Saggio di Aldo Bardusco
Saggio di Aldo Bardusco
La prima Commissione bicamerale (1994)
Nel corso della XII legislatura, venne istituita con la legge cost. 1993 n. 1 una Commissione bicamerale le cui funzioni avrebbero dovuto consistere nell’elaborazione di un progetto organico di revisione costituzionale relativo alla Parte II della Costituzione (l’organizzazione della Repubblica), nonché di progetti di legge sull’elezione delle Camere e dei Consigli delle regioni a statuto ordinario. La legge cost. n. 1/1993 escludeva dai compiti della Commissione la revisione della sezione seconda del Titolo VI; e cioè la revisione della Costituzione e le leggi costituzionali. La stessa legge istitutiva della Commissione introduceva una nuova disciplina del procedimento di revisione costituzionale; a parziale modifica dell’art. 138 Cost.
La novità era ristretta ai disegni e alle proposte di legge assegnati alla Commissione bicamerale e consisteva in due previsioni: la prima era che – ferme restando le due votazioni in ciascuna delle due Camere – per l’approvazione fosse necessario (e sufficiente) in seconda votazione il voto favorevole dei componenti di ciascuna delle due Camere; la seconda che il progetto costituzionale approvato dalle Camere fosse sottoposto a referendum (ex art. 138 Cost.) popolare entro tre mesi dalla sua pubblicazione.
Nel gennaio 1994 la Commissione bicamerale (presieduta prima da Ciriaco De Mita e successivamente da Nilde Jotti) presentò un progetto di legge costituzionale contenente due novità:
- si dava ai rapporti fra lo Stato e le Regioni di diritto comune un’impostazione di tipo federale (vale a dire, la Costituzione avrebbe fornito una enumerazione tassativa delle materie di competenza statale, in modo da rendere le Regioni competenti in tutte le materie non espressamente riservate allo Stato);
- nell’architettura della forma di governo trovava conferma la forma paralamentare, ma rafforzata con l’introduzione nell’investitura parlamentare del primo ministro (sul modello tedesco) con l’attribuzione a esso di un autonomo potere di scelta e di eventuale revoca dei ministri e con la previsione della sfiducia costruttiva.
La chiusura anticipata della XII legislatura – per effetto dello scioglimento delle Camere disposto dal presidente Scalfaro il 16 gennaio 1994 – determinava la cessazione di questa Commissione bicamerale e la fine dei suoi lavori.
La seconda Commissione bicamerale (1997)
Nell’estate del 1996 venne raggiunto un accordo politico tra i partiti rappresentati in Parlamento per l’istituzione di una nuova Commissione bicamerale, incaricata di riprendere il procedimento di revisione costituzionale interrotto nella precedente legislatura e di formulare proposte sulla forma di Stato (regionalismo), sulla forma di governo, sul bicameralismo e sul sistema delle garanzie costituzionali.
Tale Commissione venne formalmente istituita con la legge cost. 24 gennaio 1997, n. 1. Quest’ultima (fondata su una deroga all’art. 138 Cost) stabiliva che il progetto di revisione venisse presentato dalla Commissione bicamerale all’esame del Parlamento e che ciascuna Camera approvasse la proposta della Commissione con due successive deliberazioni (la seconda delle quali a maggioranza assoluta dei componenti). La legge costituzionale così approvata sarebbe stata poi sottoposta a referendum obbligatorio.
La composizione della Commissione risultò di settanta componenti (35 deputati e 35 senatori) nominati dai presidenti delle Camere su designazione dei gruppi parlamentari. I lavori ebbero inizio il 5 febbraio 1997 con l’elezione unanime a presidente dell’onorevole D’Alema e con l’insediamento di quattro Comitati istruttori incaricati di predisporre gli avanprogetti del nuovo ordinamento costituzionale, ripartiti in quattro aree. Il 30 giugno 1997 la Commissione approvò a maggioranza un testo di legge costituzionale e lo affidò alle Camere. Ma già il successivo 4 novembre 1997 la Commissione presentò un nuovo testo, riformato a seguito dell’esame dei quasi quattromila emendamenti presentati dalle varie forze politiche.
Il progetto – anzi, i progetti – di revisione del testo costituzionale avrebbero dovuto ottenere, a quel punto, l’approvazione di ciascuna Camera, con due successive deliberazioni da adottarsi secondo l’art. 138 Cost. con un intervallo di tempo non inferiore a tre mesi tra la prima e la seconda votazione. Il referendum popolare – che avrebbe dovuto coronare il progetto votato dalle assemblee – era assoggettato (dalla legge cost. 1 del 1997, istitutiva della Commissione) alla duplice condizione che al referendum stesso partecipasse la maggioranza degli aventi diritto e che il progetto di nuova Costituzione ottenesse l’approvazione della maggioranza dei voti validamente espressi dagli elettori.
Alla fine, dopo non poche discussioni, la Commissione giunse a proporre una sorta di neo-federalismo blandamente paritario, ma in sostanza di tipo «competitivo», – detto anche «duale»: esso prevedeva da una parte una decisa distinzione delle funzioni e dei compiti dello Stato centrale «federale» da quelli attribuiti alle Regioni (secondo il criterio della «enumerazione statale delle competenze»); dall’altra una valorizzazione delle funzioni amministrative di comuni, province e città metropolitane (soggetti pubblici tutti «pariordinati» sulla base dei principi di sussidiarietà e differenziazione).
Per quanto riguarda la forma di governo la scelta era per un «semipresidenzialismo temperato», con un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, ma investito di funzioni soltanto garantiste. Relativamente al Parlamento l’opzione era a favore di un bicameralismo differenziato e a geografia variabile, dove al Senato della Repubblica venivano attribuite prevalentemente funzioni di garanzia.
Il progetto presentato si reggeva su di un complesso e laborioso accordo fra le principali forze politiche rappresentate in Parlamento ed era condizionato da numerose reciproche riserve. In sintesi la Commissione bicamerale proponeva:
- una forma di Stato improntata nominalmente al modello federale, ma nella sostanza imperniata su di un rafforzamento dei poteri legislativi delle Regioni e regolamentari e amministrativi dei Comuni e delle Province;
- una forma di governo semipresidenziale temperata, fondata sull’elezione popolare diretta del capo dello Stato. A esso venivano nondimeno attribuiti poteri meno pregnanti di quelli riconosciuti al presidente della Repubblica francese (tipico modello semipresidenziale) e comunque poteri bilanciati dalla presenza di un capo del governo «forte»;
- un bicameralismo aggiornato, cioè un sistema bicamerale «imperfetto», dove le due Camere svolgessero funzioni differenziate: la Camera dei deputati dotata prioritariamente di prerogative politiche e legislative; il Senato volto invece a operare come organo rappresentativo del sistema delle autonomie territoriali;
- veniva da ultimo prevista una maggiore articolazione dello strumento referendario con l’introduzione del referendum approvativo per le proposte di iniziativa popolare;
- quanto alle «garanzie costituzionali» rimaneva invariato il procedimento di revisione costituzionale regolato dall’art. 138 Cost. Veniva tuttavia proposto un nuovo sistema di garanzie fondato sull’aumento (da 15 a 20) dei giudici componenti la Corte costituzionale e sull’attribuzione a quest’ultima di ampie e più forti competenze:
1) introduzione di un ricorso diretto alla corte (sul tipo del recurso de amparo spagnolo) in materia di diritti fondamentali del cittadino e della persona;
2) previsione di nuove forme di accesso alla Corte e legittimazione di comuni e province a impugnare direttamente leggi statali e regionali. Legittimazione di un quinto dei componenti di una Camera a impugnare leggi per violazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione;
3) ricorsi in materia elettorale avverso le deliberazioni delle Camere in materia di contestazioni elettorali e in materia di elezione del presidente della Repubblica.
Veniva poi riconosciuto alla Corte costituzionale il potere di posticipare di un anno l’efficacia delle sentenze di illegittimità costituzionale di una disposizione e veniva sancito l’obbligo di pubblicare insieme alle decisioni della Corte le eventuali opinioni dissenzienti dei giudici rimasti in minoranza.
Tutto il sistema delle garanzie, inoltre, veniva ripensato relativamente alla «giustizia» (Titolo IV della Parte II della Costituzione), facendo leva, da un lato, sull’unitarietà della funzione giurisdizionale e, dall’altro, sulla separazione della funzione giudicante da quella requirente. Si tentava, cioè, di costituzionalizzare una serie di principi riassunti nella formula «del giusto processo», anche allo scopo di armonizzarli con i principi di cui all’art. 6 della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
I lavori della Commissione bicamerale si conclusero in due tempi: 30 giugno 1997 e (dopo l’esame degli emendamenti) 4 novembre 1997: a quel punto il progetto preliminare di riforma costituzionale potè essere finalmente trasmesso alle Camere.
La Camera dei deputati avviò l’esame del progetto nel gennaio del 1998 e andò avanti nel dibattito sui diversi aspetti della proposta sino a primavera inoltrata. Tuttavia soltanto la parte del progetto concernente la forma dello Stato (regional-federalismo) sembrava in quel momento in grado di ottenere dalle forze politiche un consenso sufficientemente ampio da lasciar sperare nel sostegno del consenso popolare al momento del referendum. Su quasi tutti gli altri punti si registravano invece sia irrigidimenti delle diverse parti politiche sulle rispettive concezioni e proposte, sia contrasti più o meno sordi sui punti salienti.
Alla fine, la mutata atmosfera politica nei rapporti tra maggioranza e opposizione indusse le parti del gioco a sospendere i lavori parlamentari e a ibernare il processo riformatore. A quel punto, D’Alema lasciò la presidenza della Commissione e assunse, nell’autunno del 1998, l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri.
La riforma dell’art. 111 e le garanzie del giusto processo
Con la legge costituzionale n. 2 del 1999 si è proceduto a un’integrazione dell’art. 111 della Costituzione. In particolare sono stati inseriti cinque nuovi commi all’inizio dell’articolo stesso, sicché i tre commi originari sono ora divenuti il sesto, il settimo e l’ottavo. Alla base di questa operazione vi è stato l’obiettivo di dare un contenuto concreto al principio del giusto processo, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. In sostanza si sono volute costituzionalizzare alcune grandi idealità processuali moderne: l’effettiva parità delle parti nel processo, il rigoroso rispetto del diritto alla difesa e l’effettiva terzietà degli organi giudicanti.
Al fondo della riforma stava l’idea che dalla costituzionalizzazione di tali principi il legislatore ordinario dovesse prendere ispirazione per rivedere i regimi processuali (penale, civile, amministrativo e tributario) vigenti nel nostro Paese, e applicare misure concrete in diversi ambiti:
- rispetto del contraddittorio fra le parti «in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale»;
- garanzia di una ragionevole durata dei processi;
- diritto della persona accusata di un reato di essere informata – nel più breve tempo e in modo riservato – del suo diritto ad avere (nel processo penale) il tempo e le condizioni necessarie ad apprestare la propria difesa; della facoltà di interrogare (da un lato) le persone che avessero reso dichiarazioni a suo carico; e (dall’altro) le persone a sua difesa, in condizioni di parità con l’accusa; del diritto di acquisire ogni mezzo di prova a proprio favore; del diritto di essere assistito da un interprete;
- garanzia del contraddittorio nella formazione della prova, sempre nel processo penale – salve le eccezioni stabilite espressamente dalla legge, quando vi consenta l’imputato – o vi siano ragioni di accertata impossibilità di natura oggettiva; ovvero a causa di provata condotta illecita;
- garanzia del rigoroso rispetto del principio di non colpevolezza, a fronte di dichiarazioni rese da persona che successivamente si sottragga – per libera scelta – all’interrogatorio dell’imputato o del suo difensore.
La legge n. 63 del 2001 – in attuazione dei sopra ricordati principi – ha introdotto numerose modifiche ai Codici penale e di procedura penale, in particolare sul tema della formazione e della valutazione delle prove. La legge n. 46 del 2006 – votata alla fine della 14a legislatura – è stata invece dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale. Si trattava di una legge che restringeva la possibilità di proporre appello contro le sentenze penali di proscioglimento in primo grado, consentendo peraltro il ricorso in Cassazione anche contro le sentenze di primo grado. La principale critica a questa legge era che essa avrebbe alterato la parità delle parti in causa, limitando i poteri e l’azione del pubblico ministero.
Le pari opportunità e la rappresentanza politica
Nel corso degli anni Novanta le Camere hanno approvato una serie di misure dirette a realizzare la pari opportunità tra i sessi (anche definite azioni positive), misure che fondano la propria legittimazione sul principio di eguaglianza sostanziale sancito nell’art. 3, secondo comma, Cost.
Se pure la maggior parte di questi interventi legislativi non ha originato particolari discussioni (come le norme sulla parità uomo/donna sul luogo di lavoro, ex legge n. 125 del 1991, o quelle sull’imprenditoria femminile, legge n. 215 del 1992), al contrario notevole rilevanza nel dibattito politico e culturale ha suscitato la vicenda delle cosiddette quote elettorali (note anche come «quote rosa»).
Le nuove leggi elettorali che, dal 1993, hanno consentito un significativo mutamento politico-istituzionale a tutti i livelli di governo, contenevano, infatti, disposizioni finalizzate a garantire una significativa presenza delle donne all’interno degli organi politici rappresentativi, riservando a esse una quota percentuale di candidature all’interno delle liste e ponendo, così, dei vincoli soprattutto all’autonomia dei partiti nella delicata fase di formazione delle liste medesime.
In particolare, la legge elettorale comunale e provinciale (legge n. 81 del 1993) prevedeva che «nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti dei consiglieri assegnati», quella per l’elezione della Camera dei deputati (legge n. 277 del 1993) sanciva l’obbligatorietà di candidature alternate per sesso nelle liste bloccate, mentre la legge elettorale regionale (legge n. 43 del 1995) poneva il limite dei due terzi di candidati dello stesso sesso. Questo sistema di quote fu, però, dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sent. 422 del 1995) per contrasto con gli art. 3, primo comma, e 51 della Costituzione.
Al fine di superare le obiezioni di principio della Corte costituzionale si è ritenuto di approvare delle modifiche costituzionali che, autorizzando espressamente il legislatore a introdurre delle quote di riserva in favore delle donne, fungessero da «ombrello protettivo» rispetto a ulteriori interventi del giudice delle leggi (analoghe revisioni del testo costituzionale per consentire azioni positive in materia elettorale si erano avute in Germania nel 1994 e in Francia nel 1999).
Così, in due riprese, si sono introdotte delle norme con tali caratteristiche: dapprima, nel 2001 (nell’ambito della riforma del Titolo V, legge cost. n. 3 del 2001), con il settimo comma del nuovo art. 117 (e con la legge cost. n. 2 del 2001 per le regioni a statuto speciale) si è imposta alle regioni la promozione della «parità di accesso tra uomini e donne alle cariche elettive»; poi, con la legge costituzionale n. 1 del 2003, è stato oggetto di modifica il primo comma dell’art. 51 Cost., che oggi prevede, dopo, l’enunciazione del principio di eguaglianza in relazione all’accesso agli uffici pubblici e alle carche elettive, un nuovo periodo così formulato: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne».
Seppure la dottrina si era inizialmente divisa sulla portata di queste disposizioni si deve, oggi, ritenere che le norme introdotte in Costituzione tra il 2001 e il 2003 abbiano una portata precettiva in grado di consentire anche l’introduzione di misure antidiscriminatorie «forti» (tale l’imposizione di un determinato rapporto numerico tra i due generi nella composizione delle liste elettorali) e che l’adozione di siffatte misure si ponga come doverosa (ovvero obbligatoria) per il legislatore.
Questo orientamento ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte costituzionale (sent. 49 del 2003) che, chiamata a giudicare sulla legittimità della legge elettorale della Valle d’Aosta nella parte in cui veniva sanzionata l’invalidità di liste in cui non fossero presenti candidati di entrambi i sessi, ha fatto salva la legge, sulla base della considerazione che il mutato quadro di riferimento costituzionale giustificava l’introduzione di limiti alla libertà di partiti e gruppi che presentano le liste, aprendo, così, la via a modifiche di tutta la legislazione elettorale.
Una prima forma di intervento del legislatore nazionale si è avuta con la legge elettorale per il Parlamento europeo (legge n. 90 del 2004), nella quale si è previsto (art. 3) che nelle due elezioni del 2004 e del 2009 almeno un terzo delle candidature fosse riservata al sesso femminile e l’inammissibilità di liste circoscrizionali in cui non fossero previsti candidati di ambo i sessi; peraltro, la sanzione per la violazione di queste norme è stata circoscritta a una riduzione del rimborso delle spese elettorali.
Le Regioni si sono dimostrate più attente dello Stato nel perseguire una effettiva parità nella rappresentanza politica e alcune di loro hanno adottato misure antidiscriminatorie «forti»: tra di esse si segnalano la Toscana (l. reg. n. 20 del 2004) e le Marche (l. reg. n. 27 del 2004), che hanno accolto il limite dei due terzi di candidati dello stesso genere nelle liste (a pena di inammissibilità delle stesse), nonché la Sicilia (l. reg. n. 7 del 2005), che ha previsto la necessaria alternanza uomini/donne nelle liste regionali e il limite dei 2/3 nelle liste provinciali (ma con la sola sanzione finanziaria).
Quanto, invece, al tentativo di inserire misure antidiscriminatorie in occasione dell’approvazione della più recente legge elettorale (legge n. 270 del 2005), è stato respinto un emendamento che proponeva una blanda alternanza nelle liste di una donna ogni tre uomini.
Così, in assenza di una legislazione vincolante e lasciando ai partiti il compito di autolimitarsi, la percentuale di donne elette in Parlamento nelle elezioni dell’aprile 2008 è stata complessivamente del 19% del totale (178, di cui 125 deputate pari al 20,2% del totale e 53 senatrici, pari al 17%), dati che collocano l’Italia al 50° posto della speciale classifica mondiale.
La riforma del regionalismo nella XIII legislatura
Nell’ultimo decennio del XX secolo l’intero sistema delle autonomie territoriali è stato oggetto di una profonda trasformazione che ne ha mutato il volto: l’inizio di questo lungo processo si può far coincidere con la legge n. 142 del 1990 (contenente il nuovo ordinamento degli enti locali) e la sua conclusione (sia pure non definitiva) con l’approvazione della legge n. 131 del 2003 (cosiddetta La Loggia).
Se pure gli ordinamenti comunali e provinciali sono stati interessati da significative modificazioni (coinvolgenti il sistema di elezione dei sindaci e presidenti delle province, l’autonomia statutaria, i rapporti tra giunta e consiglio, l’esercizio delle funzioni amministrative, la dirigenza, le municipalizzate, i controlli sugli atti), tuttavia sono state le regioni e il rapporto tra esse e lo Stato a essere maggiormente colpite dal vento riformatore, soffiato nel corso della XIII legislatura (1996-2001).
Il primo, importante intervento si concretizza con le leggi Bassanini (legge n. 59 del 1997, legge n. 127 del 1997 e relativi decreti di attuazione tra cui il più rilevante il d.lgs. 112 del 1998), con le quali si attua il conferimento ovvero l’attribuzione di nuove funzioni amministrative alle regioni (e, in minor misura, agli enti locali), facendo applicazione del principio secondo cui lo Stato esercita funzioni e compiti amministrativi soltanto in alcune identificate materie che attengono alla sua unità, ai rapporti con altri ordinamenti ovvero non frazionabili (esteri, difesa, immigrazione, dogane, anagrafe, ordine pubblico e sicurezza, giustizia, poste e telecomunicazioni, istruzione, ricerca e università, infrastrutture di interesse nazionale, previdenza sociale) mentre, nelle restanti materie, l’attività amministrativa deve essere esercitata da regioni (che hanno facoltà, a loro volta, di delegarle a un livello più basso) ed enti locali.
Si è parlato, in proposito, di riforma a costituzione invariata perché l’articolo 118 della Costituzione (nel testo allora vigente) mentre stabiliva il parallelismo tra funzioni legislative (le materie elencate all’art. 117) e amministrative, al contempo consentiva allo Stato di delegare alle regioni «l’esercizio di altre funzioni amministrative». Era, tuttavia, evidente che il processo di «federalizzazione» dello Stato sarebbe continuato e avrebbe posto, prima o poi, dei problemi in ordine alla distribuzione (da parte dello Stato) della ricchezza prodotta nelle diverse regioni.
Il successivo passo è costituito dalla legge costituzionale (l. cost. 22 novembre 1999, n. 1), con la quale sono stati riformulati gli articoli 121, 122, 123 e 126 della Costituzione, con rilevanti ricadute sulla forma di governo e l’autonoma statutaria delle regioni ordinarie (mentre le 5 regioni speciali fondano la loro autonomia su statuti approvati con leggi costituzionali ad hoc).
Il nuovo testo dell’art. 123 Cost. lascia alle regioni un margine di autonomia organizzativa più ampio di prima dal momento che non è più previsto il recepimento con legge statale dello statuto, il quale diventa, a tutti gli effetti, la fonte al vertice gerarchico dell’ordinamento regionale e deve rispettare, come unico vincolo, quello di essere «in armonia» con la Costituzione (alla quale resta ovviamente subordinato).
La procedura di approvazione dei nuovi statuti prevede una doppia deliberazione da parte del Consiglio regionale (a distanza non inferiore di due mesi e a maggioranza assoluta dei componenti) e due diverse modalità di controllo (entrambe eventuali): non solo il governo potrebbe impugnare avanti la Corte Costituzionale lo statuto entro 30 giorni dalla sua pubblicazione ritenendolo in contrasto con la Costituzione ma anche gli elettori della regione potrebbero essere chiamati a esprimersi in sede di referendum (attivabile da un quinto dei consiglieri regionali ovvero da un cinquantesimo degli elettori medesimi) sul testo varato.
Quanto ai contenuti dello statuto, la principale novità è rappresentata dall’inserimento, nel nucleo essenziale, della forma di governo regionale la cui disciplina, seppure in apparenza lasciata alla discrezionalità dei consigli, viene, in concreto, condizionata da alcune disposizioni contenute negli articoli 121, 123 e 126 Cost.
Così gli art. 121-123 individuano gli organi necessari (Consiglio, Giunta, Presidente della Giunta, Consiglio delle autonomie) e le loro funzioni fondamentali, mentre l’art. 126 prevede che il Consiglio regionale possa esprimere la sfiducia al presidente della Giunta, provocando le dimissioni della Giunta, indipendentemente dal modo in cui l’organo monocratico è stato eletto.
Invero, le Regioni non sono del tutto libere di scegliersi una forma di governo anche perché la novella costituzionale (secondo l’interpretazione che ne ha dato la Corte costituzionale) propone un modello standard da cui è possibile allontanarsi solo per ritornare a una forma di governo parlamentare tout court.
Il modello standard (definito dalla dottrina neoparlamentare) prevede:
- il presidente della Giunta eletto direttamente, cui spetta la direzione politica dell’esecutivo;
- la Giunta come organo esecutivo dell’ente, i cui componenti sono nominati e revocati dal presidente;
- il Consiglio, cui restano attribuiti potere legislativo e controllo sull’esecutivo, che può costringere alle dimissioni il presidente con votazione di sfiducia a maggioranza assoluta e che viene sciolto in tutti i casi in cui venga meno (per morte, dimissioni, impedimento permanente, rimozione ovvero sfiducia consiliare) il presidente; l’inscindibile legame tra presidente e Consiglio (meccanismo del simul stabunt vel simul cadent) viene meno nel solo caso in cui sia stata prescelta una forma parlamentare pura e il presidente sia stato eletto e poi sfiduciato dal Consiglio.
Le Regioni possono decidere anche il proprio sistema elettorale per l’elezione del presidente e del Consiglio ma nei limiti di una legge statale che stabilisce i principi fondamentali (l’attuazione si è avuto con la legge n. 165 del 2004).
In via transitoria, ovvero fino all’approvazione dei nuovi statuti, l’art. 5 della l. cost. 1/1999 rendeva immediatamente vigente il modello standard, con l’elezione diretta del capolista che avesse ottenuto il maggior numero di voti validi e il meccanismo del «simul simul».
La maggior parte delle Regioni, che hanno approvato i nuovi statuti dopo il 2001 (mancano all’appello Basilicata, Campania, Molise e Veneto), hanno fatto proprio il modello standard e numerosi interventi della Corte costituzionale hanno chiarito i punti più controversi, tra cui la possibilità di introdurre nel testo principi e finalità programmatiche estranei alle competenze regionali (sent. 372, 378 e 379 del 2004) ovvero l’impossibilità di far eleggere in via diretta un vicepresidente e affidargli poteri di sostituzione del presidente in caso di sua morte, impedimento permanente o dimissioni (sent. 2 del 2004).
Con la successiva tappa del processo – l’approvazione della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 – la riforma ha toccato l’articolazione territoriale dello Stato e il riparto delle funzioni di governo tra lo Stato e le Regioni (divisione verticale dei poteri), mutando radicalmente l’intero Titolo V della Parte II della Costituzione.
Questa revisione non è stata condivisa all’interno delle Camere poiché è stata votata solo dalla maggioranza di centro-sinistra (e questo ha costituito un pericoloso precedente) ed è stata sottoposto al giudizio degli elettori, che, con il referendum tenutosi il 7 ottobre 2001, hanno confermato il testo sottoposto al loro giudizio, che è così entrato in vigore.
Dopo la legge cost. n. 3 del 2001, le regioni ordinarie si sono viste aumentare la sfera di autonomia in diverse direzioni:
- cresce il numero e l’importanza delle materie nelle quali le regioni possono legiferare;
- diminuiscono drasticamente i poteri di controllo statale, dal momento che la legislazione regionale non è più soggetta a visto preventivo del governo (che può impugnare il testo normativo avanti la Corte costituzionale solo dopo la promulgazione e solo per motivi di legittimità) e sono abrogati i controlli statali sugli atti amministrativi; l’unica forma di controllo residuo è espressa sotto forma di potere sostitutivo (nuovo art. 120);
- esse acquisiscono soggettività internazionale poiché possono stipulare accordi con stati esteri;
- viene riconosciuta loro una più ampia autonomia finanziaria (nuovo art. 119).
Passando all’esame testuale, la prima novità si rinviene nel novellato art. 114 Cost.: Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni non rappresentano più solo una ripartizione della Repubblica ma ne sono elementi costitutivi, la compongono; inoltre, viene costituzionalizzata la scelta di Roma come capitale dello Stato (con riserva alla legge statale per disciplinarne l’ordinamento).
Il successivo art. 116 è dedicato al regionalismo differenziato, ovvero alla predisposizione di diversi livelli di autonomia: per un verso, si riafferma la presenza delle 5 regioni «speciali» e la loro specificità (geografica/etnica/linguistica), per altro verso, si apre la possibilità (futura e incerta) alle regioni ordinarie di vedersi riconosciute ulteriori condizioni di autonomia in tutte le materie per le quali si prevede la potestà concorrente nonché relativamente all’organizzazione della giustizia di pace, all’istruzione, di tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
Fondamentale è, poi, il nuovo articolo 117, che disciplina non solo la potestà legislativa regionale ma anche quella statale, individuando (al comma 1) tre limiti generali, validi nei confronti di qualsiasi esercizio di funzione legislativa e a ogni livello: il rispetto della Costituzione, i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Se i primi due limiti (costituzionale e comunitario) erano già operanti e ben noti a legislatori e operatori, è stato il vincolo degli obblighi internazionali a destare le maggiori preoccupazioni e controversie interpretative che sono state, sia pure, parzialmente fugate dalla Corte costituzionale che (con le sent. 348 e 349 del 2007) ha ritenuto che le norme della Convenzione europea per i diritti dell’uomo – come interpretate dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo –, per il richiamo dell’art. 117, comma 1, hanno valore di norme sub-costituzionali e la legge ordinaria si deve conformare a esse.
I commi 2, 3 e 4 dell’art. 117 regolano oggi il riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni, adottando il criterio usato negli stati federali in base al quale lo Stato centrale è competente a legiferare solo in alcune materie, poi vi sono altre materie di legislazione concorrente (ovvero condivisa tra centro che detta i principi e periferia che li attua) e, infine, tutte le materie non individuate appartengono alla potestà esclusiva delle Regioni (cosiddetta potestà residuale).
Il catalogo delle materie sottoposte alla legislazione esclusiva dello Stato ricalca, in gran parte, quello della legge Bassanini e quindi include i rapporti con l’estero (politica estera e comunitaria, immigrazione, difesa, dogane, confessioni religiose), l’organizzazione amministrativa statale, l’ordine pubblico e la sicurezza interna, la giustizia e la giurisdizione (penale, civile e amministrativa), l’istruzione e la previdenza sociale; inoltre, sono state inserite alcune materie «trasversali» cioè capaci di invadere ambiti non definiti quali la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile (ovvero i rapporti tra privati), la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
Nutrita la pattuglia delle materie di legislazione concorrente che comprende importanti settori quali tutela della salute, sicurezza del lavoro, governo del territorio, protezione civile, energia (produzione, trasporto e distribuzione), porti e aeroporti, grandi reti di trasporto e navigazione, casse di risparmio.
Passa, invece, alla esclusiva potestà regionale la disciplina delle attività economiche: commercio, industria, artigianato, agricoltura, caccia e pesca, turismo; con l’avvertenza che in queste materie grande è l’influsso della normativa di fonte comunitaria e che le regioni non possono comunque disciplinare i contratti e più in generale i rapporti tra i privati inerenti a questi settori perché afferenti all’ordinamento civile.
La potestà di adottare norme regolamentari (fonti di secondo grado subordinate alle leggi) è attribuita allo stato nelle materie affidate alla sua esclusiva competenza, mentre spetta alle regioni in tutte le altre materie; comuni e province dispongono, invece, di potestà regolamentare per l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Si prevede, poi (art. 117, comma 5), la partecipazione delle regioni alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi dell’Unione Europea (cosiddetta fase ascendente) e la necessità che esse provvedano all’attuazione e all’esecuzione dei medesimi atti comunitari (fase discendente) e degli accordi internazionali. Le norme di attuazione di questa disposizione sono contenute nella legge n. 11 del 2005 (cosiddetta legge Buttiglione).
L’art. 117 u.c. disciplina il cosiddetto potere estero delle Regioni, le quali, ora, nelle materie di propria competenza, possono anche concludere non solo intese con enti territoriali omologhi ma anche accordi internazionali con altri Stati (invero la legge La Loggia ha molto circoscritto l’estensione di questo potere, sia in relazione alle tipologie sia prevedendo che il ministro degli Esteri debba conferire preventivamente alle Regioni il potere di firma).
Il riparto della funzione amministrativa è, invece, delineato dal nuovo articolo 118, che ne prevede la generale attribuzione al livello più vicino al cittadino (cioè quello comunale), salva la possibilità di allocarla in via legislativa a un livello più alto (provinciale, regionale o statale) quando sia richiesto un esercizio unitario e sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. La Corte costituzionale ha, tuttavia, fatto leva sull’art. 118 per giustificare l’utilizzo di poteri normativi da parte dello Stato centrale al di là di quanto previsto dal precedente art. 117, qualora si ritenga opportuno mantenere, per ragioni di sussidiarietà, le funzioni amministrative al livello statale (sent. 303 del 2003).
All’autonomia finanziaria è dedicato l’art. 119 Cost., che se da un lato lascia alle regioni una parte delle entrate fiscali prodotte nel loro territorio (sotto forma di tributi propri e di compartecipazione al gettito di tributi erariali), dall’altro considera le sperequazioni esistenti tra quelle più ricche e quelle più povere, prevedendo un fondo perequativo (senza vincoli di destinazione) per i territori con minore capacità fiscale e si riserva di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di specifiche realtà. Inoltre, a tutti gli enti territoriali viene consentito di ricorrere all’indebitamento al solo fine di finanziare spese di investimento (e non quelle correnti) senza però che lo Stato garantisca questi prestiti contratti. Le norme di attuazione di questa forma di «federalismo fiscale» non sono state ancora dettate.
Norma di chiusura del sistema è l’art. 120, che riconosce in capo al governo il potere di sostituire gli enti territoriali inadempienti agli obblighi internazionali, in caso di pericolo grave per la sicurezza pubblica ovvero quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica/economica ovvero la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni inerenti i diritti.
La legge costituzionale n. 3 del 2001 contiene anche una disposizione (art. 10) diretta alle regioni ad autonomia speciale, statuendo che le innovazioni ivi previste valgono anche nei loro confronti qualora le nuove norme prevedano forme di autonomia più ampia di quella attribuita loro dai rispettivi statuti speciali e in attesa di una revisione di questi.
Al termine di questa ricostruzione, una questione si pone: siamo veramente di fronte a una svolta federalista?
In realtà, mancano ancora alcuni passaggi affinché si possa ritenere conclusa la trasformazione:
- in primo luogo gli stati autenticamente federali (ad esempio USA, Germania, Svizzera) presentano usualmente un bicameralismo imperfetto nel quale la seconda camera (quella alta, il Senato americano, il Bundesrat tedesco ovvero il Consiglio degli Stati elvetico) è di rappresentanza degli Stati che inviano loro delegati in maniera non corrispondente alla popolazione ma pressoché paritaria (2 in Usa e Svizzera, da 3 a 6 in Germania);
- secondariamente, gli Stati che compongono una federazione possiedono vaste competenze in materia di giustizia (civile sia penale) e di regolazione dei rapporti tra i privati;
- in terzo luogo, osta il fatto che le regioni non partecipino in alcun modo al procedimento di revisione costituzionale;
- da ultimo, si segnala la circostanza che le nostre regioni non dispongano della potestà normativa in materia di ordinamento degli enti locali minori.
Quindi la risposta è no, lo Stato italiano si può definire ancora uno Stato regionale nel quale le autonomie si vedono riconosciuti rilevanti poteri di governance ed esercitano le attività amministrative legate al territorio.
Il voto degli italiani all’estero
Nel gennaio del 2000, al termine di un lunghissimo dibattito parlamentare, ha visto la propria conclusione la riforma dell’art. 48 Cost. (legge costituzionale n. 1 del 17 gennaio 2000), con la quale, attraverso il nuovo terzo comma, si è dato vita a una forma di «rappresentanza riservata» per i cittadini italiani residenti all’estero, consistente nella istituzione di una Circoscrizione Estero che elegge un numero determinato di senatori e deputati.
Detta riforma, mirante a garantire l’effettività del voto a questa categoria di cittadini, è stata completata dalla legge costituzionale n. 1 del 23 gennaio 2001, che, novellando gli articoli 56 e 57 Cost., ha specificato in 12 deputati e 6 senatori il numero dei seggi assegnati alla speciale Circoscrizione Estero e, successivamente, con le disposizioni di attuazione contenute nella legge 27 dicembre 2001, n. 459.
Invero, diversamente da altri ordinamenti europei, i quali prevedono la decadenza dal diritto di elettorato attivo per i cittadini che trasferiscano la propria residenza all’estero (ad esempio, Germania dopo dieci anni di assenza e Gran Bretagna dopo vent’anni), i cittadini italiani all’estero, sia emigrati sia soltanto temporaneamente assenti dal territorio nazionale, hanno sempre conservato la titolarità del diritto di voto, con l’unico onere di dover tornare nel Comune di ultima residenza per esercitare il diritto.
Il nuovo sistema è stato oggetto di forti critiche sia perché consente, a chi si trova all’estero da tempi remoti e spesso non ha più alcun rapporto con la madrepatria, di influire sulla formazione delle maggioranze parlamentari (e nella XV legislatura questo è emerso limpidamente), sia in relazione alle modalità scelte per rendere più agevole l’esercizio del diritto di voto all’estero e in particolare l’adozione del voto per corrispondenza, che violerebbe le garanzie di segretezza e personalità del voto previste dallo stesso art. 48 Cost.
La fine dell’esilio dei discendenti di Casa Savoia
La legge costituzionale n. 1 del 2002 ha disposto che i commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale «esauriscono i loro effetti a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente disposizione costituzionale».
Va rammentato che la XIII disp. finale e transitoria riguardava la famiglia dei Savoia, che ha regnato sull’Italia dal 1861 (anno di fondazione del Regno d’Italia) al 1946 (9 giugno, giorno di proclamazione dei risultati del referendum istituzionale) con quattro re: Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e Umberto II. La disposizione stabiliva: «i membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale».
Per effetto della suddetta legge costituzionale, due componenti di Casa Savoia (Vittorio Emanuele, figlio di Umberto II, e il figlio Emanuele Filiberto) sono potuti rientrare in Italia, e qui stabilire la loro residenza a partire dal 2002. Rimane peraltro in vigore l’ultimo comma della citata XIII disposizione che recita: «i beni esistenti nel territorio nazionale degli ex re di Casa Savoia e dei loro discendenti maschi sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli».
La riforma della Costituzione approvata dal Parlamento nella XIV legislatura
Il testo della legge di revisione costituzionale passata di fronte al Parlamento nel 2005 (riforma della Parte II della Costituzione sull’ordinamento della Repubblica) fu il frutto di una proposta del governo, approvata dal Consiglio dei ministri il 16 settembre del 2003. La legge passò in Parlamento (con modifiche minime) con i voti della sola maggioranza.
Trattandosi di una legge di revisione costituzionale, l’iter di formazione doveva rispettare le regole procedimentali stabilite dall’art. 138 della Costituzione: servivano, cioè, quattro letture del medesimo testo (vale a dire, due approvazioni per ogni ramo del Parlamento). Fra la prima e la seconda lettura doveva intercorrere – per ciascuna delle due Camere – un intervallo di tempo non inferiore a tre mesi. In seconda lettura la proposta di revisione costituzionale doveva ottenere l’approvazione della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. Dal momento che, nella seconda votazione, il Parlamento della XIV legislatura approvò la legge con una maggioranza assoluta ma inferiore ai due terzi dei componenti di ciascuna Camera (evento inevitabile perché l’opposizione mantenne fino in fondo la propria contrarietà al progetto di revisione costituzionale), fu necessario fare luogo al referendum costituzionale di tipo approvativo previsto dall’art. 138 Cost.
La nuova Costituzione avrebbe dovuto entrare in vigore già dalla XV legislatura (2006-11), salvo che per la riduzione del numero dei parlamentari di Camera e Senato (che, salvo ripensamenti, non sarebbe divenuta operativa prima del 2011).
Il nuovo ordinamento costituzionale venne approvato definitivamente dalle Camere nell’ottobre del 2005. Il testo intitolato Modifiche alla Parte II della Costituzione, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005, prevedeva tutta una serie di emendamenti a numerosi articoli della Parte II della nostra Carta costituzionale.
Devolution
L’aspetto saliente concerneva il progettato rafforzamento delle Regioni attraverso quella che in gergo politico veniva chiamata devolution. Le Regioni avrebbero acquistata la potestà legislativa piena su tre materie: assistenza e gestione sanitaria; polizia locale; organizzazione scolastica. Ciò doveva venire controbilanciato, però, da un rafforzamento della posizione politica e dei poteri del presidente del Consiglio (che si sarebbe chiamato premier, all’inglese). Veniva superato l’attuale modello parlamentare di bicameralismo cosiddetto «perfetto»: mentre, cioè, la Camera dei deputati conservava il ruolo di assemblea politica, il Senato federale si trasformava. Esso avrebbe avuto un collegamento più diretto con le popolazioni delle Regioni, sia per le modalità di elezione, sia perché il Senato doveva occuparsi delle leggi riguardanti le materie su cui Stato e Regioni avrebbero mantenuto una competenza concorrente.
Si prevedeva, inoltre, di introdurre nella Costituzione una clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale (clausola che con la riforma del 2001 era scomparsa dalla Costituzione del 1948): il governo, cioè, avrebbe potuto bloccare una legge regionale che pregiudicasse – a suo avviso – l’interesse nazionale. Della questione era destinato ad occuparsi poi il Senato che – se la Regione si fosse rifiutata di ritirare (o di cambiare) la legge contraria all’interesse nazionale –avrebbe potuto indirizzare (con voto a maggioranza semplice) al capo dello Stato la richiesta di bloccarne l’entrata in vigore.
Premier
Per quanto riguarda la forma di governo, si prevedeva che il presidente del Consiglio fosse scelto direttamente dagli elettori, anche se il suo nome non sarebbe dovuto comparire sulla scheda elettorale. Il candidato premier si sarebbe dovuto collegare a liste di candidati all’elezione della Camera. Sulla base dei risultati elettorali il capo dello Stato avrebbe nominato primo ministro il leader della coalizione vincente. Per insediarsi il primo ministro non avrebbe avuto bisogno della fiducia della Camera, avrebbe goduto di ampi poteri e sarebbe stato meno soggetto al volere del Parlamento nella realizzazione del programma di governo.
Tra i poteri del premier vi sarebbe stato quello (fondamentale) di nomina e revoca dei ministri e quello di sciogliere la Camera dei deputati. Di fronte a questa decisione, però, i deputati della maggioranza avrebbero avuto il potere – per sfuggire allo scioglimento anticipato – di indicare un nuovo premier, ma senza modificare gli equilibri della coalizione (restava escluso, cioè, un possibile «ribaltone»). Quando fosse stata la Camera, invece, a votare la sfiducia al governo si sarebbe determinato lo scioglimento automatico della Camera stessa.
Bicameralismo
Anche per quanto concerne il procedimento di approvazione delle leggi statali erano previsti alcuni cambiamenti. La Camera avrebbe esaminate le leggi relative alle materie che rientravano nella competenza statale e il Senato poteva chiedere di riesaminarle (essendo sufficiente la richiesta votata dai due quinti dei Senatori). Il testo approvato dal Senato sarebbe tornato alla Camera che avrebbe deciso in via definitiva. Il Senato sarebbe stato competente a esaminare le leggi che toccassero materie attribuite sia allo Stato che alle Regioni (materie a competenza concorrente), le leggi di bilancio e la legge finanziaria. La Camera avrebbe potuto chiedere (con maggioranza dei due quinti, soltanto, dei deputati) al Senato di riesaminarle.
Costituzione di nuove Regioni e status di capitale
Per cinque anni dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale sarebbe stato possibile dare vita a nuove Regioni (con un minimo di un milione di abitanti ) con una procedura semplificata rispetto a quella (attuale) dell’art. 132 Cost.
A Roma veniva riconosciuto lo status di capitale della Repubblica federale. Si prevedeva testualmente che la capitale disponesse di forme e condizioni particolari di autonomia, anche normativa, nelle materie di competenza regionale «nei limiti e con le modalità che saranno stabiliti dallo statuto della Regione Lazio».
Composizione ed elezione delle Camere
I parlamentari sarebbero scesi di numero. Alla Camera dei deputati dovevano esservi 421 seggi (contro i 630 di oggi); al Senato 206 seggi (contro i 320 di oggi). Il Senato era destinato a perdere il potere di sfiduciare il presidente del Consiglio. Questa funzione sarebbe stata prerogativa esclusiva della Camera. L’elezione del Senato sarebbe avvenuta contestualmente a quella dei Consigli regionali. In caso di scioglimento anticipato di un Consiglio regionale il nuovo Consiglio sarebbe rimasto in carica soltanto sino alla fine della legislatura del Senato (cosiddetta contestualità affievolita). Il Senato sarebbe stato eletto a suffragio universale e diretto su base regionale. La legislatura avrebbe avuto la durata di cinque anni. La riduzione del numero dei deputati e dei senatori (e la contestualità dell’elezione dei Consigli regionali e del Senato) sarebbe dovuta divenire operativa soltanto a partire dal 2011.
Capo dello Stato
Il presidente della Repubblica avrebbe dovuto – anche nella futura Costituzione – venire eletto da un’apposita assemblea composta: dai deputati alla Camera, dai senatori, da tre delegati per ciascun Consiglio regionale e dai presidenti delle Regioni italiane. Il presidente doveva rappresentare l’unità federale della nazione ed essere il garante della Costituzione. Poteva inviare messaggi alle Camere e avrebbe avuto il potere di promulgare le leggi, di indire i referendum, di nominare i presidenti delle Autorità indipendenti di garanzia. Avrebbe perso, invece, il potere di decidere quale uomo politico nominare premier: anche nel caso di crisi di governo per «abbandono» del premier nel corso della legislatura, infatti, la scelta del successore sarebbe rimasta prerogativa della Camera dei deputati. Anche il potere di sciogliere le Camere, inoltre, sarebbe stato riservato non più al presidente della Repubblica ma al presidente del Consiglio.
Il presidente avrebbe potuto, poi, concedere la grazia e commutare le pene (senza necessità di proposta né di controfirma del ministro della Giustizia); avrebbe conservato il diritto alla presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura (di cui avrebbe designato il vicepresidente); avrebbe presieduto – come oggi – il Consiglio supremo di difesa; avrebbe conservato il potere di nominare i senatori a vita (in numero, però, non superiore a tre); avrebbe avuto – come oggi – il comando delle Forze Armate; avrebbe perso il potere di autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge del governo (istituto che è – se vogliamo – un fossile dell’epoca monarchica).
Corte costituzionale
I giudici della Corte costituzionale sarebbero rimasti quindici in tutto (come sono oggi). Sarebbero però cambiate le proporzioni: il capo dello Stato ne avrebbe nominati quattro, le Magistrature altri quattro e il Senato (integrato dai presidenti delle Regioni) sette. Dopo la scadenza dall’incarico, i giudici costituzionali non avrebbero potuto far parte né del governo, né del Parlamento, né ricoprire incarichi pubblici per cinque anni.
Consiglio Superiore della Magistratura
I componenti del Consiglio Superiore della Magistratura sarebbero stati eletti per due terzi dalla Magistratura e per un terzo dal Senato federale integrato dei presidenti delle Regioni (attualmente la legge fissa in 24 il numero dei componenti elettivi del CSM). Sarebbero rimasti componenti di diritto (oltre al presidente della Repubblica) il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione.
Va ricordato, infine, che il premier – designato, ma non eletto dagli elettori – avrebbe nominato e revocato i ministri, e avrebbe potuto decidere di sua autorità lo scioglimento della Camera dei deputati (non del Senato). Il fatto che le Regioni fossero destinate ad acquistare per volontà della Costituzione una competenza in materia di organizzazione scolastica, inoltre, non avrebbe significato devolvere a esse qualche competenza in materia di Università: l’Università, infatti, non è un organismo scolastico, ma un’istituzione di alta cultura (cfr. l’attuale art. 33). La disciplina giuridica degli studi universitari, inoltre, appartiene (art. 117, comma secondo) al legislatore statale e a esso sarebbe dovuta rimanere. Alle Regioni spetta, poi, di disciplinare con proprie leggi la ricerca scientifica: ma allo Stato è riservata la determinazione – mediante le cosiddette leggi cornice – dei principi fondamentali (terzo comma dell’art. 117 Cost.).
Il referendum costituzionale del 25 giugno 2006. Bocciatura della riforma costituzionale approvata nel 2005
Il testo di legge approvato dal Parlamento veniva pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005 – senza essere promulgato – così come previsto dall’art. 138 Cost., secondo comma. Lo stesso articolo dispone infatti che sulle leggi di revisione costituzionale approvate dalle due Camere con maggioranza (assoluta ma) inferiore a due terzi possa essere richiesto un referendum costituzionale confermativo, a iniziativa di un quinto dei componenti di ciascuna Camera; di cinquecentomila elettori o di cinque Consigli regionali.
La richiesta di referendum contro la legge votata dal Parlamento ex art. 138 veniva avanzata richiesta di referendum confermativo da tutte le tre componenti indicate dall’art. 138. Intervenuti quindi i riscontri della Corte di cassazione il presidente della Repubblica indiceva il referendum per i giorni 25 e 26 giugno 2006.
Il quesito referendario era impostato in modo semplice. Eccolo:
«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “modifiche alla parte seconda della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella G. U. n. 269 del 18 novembre 2005?»
Nelle due giornate stabilite si presentavano alle urne per esprimere il loro voto 25.753.641 elettori, cioè il 52,30% degli aventi diritto al voto. I risultati della consultazione si conoscevano già la sera del 26 giugno. Prevalevano i No, con un totale di 15.791.293 voti (in percentuale il 61,32% dei votanti). I Sì di conferma risultavano 9.962.348, pari al 38,68%.
La riforma costituzionale di centro-destra della quattordicesima legislatura risultava quindi bocciata.
Leggi di rilievo costituzionale della XIV legislatura
Nel corso della quattordicesima legislatura hanno visto la luce numerose e importanti leggi di rilievo costituzionale. Ci limitiamo a segnalare le leggi più interessanti.
La legge 20 giugno 2003 n. 140 dettava disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti della alte cariche dello Stato. Relativamente a quest’ultimo aspetto – cioè all’immunità che la legge stabiliva per le più alte cariche dello Stato (per tutta la durata della carica) – la Corte costituzionale cassava la relativa disposizione dichiarandone l’incostituzionalità con la sentenza 20 gennaio 2004, n. 24.
La legge 7 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge La Loggia) si intitola genericamente «Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge cost. n. 3 del 2001». Si tratta di una legge a cui rinviano numerose disposizioni del nuovo Titolo V (Parte II) della Costituzione. L’art. 8 della legge 131/2003, in particolare, detta regole in materia di sostituzione del Governo agli organi delle Regioni, dei Comuni, delle Province, ecc., per il caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali; o della normativa comunitaria, oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica. L’art. 120, terzo comma, Cost. rinvia alla legge ordinaria – appunto – dello Stato a essa demandando di definire le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.
Altra legge importante è stata la legge 2 luglio 2004, n. 165 che ha dettato disposizioni per l’attuazione dell’art. 122, primo comma, Cost., in materia di elezione degli organi di governo delle Regioni ordinarie, e di durata in carica degli organi regionali elettivi.
Infine vogliamo ricordare la legge 4 febbraio 2005, n. 11 che ha dettato (sostituendo la vecchia legge La Pergola, 9 marzo 1989, n. 86) nuove «Disposizioni generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari».
La ripresa della discussione sulle riforme costituzionali nella quindicesima legislatura
Nel corso della quindicesima legislatura alla Camera dei deputati è ripreso l’esame di alcuni possibili sviluppi della riforma costituzionale su cui si era inutilmente cercato un accordo nella precedente quattordicesima legislatura. La Commissione Affari Costituzionali ha lavorato a un progetto di revisione costituzionale su cui potessero convergere le forze di maggioranza e opposizione. Nei primi giorni di ottobre del 2007 la Commissione ha «licenziato» un testo base per la riforma della Costituzione frutto di un’intesa tra diversi gruppi parlamentari di entrambi gli schieramenti.
Il testo constava di 15 articoli che modificavano in più parti vari articoli della Costituzione, oltre che proporre limitati ritocchi di adeguamento di altri punti della Costituzione. Il testo approvato dalla Commissione avrebbe, peraltro, dovuto intraprendere l’iter ordinario di esame e approvazione da parte delle due Camere; cioè l’iter stabilito dall’art. 138 per le leggi di revisione costituzionale. Con possibilità, ovviamente, di modifiche e integrazioni. E con la necessaria doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento.
Il testo della Commissione Affari Costituzionali della Camera voleva realizzare una diversa forma di governo, puntando a un sistema sempre bicamerale; ma orientato a un bicameralismo imperfetto. Nel nuovo art. 94 si sarebbe previsto che la fiducia al Governo venisse data dalla sola Camera dei deputati. Anche la sfiducia (sempre a maggioranza assoluta) sarebbe divenuta prerogativa della sola Camera. Il premier, cui spetta la proposta dei ministri, avrebbe avuto anche il potere di proporne la revoca al presidente della Repubblica. Il Governo manterrebbe il potere di emanare decreti con forza di legge, in casi straordinari di necessità e di urgenza. Il nuovo art. 77 della Costituzione avrebbe però una norma diretta a circoscrivere il potere di decretazione d’urgenza a pochi specifici campi. La nuova disposizione proposta dalla Commissione vieterebbe espressamente la reiterazione dei decreti non convertiti.
Il Senato della Repubblica assumerebbe il nome di Senato federale della Repubblica; i senatori sarebbero strettamente legati ai Consigli regionali, chiamati a eleggerli (in proporzione alla popolazione di ciascuna Regione) entro trenta giorni dall’insediamento. Di ciascun Consiglio. In caso di scioglimento di un Consiglio regionale decadrebbero i senatori della relativa Regione. Il numero dei senatori scenderebbe (dagli attuali 315) a 250 (più sei della circoscrizione estero). Il numero dei deputati (età minima 18 anni, e non più ventuno) scenderebbe a 500, cui dovrebbero essere aggiunti i deputati eletti nella circoscrizione estero, in numero di dodici. La legislatura della Camera rimarrebbe di durata quinquennale.
La totale abolizione della pena di morte dall’ordinamento costituzionale
La legge costituzionale n. 1 del 2 ottobre 2007 (approvata in entrambe le letture a larghissima maggioranza bipartisan) ha rimosso dalla legge fondamentale (art. 27, quarto comma) ogni riferimento alla pena di morte.
Il testo originario del 1948, infatti, se pure genericamente vietava questa forma estrema di pena (poiché in aperto contrasto con il principio, contenuto nel medesimo art. 27 Cost., secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato) tuttavia la consentiva, sia pure in forma di deroga, «nei casi previsti dalle leggi militari di guerra».
Invero, dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, nessuna esecuzione capitale è stata mai eseguita in Italia (l’ultima esecuzione risale al 4 marzo del 1947) e la pena di morte era stata già abolita dal codice penale militare di guerra nel 1994 (con la legge 13 ottobre 1994, n. 589) ma la conservazione di questa eccezione nel testo costituzionale risultava essere in stridente contrasto con la posizione assunta dall’Italia sul piano internazionale, di guida del movimento abolizionista (il cui più recente successo è stata l’approvazione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU, il 18 dicembre 2007, della moratoria delle esecuzioni).
Del resto, il divieto di procedere a esecuzioni capitali (ancora praticate in molti Stati degli Usa, in Cina, in India e in numerosi altri Paesi africani, sudamericani e asiatici) è oggi sancito in numerose Carte dei diritti, dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (2° protocollo, adottato nel 1989) alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 (art. 2 e 19) fino alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (13° protocollo, adottato nel 2002) e la battaglia per un suo riconoscimento mondiale si pone come un irrinunciabile obiettivo di civiltà giuridica.