Saggio di redazione
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Doparsi… lo fanno tutti
Voler limitare il fenomeno del doping al mondo dello sport è falso e riduttivo. Il doping prima di tutto è un fenomeno sociale. Rappresenta, infatti, lo specchio di una società dove la vittoria è l’unica possibilità riconosciuta, in cui la competitività e il successo del singolo sono il paradigma dominante. Il doping è dunque per molti l’unico modo per non disattendere le aspettative e per rimanerne costantemente al di sopra.
Non si dopano solo gli sportivi professionisti – che devono sottostare alle regole dello show che ormai lo sport è diventato – ma si dopano anche i politici, gli studenti, i professionisti, le persone comuni, per rimanere al passo in una società che spesso si fonda sui falsi miti di denaro, potere, prestanza fisica.
Il doping: un rito antico
Con l’espressione «fare uso di sostanze dopanti» – o, più comunemente, «doparsi» – si intende l’assunzione di sostanze capaci di alterare le prestazioni fisiche di chi le consuma. Etimologicamente deriva dalla parola inglese dope (il verbo to dope significa «drogare»), che anticamente designava una bevanda di tè e vino consumata dagli schiavi americani per sopportare le fatiche e migliorare le prestazioni lavorative.
L’abitudine di utilizzare sostanze dopanti per ottimizzare la resa sportiva ha radici molto lontane nel tempo. Sia i greci sia gli aztechi, infatti, erano soliti effettuare riti propiziatori: i primi consumavano erbe e funghi; i secondi, invece, mangiavano il cuore di vittime designate nel tentativo di aumentare le proprie forze.
Durante il ventesimo secolo le forme di assunzione di sostanze rinvigorenti, esclusivamente da parte di professionisti o sportivi e limitatamente al momento delle gare, sono state le più disparate: dallo zucchero mischiato all’etere alla somministrazione congiunta di brandy, stricnina e foglie di coca macerate, sino alle anfetamine, le moderne sostanze stimolanti prodotte in laboratorio.
La pratica dell’impiego massiccio di dopanti sintetici durante la preparazione atletica, finalizzata principalmente al superamento delle gare olimpiche, fu attuata per la prima volta da atleti di Paesi dell’Europa orientale (ex DDR in testa). Nonostante si sapesse poco circa gli effetti collaterali di queste sostanze, molti sportivi – spesso a loro insaputa – vennero sottoposti in maniera sistematica alla somministrazione dei farmaci.
I successi eccezionali raggiunti furono scontati dagli atleti negli anni a venire in termini di disturbi psicologici e di malattie spesso invalidanti se non addirittura mortali. Alcune donne, a causa dei costanti trattamenti a base di ormoni maschili, hanno talmente mutato il fisico e la mente da essere costrette a richiedere l’operazione per il cambiamento di sesso (un caso emblematico è la storia della pesista Heidi Krieger).
A quei tempi, infatti, l’intento della DDR era di dimostrare e sottolineare la superiorità del regime anche attraverso la pratica sportiva, snaturando irrimediabilmente i reali principi che dovrebbero animare l’attività agonistica. Da quel momento il volto dello sport professionistico è mutato, viziato da corposi interessi economici, e la lista di atleti coinvolti volontariamente nell’uso di droghe anabolizzanti si è allungato anno dopo anno.
Tra i casi esemplari ricordiamo Ben Johnson, l’atleta canadese squalificato nel 1988 durante le Olimpiadi di Seul; il ciclista Marco Pantani, escluso nel 1999 dal Giro d’Italia per valori dell’ematocrito superiori a quelli massimi consentiti; l’atleta statunitense Florence Griffith Joyner morta, a soli 38 anni, in seguito a una crisi epilettica la cui natura non è stata mai accertata.
Dietro alle grandi figure cadute nella tentazione del doping si nascondono storie di delusioni, di giovani atleti che spendono la vita dietro a un sogno idealizzato, che si macchiano di un abuso impossibile da cancellare nella memoria e nel corpo prima di tutto.
Nemmeno le Olimpiadi di Pechino sono state risparmiate dagli scandali: l’esclusione della ciclista favorita Marta Bastianelli, per citare uno dei casi italiani, positiva a un test sostenuto a luglio, ha lasciato con l’amaro in bocca i tifosi. Sempre nell’ambito del ciclismo sono state decretate negli ultimi mesi le squalifiche più eclatanti: Riccardo Riccò è risultato positivo durante il Tour de France nel luglio 2008 e interdetto dall’attività agonistica fino al 30 luglio 2010; in agosto sono risultati positivi Emanuele Sella, Stephan Schumacher, Leonardo Piepoli e Bernhard Kohl, terzo classificato al Tour.
Sostanze dopanti
Mentre prima il doping era sanzionabile solo sul piano sportivo, attualmente – alla stregua del consumo di droghe – è considerato una pratica illegale, nella fattispecie della frode sportiva, e sono perseguibili legalmente non solo l’atleta che ne fa uso ma anche chi commercia le sostanze illecite e i medici che le prescrivono.
La lista delle sostanze biologicamente e farmacologicamente attive che circolano negli spogliatoi e nelle palestre è molto lunga. Si possono, tuttavia, raggruppare in tre categorie principali:
1) i farmaci non vietati per doping, ma utilizzati per scopi diversi da quelli autorizzati;
2) i farmaci vietati per doping;
3) gli integratori, vale a dire tutti quei prodotti che servono a reintegrare eventuali perdite di macro e micronutrienti (sali, aminoacidi, vitamine).
Per quanto riguarda l’impiego di farmaci al di fuori delle indicazioni per le quali sono stati sintetizzati, va ricordato che la loro somministrazione a persone non malate è sempre pericolosa in quanto priva di finalità terapeutiche, scopo fondamentale di un medicamento. Tra i farmaci più usati ci sono gli antinfiammatori non steroidei, gli integratori alimentari e i prodotti erboristici e omeopatici.
Il Ministero della Salute ha pubblicato l’elenco delle sostanze considerate dopanti: in genere si tratta di farmaci che servono a ridurre la percezione della fatica, migliorare la prontezza dei riflessi, accrescere la forza e la resistenza muscolare, controllare la frequenza cardiaca e respiratoria, ridurre il peso corporeo, attenuare l’ansia o mascherare la presenza di sostanze proibite nelle urine.
Per il Ministero «costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche e idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» (legge 14 dicembre 2000, n.376). Sono considerate dopanti sia le tecniche di somministrazione di sostanze in grado di migliorare lo stato generale dell’atleta (aumentandone le prestazioni e diminuendone la percezione della fatica) sia le pratiche connesse alla trasfusione del sangue e all’utilizzo di emoderivati (doping ematico).
La prassi di queste ultime è la seguente: il sangue dell’atleta, una volta prelevato, conservato e tornato a livelli normali di concentrazione dei globuli rossi, viene nuovamente messo in circolo nell’organismo in modo di ottenere un aumento pseudonaturale della conta totale dei globuli rossi. Alla stessa maniera sono vietate le manipolazioni chimiche o fisiche delle urine volte all’ottenimento di risultati falsati, dallo scambio dei campioni all’utilizzo intensivo dei diuretici.
Per le sostanze proibite si effettua una distinzione tra i farmaci in base alla composizione e agli effetti voluti e collaterali. Gli stimolanti, come la cocaina e l’efedrina, vengono utilizzati per contrastare la fatica e aumentare l’attenzione, ma provocano danni a livello cardiocircolatorio e neurologico.
Tra di essi figura anche la caffeina, dopante se somministrata in massicce dosi sotto forma di pasticche e concentrati; il consumo sotto forma di bevanda, invece, è consentito fino a concentrazioni che non superino a 12 microgrammi per millilitro nelle urine. Gli anabolizzanti hanno la capacità di aumentare la massa e la forza dei muscoli: tra i più diffusi ricordiamo l’ormone della crescita per l’accrescimento fisiologico e l’insulina che, aumentando i depositi di glicogeno, accresce la resistenza. I rischi legati all’assunzione vanno dai disturbi cardiovascolari anche molto gravi, alle mutazioni del tessuto connettivo, a gravi forme di ipoglicemia.
Il raffinamento delle tecniche di indagine per il riconoscimento di tracce di sostanze nelle urine o nel sangue degli atleti ha portato alla veloce sintesi e utilizzo di differenti farmaci dagli effetti migliori e dalla minore riconoscibilità all’interno dell’organismo: tra questi, l’EPO (o eritropoietina) è un ormone prodotto da reni e fegato in grado di aumentare sia l’ematocrito (volume dei globuli rossi) sia l’emoglobina, migliorando le capacità di trasporto dell’ossigeno nell’organismo, e che quindi ben si adatta a quegli sport che richiedono sforzi per lunghi periodi come il ciclismo o lo sci di fondo. I rischi sono legati all’aumento della viscosità del sangue e alle malattie che ne possono derivare, come ictus, infarti o trombosi.
La DYNEPO è un’evoluzione dell’EPO e consiste in un derivato dell’eritropoietina, utilizzato nella cura di anemie e insufficienze renali croniche, così nuovo da non essere entrato ancora a regime nell’elenco delle sostanze proibite (eccezion fatta per il Tour de France del 2007, durante il quale fu escluso il ciclista Michael Rasmussen). Un’ulteriore sofisticazione dell’EPO, il CERA (Continuous Erythropoietin Receptor Activator, ovvero attivatore continuo del recettore dell’eritropoietina) è una molecola di quest’ultima sostanza modificata con l’aggiunta di una catena proteica e utilizzata nella cura di pazienti nefropatici dializzati.
Ultimi nella lista dei farmaci dopanti sono i biosimilari, cioè le copie dei biofarmaci (molecole proteiche prodotte mediante l’ingegneria genetica) utilizzati nel trattamento di patologie gravi. I biosimilari vengono prodotti da ditte interessate nel momento in cui la detentrice dei diritti del biofarmaco li perde. I prodotti ottenuti sono simili ma non uguali all’originale e dunque gli effetti collaterali sono spesso incontrollabili se non a fronte di un lungo periodo di monitoraggio. Altro problema connesso ai biosimilari è il pericolo che, per favorirne la commercializzazione concorrenziale, i produttori non si attengano alle ferree norme che ne regolano la fabbricazione e immettano nel mercato sostanze potenzialmente pericolose.
I metodi di indagine
Dall’inizio del Novecento a oggi anche le tecniche di rilevamento di sostanze dopanti, parallelamente al loro diffondersi, sono migliorate (specialmente dopo la messa al bando di alcune sostanze nella metà del XX secolo). Si è passati dalle tecniche cromatografiche (su strato sottile e gas cromatografia su colonne impaccate) alle indagini incrociate su differenti umori, ma non solo, del corpo (urina, sangue, siero, saliva, capelli e sudore) effettuate in un numero ristretto di laboratori all’avanguardia sulle metodologie analitiche di rilevamento. Il liquido fisiologico generalmente prescelto per questo tipo di indagini è l’urina, che permette un campionamento meno invasivo in grandi quantità, e il cui prelievo non è soggetto a vincoli legali come invece accade per i prelievi di sangue.
All’interno delle urine, inoltre, gli steroidi coniugati sono presenti in percentuale del 99,7, e le analisi avvengono mediante idrolisi con acidi inorganici. Nella saliva e nel siero invece gli steroidi sono presenti nella forma libera nelle stesse proporzioni. I capelli, infine, permettono di rilevare chiaramente la concentrazione di steroidi rappresentando un tipo di campione facilmente recuperabile, conservabile e analizzabile.
I procedimenti utilizzati per smascherare gli atleti scorretti sono principalmente due: il primo, più veloce e dai costi ridotti, permette solo di ottenere un quadro di insieme rilevando l’eventuale presenza di sostanze proibite non specificandone la natura, il secondo metodo invece, quello identificativo, più lungo, sofisticato e complesso, utilizza un procedimento di isolamento della sostanza cercata all’interno delle urine.
Grazie all’introduzione degli spettrografi di massa, dagli inizi degli anni Novanta è possibile eseguire controlli giornalieri su un gran numero di provette. In particolare il metodo HRMS, la spettrometria di massa ad alto potere di risoluzione, permette il controllo contemporaneo di più di quaranta campioni di urina per l’identificazione degli ormoni steroidei anabolizzanti. Il metodo degli isotopi del carbonio permette di verificare l’incremento, sempre nelle urine, del testosterone/epitestosterone riconoscendo se l’aumento dei valori sia adducibile da cause naturali (la sintesi endogena) o sia dovuto ad apporto esogeno e dunque a doping.
Un autentico crociato della lotta contro il doping è il professor Jacques De Ceaurriz, responsabile dell’équipe del laboratorio di Chatenay-Malabry, che per primo ha individuato la tecnica di riconoscimento dell’eritropoietina esogena.
La legislazione antidoping in Italia
Nel 2000 ha visto la luce la legge n. 376, di cui si è già parlato a proposito della classificazione delle sostanze dopanti. Si tratta di una legge «storica» per la lotta al doping perché, oltre a colmare il precedente vuoto legislativo o, meglio, dare organicità e completezza ai provvedimenti precedenti, si propone di tutelare la salute (individuale e collettiva) e la lealtà nelle competizioni sportive.
L’art. 1, infatti, dichiara che «l’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva e deve essere informata al rispetto dei principi etici e dei valori educativi richiamati dalla Convenzione contro il doping, con appendice, fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989, ratificata ai sensi della legge 29 novembre 1995, n. 522. Ad essa si applicano i controlli previsti dalle vigenti normative in tema di tutela della salute e della regolarità delle gare e non può essere svolta con l’ausilio di tecniche, metodologie o sostanze dì qualsiasi natura che possano mettere in pericolo l’integrità psicofisica degli atleti».
Come si è detto, non si tratta della prima legge emanata in materia di doping. Le precedenti leggi 1099/1971 e 522/1995, tuttavia, presentavano grosse lacune che andavano colmate, anche a causa della recrudescenza che il fenomeno ha conosciuto negli ultimi anni. Se infatti gli articoli 3 e seguenti della legge 1099/1971 punivano l’impiego di sostanze nocive per la salute degli atleti «al fine di modificare le loro energie naturali in modo artificiale», il sistema sanzionatorio si rivelò comunque troppo blando per poter esplicare un reale effetto deterrente: tutti i reati previsti erano, infatti, puniti con la sola ammenda e, in seguito (legge 689/1981), furono addirittura depenalizzati.
La successiva legge 401/1989 nacque per contrastare il fenomeno delle scommesse clandestine e il suo ambito si limitava alle competizioni sportive organizzate dal CONI o da altri enti sportivi riconosciuti dallo Stato. La norma, tuttavia, consentiva – secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza alla legge – di punire anche la modificazione delle proprie energie fisiche, attraverso la somministrazione e assunzione di sostanze dopanti: si faceva infatti riferimento a generici «atti fraudolenti», e si ritenne che anche il doping, essendo un artificio volto a falsare il risultato sportivo e leale di una gara, sia da considerarsi tale in quanto finalizzato ad alterare l’esito della competizione sportiva.
L’Associazione vittime del doping
Le stime indicano che gli atleti sottoposti ai test antidoping durante le gare risultano positivi in percentuali che vanno dall’1,5 % al 2,5%; gli stessi test effettuati senza preavviso, tuttavia, hanno mostrato come in realtà la percentuale salga al 15%, fino a raggiungere punte del 40%.
Nonostante l’intensificarsi dei controlli e la specializzazione delle tecniche, resta ancora molta strada da fare nella lotta al doping: le modalità e i tempi impiegati nelle indagini permettono a volte di evitare i prelievi o di mascherare l’utilizzo illecito. Alcuni sportivi, inoltre, fanno uso nella loro alimentazione di complementi dietetici a base di proteine, vitamine e sostanze erboristiche; tali integratori (sulle cui etichette a volte non è riportata fedelmente la totalità delle sostanze contenute) non sono però sottoposti agli stessi controlli che vengono dedicati ai farmaci.
Nel 2006 Claudia Beatrice, figlia del calciatore Bruno Beatrice morto nel 1987 di leucemia, ha fondato l’ONLUS Associazione Vittime del Doping. Scopo dell’organizzazione è la denuncia e l’informazione tra i giovani e gli atleti circa i rischi connessi all’uso delle sostanze illegali in ambito sportivo, parallelamente alla raccolta di fondi sia per supportare le famiglie dei calciatori morti in seguito al doping, sia per pagare le spese delle cause legali mosse contro medici e società calcistiche, FIGC compresa. Tra gli aderenti figurano personaggi del mondo dello sport (come Ferruccio Mazzola e Carlo Petrini) e del modo dello spettacolo (come Gianni Morandi).
Il doping e lo sport sono spesso andati di pari passo, ma questo non giustifica la drammaticità di un abuso che ha corrotto la credibilità di sport come il ciclismo e ha infangato i nomi più noti del panorama sportivo di tutti i tempi, da Maradona a Pantani. Il messaggio che deve passare, rompendo le logiche commerciali e sociali, è quello dello sport come fonte di benessere fisico e mentale, dove non esistono scorciatoie ma solo impegno e preparazione per ottenere risultati concreti e duraturi, reali e proporzionati alle proprie possibilità.