandiere, nuovi rituali, nuovi canti e inni, un proprio abbigliamento, talvolta una vera e propria divisa.
Il primo movimento nasce a San Francisco con la rivista «Evergreen» e per semplicità lo chiameremo hippy. Vuole un ritorno alla natura, alla vita semplice, senza una oppressiva organizzazione sociale, senza fabbriche, dove puoi vivere di poco, in piccole comunità con gli altri giovani, senza competizione, senza invidia, cercando e dando il piacere. I giovani hippy vestono lunghe tuniche, fanno all’amore senza inibizioni, come un fatto naturale, e trovano la serenità e la pace usando la marijuana. A distanza di quarant’anni, se dovessi dire quale deve essere considerato l’accadimento che caratterizza il filone hippy della rivoluzione giovanile americana direi Woodstock.
È Woodstock la «presa della Bastiglia» dove, espulsi gli adulti, i giovani hanno fatto una immensa e interminabile orgia di fratellanza, musica, sesso e droga.
È a Woodstock che si afferma quella che ho chiamato l’internazionale giovanile, centrata su quattro componenti: fratellanza, musica rock, sesso e droga, che ancora oggi la caratterizzano. I suoi membri si staccano dal mondo adulto, dalla scuola, fanno sesso precoce, stanno fra di loro, seguono il principio del piacere immediato, rifiutano il pensiero lineare, si esprimono attraverso la musica e le immagini, usano precocemente droghe e hanno come proprie guide, profeti e maestri i cantanti rock.
Con l’inizio della guerra del Vietnam e la coscrizione obbligatoria, nel 1964, nel campus di Berkeley esplode il Free Speech Movement. È un movimento politico di rifiuto della guerra. Quasi a ridosso abbiamo il movimento di emancipazione nera di Martin Luther King, e il movimento Student for a Democratic Society che combatte contro la guerra e per una maggior uguaglianza e giustizia.
In questo clima di rivolta, rinnovamento e rinascita sorgono altri movimenti. Per esempio nel ghetto di Watts il movimento marxista delle Black Panthers e molto più importante ad Harlem il movimento dei Black Muslims di Malcom X, che rifiuta l’intera civilizzazione bianca rifiutando il cristianesimo.
L’ultimo importante movimento che sorge in questi anni è il femminismo. Le giovani donne hanno studiato, grazie alla pillola non temono più una gravidanza indesiderata, sono in condizione di mantenersi da sole e quindi rivendicano una totale parità con i maschi e la libertà sessuale.
Caratteristiche generali dei movimenti
Si tratta di movimenti diversi che nascono ciascuno in un certo momento, in un determinato ambiente sociale, con una propria elaborazione ideologica. Essi però nel loro stato iniziale, quello che io ho chiamato stato nascente, hanno in comune un sistema categoriale, un modo di pensare e di sentire molto simile, che può essere così descritto:
La rivolta e la liberazione. L’individuo ha l’impressione di potersi finalmente liberare da tutti vincoli, le coercizioni, e vivere in modo autentico.
Rinascita. L’individuo ha l’esperienza esaltante di una vita nuova. Incipit vita nova!
Storicizzazione. Ogni movimento scopre che il male e la sofferenza presenti hanno avuto inizio in un errore del passato e vuol tornare alle origini.
L’esperienza metafisica. L’individuo si rende conto che il mondo abituale sta per tramontare e lasciare posto a una nuova realtà. La vera realtà non è l’esistente, ma l’ideale.
Verità e giustizia. Ha poi l’impressione che ci siano una verità e una giustizia assoluta e che esse coincidano con la libertà e l’autenticità.
L’unanimità. Nel gruppo tutti pensano e sentono nello stesso modo perciò decidono per acclamazione, all’unanimità.
La fratellanza e il comunismo. I membri del gruppo provano una profonda esperienza di fratellanza e non c’è né una contabilità economica né dell’anzianità e dei meriti.
Il nemico. Per eliminare la causa del male occorre rimuovere l’errore e combattere un nemico.
Il progetto. Bisogna organizzarsi per costruire la società perfetta.
Poiché hanno in comune queste esperienze fondamentali, molti movimenti, anche quelli che poi diventeranno diversi e nemici, all’inizio si assomigliano. E questo ha portato molti sociologi e molti politologi a non compiere un’analisi accurata dei diversi movimenti ma a parlare di un unico «movimento», come una impetuosa corrente che assume diverse forme. È questa concezione che sta alla base dell’idea di un ’68 da cui sarebbe originato tutto. L’analisi che abbiamo fatto dei movimenti americani ci mostra però con chiarezza che il ’68 italiano era stato preparato da altri movimenti nati molto prima.
L’ondata arriva in Italia
L’ondata di rinnovamento culturale americano e inglese arriva in Italia nel 1966-1967 con la musica dei Beatles e una grande voglia di vivere, di divertirsi. La metà degli anni ’60 ha visto nascere le più belle canzoni italiane, i più famosi locali notturni, stupendi film. Giovani e meno giovani hanno avuto una vera e propria esperienza di rinnovamento, di rinascita. Questa fase dei movimenti giovanili in Italia ha assunto il nome di beat generation e di capelloni. Nascono dovunque discoteche, i locali «piper».
Fra alcuni giovani del Nord – non nelle università, ma fra la gente comune che lavora e che viaggia – si diffondono la musica di Joan Baez, Bob Dylan, le poesie di Ferlinghetti, Ginsberg e Kerouac, la libertà sessuale, generando un’atmosfera di fermento creativo, di gioia, di entusiasmo, di speranza quale non si era mai visto prima. I giovani nello stato nascente del loro movimento vivono quella che abbiamo descritto come esperienza fondamentale: il senso di un rinnovamento radicale in cui trionferà la verità, la sincerità, la giustizia, la felicità.
Anche sul piano culturale più elevato c’è un grande fermento, un grande desiderio di sapere. Si scopre la psicoanalisi di Freud e Melanie Klein. Poi la sociologia di Parsons, Pareto, Weber e Durkheim, l’antropologia di Claude Lévy-Strauss, la fenomenologia di Goffman, l’analisi storico-sociologica con Foucault e si fanno i primi passi verso la semiotica con Roland Barthes. Finora il tono dominante non è marxista. Nell’occupazione dell’Università Cattolica del settembre 1967 gli studenti cantano ancora We shall overcome.
Ma ben presto c’è anche una maturazione ideologica marxista che però non parte da Gramsci e Togliatti ma dai testi di Horkheimer, Adorno e Lucacs, e soprattutto dall’autore americano Herbert Marcuse che attribuisce il disagio esistenziale e la repressione psicologica al capitalismo e promette un’epoca felice quando questo verrà distrutto.
La marxistizzazione e il ’68
Ma in Italia esiste anche il più grande partito comunista d’Europa, con proprie scuole, propri giornali, attivisti combattivi e preparati. E vi è un ampio settore socialista marxista (il PSIUP). Sono costoro che spiegano ai giovani come realizzare il regno di felicità fratellanza e pace che sentono possibile e vicino. Non vivendo in comuni fraterne e tolleranti come propongono gli hippy, non attraverso una crescita della cultura borghese, ma preparando la grande rivoluzione proletaria marxista. Un peso lo ha certamente anche la vittoria dei guerriglieri Viet Cong poveri contro i ricchi americani, e il mito del Che Guevara, più bello e coraggioso di Garibaldi e di Simon Bolivar messi insieme, ammirato dai ragazzi e adorato dalla ragazze.
La marxistizzazione avviene nelle università di Milano, Roma, Torino, Padova, Trento nei primi mesi del 1968. Ed è in questo modo che nasce il vero e proprio movimento studentesco. Prendiamo il caso dell’Università Cattolica di Milano dove tutto è iniziato. C’era in atto una controversia cronica sulle tasse degli studenti serali. Nell’autunno del 1967 gli studenti dei diurno decidono di appoggiare i fratelli studenti lavoratori e fanno un sit-in all’esterno dell’università, ne nasce un accampamento con fuochi e canti religiosi. Dopo pochi giorni scatta l’occupazione dell’università, la tensione cresce, interviene la polizia, Mario Capanna lancia il grido d’assalto ed è scontro. È in questo momento che il movimento si radicalizza. In pochi mesi sorgono nuclei anche in altre università, alla Statale di Milano attorno allo stesso Capanna, a Padova attorno al teorico marxista Toni Negri e poi a Franco Piperno. Vengono occupate le università e vi si discute della guerra del Vietnam, dello sfruttamento capitalista e di rivoluzione proletaria. A Trento l’occupazione dura addirittura sei mesi.
È un cambiamento decisivo. Prima c’erano i beatnik i cappelloni allegri, irridenti, hanno immagini di Walt Disney, colori psichedelici. Il movimento studentesco irrompe con le immagini di Che Guevara, Fidel Castro, Marx, Lenin e Mao Tse-tung. In pochi mesi le componenti hippy, ludica, situazionista vengono sconfitte e il movimento viene totalmente egemonizzato dal marxismo rivoluzionario. Al posto dei Beatles e di Joan Baez subentrano gli inni anarchici, Bella ciao e Bandiera rossa. E fa subito la sua comparsa la violenza con la battaglia di Valle Giulia, i katanga alla Statale di Milano a cui segue l’assalto a Valdagno. È questo il ’68. Con l’estate, esattamente come era avvenuto in Francia dopo il maggio francese, il movimento va in vacanza, si ricompone nell’autunno con l’apertura delle università. Ma non ha più l’aggressività dell’anno precedente.
Esso incomincia come in Francia a dare origine a gruppuscoli: L’Unione dei marxisti leninisti (che si scisse poi in «linea rossa» e «linea nera»), Democrazia Proletaria, Lotta Continua. A essi si aggiungeranno Lavoratori per il Socialismo, Autonomia Operaia, il manifesto, ma dopo che sono entrati in scena gli operai.
Il movimento sindacale
In sostanza il movimento studentesco del ’68 non avrebbe avuto alcuna grave conseguenza politica e sarebbe probabilmente finito come in Francia o in Germania se, nel 1969, non si fosse messo in moto un altro movimento, il grande movimento sindacale che è rimasto alla storia come protagonista del cosiddetto autunno caldo.
Questo movimento non è stato messo in moto dagli studenti come qualcuno immagina. Nasce all’interno del mondo operaio e con protagonisti operai. Esso è messo in moto da uno sciopero spontaneo promosso dai vecchi quadri sindacali che si muovono secondo una prospettiva tradizionale e contrattuale, che commisurano i mezzi ai fini, gli obiettivi alle possibilità del sistema industriale. È proprio questa autolimitazione dei fini in rapporto alle possibilità, ciò che caratterizza l’azione istituzionale del sindacato.
Il loro esempio, però, offre agli operai comuni non soltanto uno schema d’azione, l’indicazione di un metodo di lotta, ma qualcosa di più: l’indicazione che è possibile un’alternativa alla situazione di dipendenza, che è possibile la rivolta sia contro la dirigenza sindacale, sia contro il padronato. Agli occhi dei nuovi operai l’azione dei vecchi militanti è antiistituzionale, è una proposta di trasgressione totale. Il processo di liberazione e di rinnovamento radicale che noi chiamiamo stato nascente.
A questi si aggiungono poi, solo in un secondo tempo, i militanti politici, gli intellettuali operaisti, portatori di una ideologia rivoluzionaria. Si tratta di piccoli gruppi a carattere di setta che permangono anche nelle situazioni normali e che costituiscono un fermento ideologico capace di comunicare un quadro di riferimento concettuale che dà un contenuto concettuale o un linguaggio all’esperienza dello stato nascente. Nel nostro caso esso orienta la lettura dell’esperienza in senso marxista rivoluzionario. E infine l’intero movimento viene nuovamente ricondotto nell’ambito sindacale da leader sindacali che emergono dal movimento stesso. I più importanti fra loro sono certamente i tre capi dei metalmeccanici Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto. Compaiono dunque in questa vicenda tre diversi soggetti.
La straordinaria potenza del movimento sindacale intimidisce il governo che si piega a ogni sua richiesta. In poco tempo la leadership dei metalmeccanici prende il sopravvento su tutti i sindacati e in questo modo si produce un’istituzione completamente nuova: la triplice, il potentissimo sindacato che dominerà la scena politica per tutti gli anni ’70 e ’80 e da cui vengono moltissimi leader politici di oggi.
Il trascinamento
Avviene allora un processo di trascinamento del nuovo movimento sindacale su quello studentesco. In termini generali possiamo dire che, quando in un processo storico diversi movimenti si succedono progressivamente, l’ultimo tende a trascinare, cioè a egemonizzare quelli precedenti e a presentarsi come l’autentica realizzazione di ciò che, nei movimenti precedenti, era qualcosa di incompleto, parziale, unilaterale.
Il movimento sindacale che ha coinvolto il «vero proletariato» apparso ai membri del movimento studentesco come più fondato, più autentico, di quello formato dai soli studenti, come il «vero movimento rivoluzionario» destinato a cambiare il destino dell’Italia. Gli studenti ne sono affascinati, soggiogati, corrono nelle fabbriche per apprendere e nello stesso tempo per guidare le «masse proletarie». Alcuni – quelli che fanno capo a Lotta Continua, a Lavoratori per il socialismo – si considerano solo l’avanguardia, il partito guida del movimento proletario.
Altri invece, credono sia arrivato il momento della agognata rivoluzione proletaria. Si uniscono alle frange sindacali radicali e pensano di realizzare la rivoluzione sul modello sudamericano di Fidel Castro e Che Guevara, incominciando dalla guerriglia che, in mancanza di foreste, diventerà terrorismo urbano. I gruppi terroristi Brigate Rosse e Prima Linea nascono cioè dall’incontro delle frange più rivoluzionarie del movimento studentesco e dalle frange più rivoluzionarie del movimento sindacale. È grazie a questo radicamento sindacale che i terroristi o i loro affiliati erano diffusi in modo capillare in tutte le fabbriche, negli ospedali, nelle università. Essi inoltre godevano se non dell’appoggio, certamente delle simpatie e dell’omertà di tutta la sinistra extraparlamentare e perfino di qualche settore dei sindacati, del partito comunista e del partito socialista che al massimo li definivano «compagni che sbagliano».
Altri sviluppi
Nello stesso periodo esplode anche in Italia il movimento femminista che si rifà a fonti americane e ha una elaborazione originale sul rapporto della donna col proprio corpo a opera soprattutto di Leslie Leonelli. Però in breve tempo grazie alla dominante culturale marxista il rapporto uomo-donna viene descritto in termini di dominanti e dominati, sfruttatori e sfruttati. La donna viene equiparata al proletariato, gli uomini ai capitalisti e la coppia diventerebbe il luogo privilegiato dello sfruttamento.
Ma le femministe che vogliono affrontare gli specifici problemi femminili, valorizzare il femminile e nello stesso tempo creare un nuovo rapporto con i maschi, si ribellano. Lo scontro è particolarmente violento nel gruppo d’avanguardia Lotta continua. Nel congresso di Rimini del 1975 le femministe rompono apertamente ed escono dal partito. È il primo segno di crisi ideologica del marxismo. Un processo che in Francia procede molto più rapidamente, basta pensare alla pubblicazione del libro di Bernard Henry Levy La barbarie au visage humain.
Nel frattempo i gruppi che hanno deciso che è il momento di scatenare la rivoluzione proletaria e prendere il potere, in particolare le Brigate Rosse e Prima Linea, si rafforzano e danno origine a quelli che verranno chiamati gli anni di piombo. Abbiamo visto che i terroristi e i loro sostenitori sono profondamente inseriti in tutto il sistema produttivo, nelle università, negli ospedali, nei quotidiani, perfino nelle stesse segreterie dei partiti. Godono inoltre di protezione da parte di molti intellettuali di sinistra (pensiamo alla rivista «Cerchio di gesso»).
Io ritengo che il loro successo sia anche stato favorito dalla particolare congiuntura economica internazionale. Nel 1973, per fermare le armate israeliane che avanzano su Il Cairo, l’Arabia Saudita di osservanza wahabita, pone l’embargo sul petrolio, i Paesi dell’OPEC si adeguano, il prezzo del petrolio sale alle stelle, i Paesi occidentali entrano in recessione mentre esplode un’inflazione a due cifre.
Molti dell’estrema sinistra interpretano questo fatto come crisi del capitalismo. Anche per questo, oltre che per i successi e per l’impressione di invulnerabilità dei gruppi terroristi, si forma un movimento che ritiene giunto il momento di «scendere un piazza» con mezzi violenti. Essi, per distinguersi da tutti gli altri, si autodefiniscono autonomi. Le piazze italiane avevano già visto le imponenti sfilate dei metalmeccanici sindacalizzati con tamburi e campanacci a cui si affiancavano sempre gruppetti violenti e lanci di molotov. Ma non erano mai comparse armi da fuoco, come invece avviene col movimento degli autonomi a Milano. È il momento di massima espansione del «partito armato» nelle sue due forme clandestina e manifesta. È però anche il momento in cui gran parte della popolazione si spaventa, non vuol più saperne di questi violenti.
Ma ormai anche la grave crisi economica è passata. Il capitalismo non è crollato, il prezzo del petrolio si riduce. Resta alta l’inflazione ma solo a causa della scala mobile che i sindacati difendono a oltranza. In questo clima le speranze della grande rivoluzione proletaria svaniscono e resta il ribellismo diffuso, la rabbia dei delusi e degli sconfitti. È così che fanno la loro comparsa gli ultimi epigoni: gli indiani metropolitani e gli uccelli che se la prendono col sindacato e contestano Luciano Lama all’Università di Roma. È il preludio della fine.
Resta l’ultimo atto, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro che toglie ai terroristi l’appoggio di tutti, assolutamente di tutti i gruppi di sinistra. Rimasti soli è solo questione di tempo: quelli che non scappano verranno arrestati. Il ciclo dei movimenti del cosiddetto ’68 è finito.
Il riflusso
Alla fine degli anni ’70 i movimenti sono finiti. Subentra quello che viene chiamato «il riflusso». Il movimento cioè diventa istituzione, quotidianità.
Ma il marxismo ha vinto la sua battaglia politica e culturale. Si è affermato nei sindacati, nel Parlamento dove nel 1976 il partito comunista raggiunge il 34,6% dei voti. «L’Unità» ha una tiratura di 600.000 copie, «Rinascita» è la rivista culturale più autorevole e più letta in Italia. Un’intera generazione si è formata sui testi marxisti, leninisti e ha avuto come ideale Lenin, Castro, Mao Tse-tung e Che Guevara, ora è entrata o sta per entrare in tutte le istituzioni culturali, la scuola, l’Università, i giornali, la televisione, il cinema, la magistratura. Alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, vent’anni dopo il ’68, il potere passa nella mani di coloro che lo hanno vissuto.
Poi succede qualcosa che nessuno immaginava. Il marxismo, trionfante in Italia sul piano politico e culturale, viene sconfitto dalla storia. Con la crisi dell’Unione Sovietica, la fine del mito cubano, la tragedia della Cambogia e infine il collasso economico dell’URSS la grande epopea marxista finisce. Eppure la maggior parte della classe politica, dei professori universitari, degli insegnanti, dei magistrati, degli scrittori, dei giornalisti, dei cineasti italiani ha avuto questa formazione, ha creduto fino all’ultimo in questo mito. Hanno vinto dei delusi, dei disillusi, degli orfani, degli sconfitti.
Quali effetti ha avuto?
Il marxismo
Come ha ben dimostrato Bobbio, il marxismo non ha nè una teoria dello Stato nè della morale. Lo Stato è qualcosa che deve sparire e la morale si identifica con la prassi politica rivoluzionaria. Dovunque è andato al potere perciò ha prodotto uno Stato dispotico governato col terrore e la delazione e, una volta abbattuto, ha lasciato una vera devastazione morale. La penetrazione capillare del marxismo nella vita scolastica, culturale e istituzionale italiana ha frenato l’evoluzione in atto negli anni ’50 e ’60 verso una democrazia bipolare con alternanza. Questa è possibile solo quando entrambi i partiti assicurano, al di là di ogni dubbio, l’avversario che non cambieranno le regole del gioco e non renderanno il proprio potere irreversibile.
Ma questo è proprio quanto tutti i partiti comunisti del Novecento hanno fatto. Nel dopoguerra nei Paesi dell’Est cui sono andati al potere democraticamente in poco tempo hanno costituito uno Stato totalitario. Tutti i movimenti di quegli anni, senza eccezione, sognavano la rivoluzione che avrebbe instaurato una dittatura come in Cina o a Cuba. Il risultato perciò è stato un rapido allontanamento dalla democrazia bipartitica: il «compromesso storico» non è stato un patto di alternanza, ma una forma di democrazia consociativa fra DC, socialisti, socialdemocratici e repubblicani da un lato e PC e sindacati dall’altro. Durante tutti gli anni ’80 il governo ha pagato la pace sociale aumentando spaventosamente il debito pubblico.
Il mondo cattolico
Il mondo cattolico è stato un importante artefice della prima Repubblica che ha governato con la Democrazia Cristiana. L’effetto della rivoluzione giovanile su questo mondo è stato devastante. Sul piano del costume la rivoluzione sessuale ha messo in crisi i seminari, le parrocchie, l’intero sistema educativo cattolico. I giovani non hanno semplicemente smesso di seguire i precetti della Chiesa, li hanno contestati apertamente. Ma ne sono uscite disfatte anche le organizzazioni cattoliche giovanili, prima di tutto l’Azione Cattolica e la FUCI, da cui uscivano le élites politiche democristiane. Molti cattolici sono stati attratti dal marxismo.
Pensiamo a don Lorenzo Milani (considerato un padre spirituale della sinistra) e a don Enzo Mazzi (che all’Isolotto di Firenze aveva costituito una specie di repubblica dove il vangelo era illustrato con fotografie del Vietnam, di operai e di poveri del terzo mondo). Il cristianesimo è stato ridotto ad attività sindacale e di volontariato. Hanno resistito solo pochi gruppi, in particolare il movimento guidato da don Luigi Giussani, Comunione e Liberazione. Ma il risultato complessivo è stata la marxistizzazione delle nuove élites della democrazia cristiana, prologo al crollo degli anni ’90 sotto i colpi di Mani Pulite e all’accordo con i postcomunisti. In sostanza ha prevalso la componente del mondo cattolico che – proprio come i marxisti – aveva meno il senso dello Stato liberale.
Scuola e cultura
Torniamo ai movimenti americani. In questi era estremamente importante la componente hippy, anarchica, permissiva e in cui si diffonde la droga. Anche questa ha messo radici in Italia anche se non è diventata un movimento organizzato ma piuttosto un modo di vivere, un fatto culturale. Fra questo filone anarchico, permissivo, hippy e il filone marxista vi erano delle immense differenze.
Il primo cercava il piacere immediato, il sesso, la pace, la musica e la droga, voleva realizzare la felicità subito, qui e ora. Quello marxista invece voleva rovesciare il potere costituito, distruggere il capitalismo, instaurare la dittatura del proletariato (cioè del partito) e rinviava la realizzazione della felicità a dopo la presa del potere rivoluzionario. Ma fra i due filoni esisteva un importante punto di convergenza e cioè l’idea che l’uomo sia spontaneamente buono (alla Rousseau) e rovinato dalla società.
Non appena è entrato in crisi il marxismo, alcuni dei suoi delusi si sono rivolti ai valori della corrente hippy, anarchica, libertaria, ecologista che non credeva nell’organizzazione, nella politica, nella rivoluzione, ma si cullava nell’idea di Rousseau che l’uomo è per natura buono ma incattivito, rovinato dalla società, dal capitalismo, dalla modernità. È così maturata una concezione secondo cui l’autorità dello Stato, dei genitori, degli insegnanti è dannosa. Si sono fatti strada pedagogisti secondo cui è dannosa perfino l’autorità della grammatica, della letteratura, della storia con le sue date, della geografia con gli Stati, i confini, gli oceani, i fiumi, le catene montuose. Secondo cui la creatività si sviluppa se non si pongono limiti, freni, regole, se non si imparano nozioni.
E c’è perfino chi sostiene che non ci devono più essere poliziotti, carceri, perché anche i criminali, anche i terroristi in fondo sono dei buoni traviati, sono delle vittime. E non ci devono essere freni a ogni forma o tipo di manifestazione sessuale pubblica, né alla pornografia, al divorzio, all’aborto, all’eutanasia, alle droghe di qualsiasi tipo. Cioè che è proibito proibire, perchè l’uomo è per natura buono ed è la proibizione che lo rende cattivo. In misura più o meno grande queste idee sono diffuse fra i professori di scuola media, nelle redazioni dei giornali, nel mondo dello spettacolo e del cinema.
Il meridione
Avrete sentito tutti in televisione dire da qualche disoccupato, occupato, commerciante, imprenditore meridionale la frase «lo Stato è assente». In realtà se nel meridione è presente qualcuno, è proprio lo Stato in tutte le sue forme centrale, regionale, locale, di enti o di fondazioni pubbliche. Quello che manca è l’iniziativa privata, il capitalismo, l’imprenditorialità, la meritocrazia. È lo Stato che è presente. E, per la precisione, è quel che resta dello Stato piemontese dopo che è stato parassitato, rielaborato e imbastardito dai legulei meridionali che, venendo da una società preindustriale, ne hanno fatto uno Stato preindustriale.
L’apparato dello Stato italiano, col suo coacervo di leggi, i suoi regolamenti tortuosi e ambigui, l’incredibile inefficienza e parzialità della magistratura, la corruzione dei concorsi pubblici, l’incapacità di combattere mafia, camorra e Sacra Corona Unita, costituisce un peso insopportabile per una società che vuol essere efficiente, dinamica. Ma questo Stato è ormai una mentalità, come è una mentalità la mafia, e la sua inefficienza e la sua corruzione non vengono certo contrastati né dal buonismo hippy, né dal primato della politica dei marxisti, né dalla miglior cultura meridionale che ha il senso dello Stato, ma resta fondamentalmente una cultura giuridica a cui interessa la norma, la perfezione dell’impianto normativo e non il risultato pratico, l’efficienza, il successo, il benessere reale della gente.
Il postmarxismo
Al marxismo si applica quanto Nietzsche ha detto della morte di Dio, e cioè che Dio (cioè la credenza di una verità assoluta) è morto e il suo cadavere continuerà a decomporsi per molti decenni appestando il mondo con il suo puzzo. Crollato il mito, il sogno, la maggioranza si è aggrappata al partito, al primato della politica, ma senza più la fede nella società senza classi e nell’uomo nuovo. I rivoluzionari che hanno sempre disprezzato, deriso i socialisti riformisti fanno fatica a diventare socialisti. E infatti non lo diventano. Molti di loro non rinunciano però alla conquista del potere globale.
Quello politico con la macchina organizzativa, quella economica con le cooperative, le banche e la finanza. La cultura politica postmarxista tende a generare società di mutuo soccorso e associazioni a scopo di lucro che utilizzano tutti i mezzi legali e qualche volta anche quelli meno legali per diventare più potenti e arricchirsi. Un po’ come è successo ad alcuni sindacati americani che, nati per proteggere i lavoratori dai soprusi dei proprietari, sono diventati potentati autoriproducentesi.
La crisi dello Stato liberale
A conclusione di questo breve excursus sugli sbocchi dei movimenti degli anni ’60 e ’70, possiamo dire che i suoi protagonisti non si sono mai posti il problema dello Stato liberale moderno, il cui scopo è di assicurare sicurezza e ordine per tutti – con leggi imparziali, con un sistema giudiziario non contaminato da interessi politici o economici – e di promuovere lo sviluppo economico e la crescita culturale nell’assoluta libertà.
Per gli hippy e l’internazionale giovanile lo Stato non ci dovrebbe semplicemente essere o se c’è dovrebbe solo nutrirli e non intervenire. Per i marxisti lo Stato è sempre stato un nemico da abbattere o uno strumento da usare contro i propri nemici politici. Per i postmarxisti è uno strumento con cui prelevare risorse da distribuire secondo convenienza e un mezzo con cui distruggere legalmente i propri avversari. Per i cattolici di sinistra è un erogatore di risorse per i poveri e i dannati della terra. Per la cultura assistenzialista meridionale una mucca da mungere.
È questo vuoto culturale nei riguardi della Stato che ha portato tutti i governi degli anni ’70 e ’80 a pagare la pace sindacale aumentando smisuratamente il debito pubblico. E, accanto alla perdita del senso dello Stato, in quegli anni si è indebolita anche l’etica pubblica, il senso del dovere nell’animo di ogni cittadino e, prima di tutto, nei politici. È questa la malattia che ha minato la salute dell’Italia dopo il ’68. Non a causa della rivoluzione giovanile, ma delle forze che l’hanno utilizzata qui in Italia e che ne sono uscite rafforzate. Ed è stata questa mancanza del senso dello Stato e della morale civica che ha minato il governo socialista, lo ha esposto all’attacco della magistratura, il tallone d’Achille che ha consentito la bufera di Mani Pulite.
Differenza fra Italia e USA
Perchè una società democratica funziona solo se nella popolazione c’è un solido fondamento morale privato e pubblico. Dalla cultura anglosassone abbiamo preso l’dea che vizi privati come l’avidità, l’ambizione e perfino l’invidia, possano diventare pubbliche virtù perchè stimolano la competizione economica e politica. Ma questo avviene solo in società in cui il movimento riformatore ha generato nei suoi partecipanti non solo un immenso slancio di fede e di speranza, ma anche una rigorosa etica personale e civile. È quanto accade nelle comunità puritane del New England, matrici dell’indipendenza americana, della costituzione degli Stati Uniti e del suo ethos.
Un ethos che costituisce la gabbia entro cui può scatenarsi la competizione capitalistica, in cui possono operare i robber barons, in cui può avvenire persino una guerra civile senza che il sistema vada in pezzi o si imputridisca. Nel «sogno americano» c’è anche l’idea che l’onestà, la verità, la giustizia, il merito vincono sempre, premiano sempre e perciò la stragrande maggioranza dei cittadini agisce realmente in modo virtuoso. È per questo che i vizi privati possono diventare pubbliche virtù, perchè non si trasformano immediatamente in azioni pubbliche, ma vengono esaminati, filtrati, frenati, indirizzati. Puoi guadagnare quanto vuoi, ma poi devi pagare le tasse, puoi esser potente quanto vuoi ma, se vieni condannato, in galera ci vai veramente. È in forza di questa etica che i grandi capitalisti hanno lasciato fondazioni che hanno finanziato stupende università, meravigliosi istituti di ricerca scientifica, opere benefiche.
Ed è in forza di questo ethos che negli USA la rivoluzione giovanile iniziata nel 1964 a Berkeley e terminata con la fine della guerra del Vietnam, non ha lasciato le devastazioni che ha lasciato in Italia ma l’emancipazione completa dei neri, la parità delle donne, la libertà sessuale e una straordinaria fioritura culturale. E, al termine del processo, non c’è stata la proliferazione dei gruppuscoli marxisti-leninisti o terroristi.
Il movimento giovanile ha conservato la libertà sessuale conquistata, ma non è stato decimato dalla droga come è avvenuto in Europa e in Italia, è tornato a studiare nelle università. E negli anni Settanta sono stati eletti prima Jimmy Carter e poi Ronald Reagan, sostenuti da potenti movimenti religiosi che ponevano l’etica privata e pubblica al primo posto. Alla metà degli anni Settanta, quando l’Italia viveva gli anni di piombo, gli Stati Uniti vivevano una stagione di ritrovata unità nazionale e iniziavano l’offensiva che, negli anni Ottanta, avrebbe portato alla rovina l’Unione Sovietica e il comunismo internazionale.
L’evoluzione della cultura politica italiana è andata in direzione opposta perchè l’incontro delle correnti libertarie, di quella marxiste, di quelle cattoliche di sinistra, della criminalità organizzata e della mentalità clientelare e tribale (il «familismo amorale» di Banfield) agendo su un apparato dello Stato pletorico e corrotto hanno prodotto un vero e proprio sfacelo della cosa pubblica anche a livello comunale, provinciale come non era mai accaduto prima.
Il secondo ciclo di movimenti
Molti pensano che la prima Repubblica sia stata distrutta da Mani Pulite. No. È stata distrutta da un nuovo ciclo di movimenti collettivi. Il primo a fare la sua comparsa è la Lega con il suo leader carismatico Umberto Bossi, seguito dal movimento referendario di Mario Segni. Una seconda tipologia di eventi è poi quella legata a Mani Pulite anch’essa con un leader carismatico, Antonio Di Pietro, e infine, da ultimo a Forza Italia di Silvio Berlusconi.
Questo divampa quando, dopo essere stati distrutti per via giudiziaria la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, i socialdemocratici e i repubblicani, cioè la classe politica che ha governato l’Italia negli ultimi trent’anni, al suo posto stava per andare al potere una classe politica formata dai postcomunisti, dai sopravvissuti del marxismo diventati estrema sinistra e dai cattolici di sinistra. Tutto il grande elettorato cattolico, socialista, liberale moderato si era trovato senza più partiti che lo rappresentano e per cui votare.
Se Bossi, Segni, o Di Pietro fossero stati più abili, sarebbero riusciti a ottenere lo stesso successo. Dovevano solo presentarsi come campioni del mondo moderato, come barriera contro il predominio comunista. Non ci sono riusciti, mentre c’è riuscita Forza Italia. Il movimento si è, in gran parte, organizzato per conto proprio, con la formazione spontanea di 12.000 club. Le poche centinaia di funzionari con la valigetta, che Berlusconi aveva messo in campo non sarebbero riusciti a mobilitarne nemmeno un decimo. E anche il sostegno propagandistico delle sue reti televisive sarebbe stato insufficiente.
Lui stesso, nei primi tempi, non ha capito cosa fosse realmente accaduto. Ha lanciato la parola d’ordine che una massa di italiani si aspettava, questi sono accorsi al suo richiamo e l’hanno riconosciuto come proprio leader. Dopo le elezioni europee in cui ha ottenuto il 30% dei voti ha incominciato a dare al suo movimento un minimo di struttura partitica e a pensare che avrebbe dovuto radicarsi sul territorio.
Berlusconi è uno dei pochi politici italiani che non viene dalla esperienza marxista o dall’Azione Cattolica dominata dalla sinistra democristiana. È cresciuto in una famiglia cattolica di orientamento moderato. Per vocazione liberale, edonista, ma legato al senso della famiglia, vince la concorrenza con la Rai proprio perchè la sua tv è più spregiudicata, più ammiccante, più scollacciata. La trasmissione simbolo del suo successo è Drive in a cui segue Striscia la Notizia, entrambe ironiche irriverenti, pieni di belle donne in costumi succinti.
Dal punto di vista culturale Berlusconi è colui che, più di ogni altro, ha affermato la società dello spettacolo, la cultura dello svago, del divertimento, dell’erotismo, della risata, del pettegolezzo divistico. Per questo era stato guardato con diffidenza tanto dai marxisti come dal mondo cattolico. Berlusconi, dopo la vittoria, non si è mai dedicato seriamente all’organizzazione del partito, non ha selezionato una nuova classe politica, non ha creato una scuola di quadri, e ha ignorato l’alta cultura.
Il problema della ricostruzione morale
Forza Italia ha vinto due volte le elezioni e la sinistra altre due volte, ma non sono riusciti a ricostruire uno Stato liberale capace di assicurare sicurezza e ordine per tutti – con leggi imparziali, con un sistema giudiziario non contaminato da interessi politici o economici – e promuovere lo sviluppo economico e la crescita culturale nella assoluta libertà.
E perché? I movimenti chiamati ’68, come abbiamo visto, quali che siano state le loro intenzioni non l’hanno ricostruita, ma l’hanno indebolita. Lo stesso è avvenuto con la lotta politica e con la prassi politica da Mani Pulite a oggi. Scomparse le ideologie e la fede ha trionfato il puro desiderio di potere e di ricchezza coperto ipocritamente da giustificazioni moralistiche e sociali. E la lotta politica si è fatta cattiva, scorretta, puramente rivolta alla conquista delle posizioni di potere dello Stato e dell’economia.
Oggi il nostro Paese ha bisogno di ricostruire quella che gli anglosassoni chiamano civic religion, la filosofia che sta alla base della concezione della vita sociale che però non resta idea astratta, ma diventa etica operante. Etica interiorizzata dal singolo individuo che diventa capace di dire di no a chi gli offre posti, denaro, favori, successo, carriera in cambio di favoritismi, menzogne e tradimenti. Che ha il coraggio di scegliere da solo e contro tutti quello che è giusto.
Una ricostruzione che dovrebbe cominciare nell’infanzia, nelle scuole elementari, mentre purtroppo non abbiamo più i genitori e gli insegnanti capaci di farla. Di conseguenza bisogna partire dalla classe adulta cominciando dalle piccole cose come non posteggiare la moto sul marciapiede, annullare il biglietto del tram, non promettere quello che non si può mantenere, non favorire i raccomandati, non pagare in nero ma chiedere la fattura, dichiarare il reddito e denunciare le irregolarità che vedi attorno a te. Non ingannare gli amici, non tradirli, giudicare in modo imparziale, guardare al merito, al valore.
E infine non falsificare i risultati elettorali, accettare il responso delle urne, non delegittimare l’avversario eletto. Infine svolgere con cura e sollecitudine i propri compiti, chiunque tu sia, operaio, medico, insegnante, avvocato o magistrato. Comportamenti elementari che dovrebbero per prima cosa avere i politici, i magistrati, gli intellettuali, i giornalisti, gli imprenditori, i commercianti e poi via via tutti gli altri. Perchè la morale si insegna con l’esempio. La morale non è fatta di parole, ma di comportamenti.