Scopri, impara e cresci

Il grande salvataggio

Saggio di redazione

Saggio di redazione

Arrivano i nostri
Se il 2007 è stato l’anno dello scoppio della crisi dei mutui subprime, il 2008 è stato quello del salvataggio del sistema finanziario, orchestrato dagli Stati, dalle banche centrali e dagli istituti finanziari internazionali. Il 12 ottobre 2008, infatti, i 15 Paesi membri dell’Eurogruppo hanno varato un piano che prevede:

  1. garanzie governative sulle nuove emissioni di bond da parte delle banche;
  2. l’acquisto da parte dello Stato di azioni privilegiate (senza, cioè, diritto di voto);
  3. la ricapitalizzazione statale delle banche che, fallendo, provocherebbero una crisi di sistema (è prevista anche una responsabilizzazione degli azionisti e del management);
  4. la sospensione del «mark to market» (aggiustamento sistematico del valore di uno strumento finanziario in funzione dei prezzi correnti di mercato).

I soldi necessari verranno forniti dalla BCE con un tasso del 3,75% e, usufruendo di una speciale deroga al patto di stabilità, finiranno inevitabilmente per aumentare gli indebitamenti pubblici. Il FMI, inoltre, attiverà speciali linee di credito per i Paesi in difficoltà (a cominciare dall’Islanda che, da parte sua, ha già nazionalizzato tre banche: la Kamthing, la Landsbank e la Glitnir).
Del resto, nella prima settimana di ottobre la situazione delle piazze finanziarie era particolarmente impressionante: Milano era crollata del 21,2%, Tokyo del 24,3, Londra del 21,1, Francoforte del 21,6, New York del 19,8. Molti Paesi, quindi, avevano già da tempo cominciato a muoversi per proprio conto: lo Stato francese era entrato (assieme al Belgio) nel capitale della Dexia, annunciando un piano di garanzia per le banche; la Spagna aveva approvato misure di garanzie dei depositi; l’Olanda aveva nazionalizzato la Fortis; la Germania aveva offerto garanzie di Stato alla Hypo Real Estate e annunciato interventi eventuali sulle banche; il Regno Unito aveva nazionalizzato la Northern Rock e la Bradford & Bingley, aveva annunciato la nazionalizzazione di HBOS e di RBS ed era entrato nel capitale di Abbey Barclays, HSBC, Lloyd TBS e Standard Chartered.
Oltreoceano, intanto, il Congresso statunitense ha dato il via libera al cosiddetto «piano Paulson», finalizzato a ricapitalizzare le banche mediante l’acquisto di azioni senza diritto di voto (in un secondo tempo, questa ricapitalizzazione permetterà di rastrellare i titoli-spazzatura e di riavvicinarli alle quotazioni di mercato). La prima banca a essere ricapitalizzata è stata la Morgan Stanley, l’unica banca d’investimento statunitense (insieme alla Goldman Sachs) ancora esistente. Al «piano Paulson» vero e proprio, inoltre, si aggiungeranno interventi sia della FED (che, attraverso quotidiane iniezioni di liquidità, garantirà i prestiti interbancari), sia delle agenzie – di fatto nazionalizzate – Fannie Mae e Freddie Mac (che si occuperanno di rinegoziare i mutui sulle case).

L’«economia reale»
Gli Stati Uniti, insieme al Regno Unito, sono stati i primi a muoversi perché è stato da lì che, come ha francamente ammesso il presidente Bush, è partita la «tempesta perfetta». Negli USA, inoltre, all’epoca del «grande salvataggio», il paventato espandersi della crisi finanziaria all’«economia reale» era già da tempo una realtà e, nell’ottobre 2008, l’economia americana era ormai calata dello 0,7%, a causa della crescente disoccupazione, del crollo di valore delle case, dell’impossibilità di ottenere nuovi prestiti, della mancanza di guadagni di borsa e dell’indebitamento record. La crisi, che negli USA colpisce soprattutto la working e la middle class (i secondi consumano meno e i primi perdono il lavoro), ha fatto sì che il 16% dei proprietari di casa abbia un debito più alto del valore dell’immobile (contro un 4% di soli due anni fa), che – negli ultimi 15 anni – i contributi pensionistici accantonati dai lavoratori si siano ridotti di oltre 2000 miliardi di dollari e che la produzione industriale abbia smesso di correre a pieno regime.
Ma l’impoverimento in corso riguarda ormai tutto il mondo: anche i Paesi in via di sviluppo, infatti, stanno iniziando a soffrire per la minor crescita e per la stretta del credito e, come ha annunciato il presidente della Banca Mondiale, dall’inizio dell’anno abbiamo ben 100 milioni di poveri in più.
È per questo che il presidente Bush, allo scopo di perorare l’approvazione da parte del Congresso del «piano Paulson», si è rivolto in questi termini agli americani: «Siamo in un momento critico per la nostra economia e abbiamo bisogno di una legge che ridia ordine, con decisione, alle attività che stanno bloccando il sistema finanziario, metta chi concede i prestiti in condizione di riaprire il flusso del credito per consumatori e imprese e consenta all’economia dell’America di rimettersi in cammino. Capisco che questo è un voto difficile per i membri del Congresso. A molti di loro non piace il fatto che la nostra economia sia arrivata a questo punto e io lo capisco. Ma la realtà è che il momento urge. E le conseguenze non faranno che peggiorare ogni giorno se non agiremo.
Il drammatico crollo di borsa che abbiamo visto ieri avrà un impatto diretto sui conti delle pensioni, sui relativi fondi e sui risparmi personali di milioni di nostri concittadini. Se la nostra nazione continuerà in tale direzione, il danno economico sarà penoso e duraturo. E io so che molti americani sono soprattutto preoccupati per il costo della legge. Il progetto che la Camera ha discusso ieri impegna fino a 700 miliardi di dollari dei contribuenti per comprare attività pericolanti da banche e altre istituzioni finanziarie. Si tratta, è ovvio, di una cifra rilevante».
In realtà, quando il piano verrà finalmente approvato, la cifra diverrà ancora più rilevante, dal momento che finirà per lievitare a circa 900 miliardi di dollari. E, mettendo nel conto anche gli interventi approntati nel resto del mondo occidentale, in quei giorni si arriverà a iniettare nel sistema ben 3000 miliardi di dollari.

Il sistema bancario
Insomma, tutti sono convinti della necessità di dotarsi di nuove regole: evitare la socializzazione delle perdite a carico delle popolazioni più deboli del pianeta, eliminare l’indipendenza politica delle banche centrali, ristabilire un controllo nazionale e internazionale sui movimenti di capitali, sradicare i mercati speculativi e i paradisi fiscali, regolare il mercato delle valute, sostituire le società private di revisione dei conti con un sistema pubblico trasparente di valutazione e di certificazione.
Di fatto, tuttavia, gli interventi si limitano ad affrontare il problema dal lato delle banche e tale problema si riassume in un dato di fatto: le banche non si fidano più le une delle altre. A furia di contaminare i veicoli di investimento strutturati e derivati, infatti, è venuto a mancare alle relazioni interbancarie un sistema di prezzi e di valori su cui basarsi. Ci si pone, tuttavia, una domanda: se le banche non si fidano, perché dovrebbero convogliare la liquidità iniettata dalle istituzioni statali in prestiti interbancari?
Per quanto riguarda poi il temuto contagio nei confronti dell’«economia reale», va ricordato che, negli ultimi vent’anni, la liquidità tradizionale delle imprese (legata al saggio di profitto) è andata a sostituirsi con una moneta fittizia legata ai tassi di plusvalenza promessi (che sono più alti di quelli determinati dal saggio di profitto). Per quanti soldi «veri» gli Stati possano iniettare nel sistema, insomma, non potranno mai essere sufficienti a colmare un vuoto di liquidità che, con i soldi «veri», non ha mai avuto niente a che fare. Ancora una volta, perciò, vien da chiedersi: perché i beneficiari dei salvataggi dovrebbero reimmettere i soldi nel sistema invece di tenerseli stretti?
Joseph Halevi, docente di economia all’Università di Sydney, ricorda un precedente salvataggio, molto somigliante a quello attuale: «L’esperimento venne già effettuato su larga scala in Giappone durante la crisi durata oltre un decennio, dal 1992 in poi. Le banche, soggette ad una vera e propria deflazione da debito, furono inondate di soldi da parte della banca centrale nipponica, il cui tasso di interesse fu addirittura azzerato. Non successe nulla. Le banche si tennero i soldi senza espandere il credito. Ciò che aiutò il Giappone ad evitare la depressione e a sopravvivere nella stagnazione furono le esportazioni nette, cioè la domanda reale di merci dal resto del mondo, come anche il deficit pubblico, spesa diretta in attività più strane e opinabili, tanto per assorbire produzione reale (come la pavimentazione in cemento dei fiumi)».
Il sociologo norvegese Johan Galtung, uno dei padri dei cosiddetti «peace studies», va oltre e suggerisce al governo degli Stati Uniti una strategia alternativa rispetto al salvataggio del sistema finanziario prefigurato dal piano Paulson. Il «contropiano» di Galtung si articola in dieci punti:

  1. una sorta di keynesismo volto a migliorare le infrastrutture sociali e creare nuovi posti di lavoro;
  2. un’intensificazione della progressività del sistema fiscale accompagnata da riduzioni e sussidi per chi sta in basso nella scala sociale;
  3. un intervento in aiuto dei mutuatari che abbiano contratto il finanziamento nel periodo intercorso tra l’inizio della bolla immobiliare e il suo scoppio;
  4. un blocco dei pignoramenti;
  5. un drastico taglio delle spese sostenute dal Pentagono;
  6. l’abbandono al loro destino delle banche che non abbiano provveduto a dotarsi di adeguate coperture e che applichino un’eccessiva sperequazione retributiva a favore dei dirigenti;
  7. la messa fuori legge dei prodotti finanziari che non garantiscano una sufficiente trasparenza;
  8. la valorizzazione delle banche che, al contrario, assicurino la congruità dei prestiti contratti;
  9. la resa pubblica del modello di matematica finanziaria M2;
  10. un deciso deprezzamento del dollaro.

Dal «New Deal» alla deregolamentazione finanziaria
La nostalgia nei confronti delle misure adottate dal «New Deal», insomma, è forte: protezione di conti bancari delle famiglie (Federal Deposit Insurance Corporation), separazione tra banche commerciali e banche di investimento (Glass-Stegall Act), interventi a sostegno dei mutui ipotecari sulla casa (Home Owners Loans Act), credito ai contadini, sussidi alla disoccupazione, salario minimo, welfare nella sanità e nella sicurezza sociale, adozione di un piano del lavoro (National Industrial Reconstruction Act) modellato sulle pianificazioni sperimentate durante la prima guerra mondiale, interventi sulle infrastrutture pubbliche, occupazione diretta dei disoccupati da parte dello Stato (Civil Works Administration e Work Progress Administration Act).
Nonostante tutte queste misure, tuttavia, nel 1937 la disoccupazione statunitense era ancora al 19% e il pieno impiego arrivò solo con la guerra (con un disavanzo di bilancio annuo pari al 25% del PIL). Il cosiddetto «keynesismo militare» (con buona pace del «drastico taglio delle spese sostenute dal Pentagono» auspicato da Galtung), viene da lì. Così come è dai «magnifici trenta» (1945-1975) che nascono gli Stati Uniti di oggi: disavanzi in crescita (fino all’attuale debito pubblico di 10.000 miliardi di dollari), primato della finanza (fino all’inserimento nel circuito finanziario dei lavoratori e dei pensionati) e «reinvenzione» del mondo del lavoro (che, grazie al credito facile, riceve in «dono» un accesso inclusivo a consumi e abitazioni).
Durante i «magnifici trenta», infatti, si riteneva che i settori guida dell’economia dovessero essere socializzati, che una parte dei consumi privati (trasporti, casa, scuola, sanità, pensioni) dovesse essere a carico della spesa pubblica, che le tasse avessero l’obiettivo di ridurre le disparità economiche, che i mercati finanziari dovessero essere limitati nelle loro speculazioni. È grazie a questi principi che, alla fine degli anni Sessanta, tutte le economie occidentali sono riuscite a raggiungere la piena occupazione.
Alla metà degli anni Settanta, tuttavia, l’Occidente si trovò di fronte a una tipica «crisi di crescita», a cui si ritenne di rispondere sostituendo alle teorie keynesiane quelle monetariste. L’obiettivo delle prime (progettate per congiunture caratterizzate da deflazione, caduta dei prezzi e disoccupazione) era quello di impedire all’economia di stabilizzarsi in una situazione che non fosse di piena occupazione. L’intervento dello Stato si manifestava, quindi, incrementando l’occupazione attraverso opere pubbliche e abbassando i tassi d’interesse, allo scopo di incentivare il ricorso al credito.

Secondo l’assunto keynesiano, il problema dell’inflazione sarebbe apparso solo con l’approssimarsi della piena occupazione e con la conseguente creazione di un credito eccedente. Tale assunto, tuttavia, venne contraddetto dalla stagflazione degli anni Settanta in cui, appunto, per la prima volta coesistettero disoccupazione e inflazione. È proprio a causa di questo fallimento del keynesismo che prese piede la teoria opposta, quella monetarista. Secondo quest’ultima, è l’offerta di moneta a svolgere il ruolo di stabilizzazione che, nel keynesismo, veniva svolto dal tasso d’interesse.
Il ragionamento dei monetaristi è semplice quanto brutale: se è il governo a regolare l’offerta della domanda, diventa possibile sia impedire ai datori di lavoro (per mancanza di moneta) di pagare gli aumenti richiesti, sia spingere fuori mercato i lavoratori con un potere contrattuale tale da imporre comunque tali aumenti. Se l’obiettivo dei keynesiani, insomma, era quello di contrastare la disoccupazione stimolando il ricorso al credito e adoperando la leva fiscale, quello dei monetaristi si risolveva nell’usare la disoccupazione per stabilizzare l’economia.

Le politiche monetariste, prima di essere adottate nell’occidente industrializzato, furono fatte proprie negli anni Settanta dal FMI e dalla Banca Mondiale che, sfruttando il loro ruolo istituzionale, le sperimentarono nei Paesi emergenti (a cominciare dal Cile di Pinochet). L’adozione del monetarismo alle economie avanzate, invece, nacque dall’esigenza di contrastare il principale problema causato dal secondo shock petrolifero: l’aumento dei prezzi che, a sua volta, era responsabile del rallentamento dell’economia. I Paesi occidentali «pioneri» nell’adozione del monetarismo alle proprie economie furono il Regno Unito di Margaret Thatcher (che guidò il governo britannico dal 1979 al 1990) e gli Stati Uniti di Ronald Reagan (presidente dal gennaio 1981 al gennaio 1989).
Alleggerimenti fiscali, tassi di interesse elevati, apprezzamento del dollaro (che, nel 1983, portò gli USA alla più grave recessione economica dal dopoguerra), progressiva privatizzazione di imprese statali e servizi pubblici, politiche di contenimento della spesa pubblica e di riduzione del debito: tutte queste pratiche, nel corso degli anni Ottanta e del decennio successivo, si allargarono dalle esperienze «pilota» britannica e statunitense a tutte le economie avanzate ottenendo, sin dai primi anni Novanta, risultati positivi sul piano dell’abbattimento dell’inflazione ma effetti molto più modesti sia sul versante della crescita economica, sia su quello dell’incremento occupazionale.
L’apporto più rilevante della «rivoluzione neoliberista» degli anni Ottanta, in ultima analisi, sarà riscontrabile essenzialmente in due aspetti: l’emergere sempre più prepotente della componente finanziaria del sistema economico e la massiccia de-industrializzazione, a favore della «diversificazione» e della crescita del settore dei servizi: celebri, a tale proposito, le rust bell statunitensi («cinture della ruggine») e la vistosa modificazione del panorama industriale dell’Italia meridionale provocata dalle sempre più frequenti dismissioni.

Che fare?
È questa, perciò, l’eredità dei «magnifici trenta» e della successiva svolta neoliberista (anni Ottanta) e privatizzatrice (anni Novanta). Tutto ciò spiega perché, oggi, la preoccupazione principale delle autorità politico-economiche della «Triade» (USA, UE e Giappone) non sia tanto la costruzione di una nuova «Bretton Woods», quanto il tentativo di contrastare il rischio, sempre più serio, di credit crunch.
Solitamente, all’indomani di una crisi finanziaria, la strategia è quella di contenere gli investimenti speculativi a favore di quelli rivolti alla cosiddetta «economia reale» (politica dei redditi e investimenti nella produzione). Questa volta, però, ci si trova di fronte a una situazione in cui la componente finanziaria è talmente preponderante che, rinunciando anche solo momentaneamente all’attività speculativa, non rimarrebbero fondi sufficienti per investire nell’economia reale (o, meglio, tali esborsi non sarebbero tali da risultare redditizi per gli investitori, che preferiscono, perciò, tenere i soldi in cassa). Gli unici soggetti potenzialmente interessati a un intervento nell’economia reale, quindi, sono gli Stati che, al contrario dei privati, non sono vincolati all’obbligo della redditività. È anche vero, però, che si tratta degli stessi Stati che, negli ultimi vent’anni, si sono adoperati per ingigantire la componente finanziaria (e debitoria) dell’economia: è credibile, quindi, che si risolvano a vanificare il frutto di tanto duro lavoro?
In ogni caso, l’intervento dello Stato nell’economia reale, per essere efficace, dovrebbe essere sia diretto che indiretto: nel primo caso si tratterebbe di immettere liquidità a favore dei redditi da lavoro e delle imprese (che, investendo, avrebbero il compito di creare posti di lavoro stabili e ben retribuiti); nel secondo caso si tratterebbe di usare la leva fiscale per incentivare determinati comportamenti e disincentivarne altri. Con gli aiuti diretti, tuttavia, si produrrebbe un esito che, come abbiamo visto, finirebbe per contrastare il progetto di finanziarizzazione dell’economia caratterizzante l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica. Con quelli indiretti, invece, ci si troverebbe di fronte a un ostacolo insormontabile: la forte deregolamentazione finanziaria, che ha dato ai capitali un’immensa mobilità e ha permesso il proliferare di una serie di veri e propri «paradisi fiscali». Non bisogna dimenticare, infatti, che in Europa i «finanzieri d’assalto» hanno a disposizione preziosi lidi come il Lussemburgo, il Liechtenstein, Montecarlo, Andorra, San Marino, Cipro e le isole inglesi della Manica. Va ricordato, inoltre, che le sole isole Cayman ospitano depositi pari a circa un triliardo e mezzo di dollari provenienti dall’establishment statunitense.
È facile, quindi, prevedere che i salvataggi del 2008 non saranno sufficienti a placare la «tempesta perfetta»; tutti i commentatori, del resto, sono concordi nel riconoscere che «siamo solo all’inizio». Per fare un esempio, è sufficiente osservare che negli USA e in Gran Bretagna, dopo la bolla dei mutui immobiliari, ne stanno per scoppiare altre due: quella delle carte di credito e quella dei credit default swaps (contratti di copertura sul rischio di fallimento di grandi banche e imprese).
L’impasse del mondo politico-economico di fronte alla crisi finanziaria scaturita dal crollo dei subprime, quindi, non è priva di giustificazioni. Ciò non toglie, tuttavia, che la politica (ormai in perenne campagna elettorale) rinunci a elaborare delle proposte al riguardo. E, a tale proposito, le due direttive principali sono ben esemplificate dai piani contrapposti presentati dai due candidati alla presidenza degli Stati Uniti: il «neokeynesismo» di Barak Obama e le riduzioni fiscali di John McCain.
Il democratico Obama ha presentato il suo piano a breve termine (vale a dire, da approvarsi entro l’anno) il 13 ottobre 2008. La sua ricetta si prefigge di creare nuovi posti di lavoro e di fornire aiuti alle famiglie, ai proprietari di prima casa e alle piccole imprese. In concreto, Obama propone: sgravi fiscali per le imprese statunitensi che creano posti di lavoro senza delocalizzare; creazione di un fondo per finanziare grandi opere infrastrutturali (strade, ponti e fognature); tagli fiscali a favore della middle class; allungamento della durata e completa detassazione del sussidio di disoccupazione; sgravio fiscale per i pensionati che vogliano sottrarsi da fondi pensione in perdita; strutturazione degli aiuti alle banche in maniera che contemplino misure di protezione per i titolari di mutui; sgravio fiscale del 10% sugli interessi del mutuo; moratoria per tre mesi sugli sfratti (per permettere di rinegoziare il mutuo); eliminazione delle tasse sui capital gain per le piccole imprese che creano posti di lavoro; creazione di un fondo per garantire i prestiti alle piccole imprese.
Il giorno dopo, anche il candidato repubblicano, John McCain, ha esposto la sua ricetta anti-crisi: si tratta di una serie di tagli fiscali (per un costo complessivo di 52,8 miliardi di dollari) rivolti agli investitori, ai cittadini anziani e ai titolari di sussidi di disoccupazione. Nello specifico, McCain propone: la temporanea riduzione delle tasse sui capital gain a chi detenga i titoli per più di un anno; l’aumento delle deduzioni fiscali per le perdite sui capitali; la garanzia governativa per tutti i conti correnti di risparmio per un periodo di sei mesi; l’abbassamento delle tasse sui prelievi effettuati dai propri piani pensionistici federali; l’esenzione dalle tasse sui sussidi di disoccupazione per chiunque guadagni meno di 100.000 dollari l’anno.
Il dibattito tra progressisti e democratici, quindi, verte sulla questione se siano preferibili più sussidi o meno tasse; nessuno dei due contendenti, invece, mette in discussione un modello di sviluppo basato sulla crescita illimitata dei profitti, dei consumi e del debito. I grandi assenti nel dibattito sull’attuale crisi finanziaria, perciò, sono Marx ed Engels che, nel lontano 1847, scrivevano: «La società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio.
Le forze produttive di cui esse dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere la ricchezza da essi prodotta. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare la crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi».
Sarebbe forse il caso di ripartire dalle riflessioni dei due pensatori tedeschi?