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Il mondo nell’era della globalizzazione

Saggio di Arrigo Petacco

Saggio di Arrigo Petacco

La «fabbrica globale»
Gli anni Novanta sono segnati dall’esplosione della cosiddetta «new economy»: in quegli anni avviene la sostituzione del modello fordista con quello toyotista, emergono modi di produzione flessibili a scapito della produzione in serie, nascono le imprese transnazionali e i distretti industriali, si verificano una progressiva deindustrializzazione e una riconversione di gran parte della forza lavoro nel settore dei servizi.
La new economy, che si fonda sull’applicazione della microelettronica all’informatica e alle comunicazioni, ha significato il passaggio dalla tecnologia analogica a quella digitale, lo sviluppo della telecomunicazione mobile, il proliferare delle reti via cavo ed è diventata, a partire dal 1995, il motore della crescita economica mondiale: se nel periodo 1972-1995 la produttività globale cresceva al ritmo dell’1,4% annuo, dal 1995 al 2000 l’incremento è balzato al 2,5%.
Nonostante la quota produttiva rappresentata dalla new economy sia molto ridotta rispetto a quella costituita dal settore manifatturiero, il ruolo egemonico della «nuova economia» si è manifestato nella sua capacità di garantire servizi all’intero comparto produttivo (raccolta e archiviazione dati, organizzazione del terziario, miglioramento delle procedure di automazione, introduzione dell’«autonomazione» robotica), riuscendo a sviluppare a 360 gradi il processo di meccanizzazione iniziato con la rivoluzione industriale del Settecento. Al pari di allora, la nuova rivoluzione tecnologica ha mirato all’ottimizzazione dei processi di produzione e ha imposto un rigido aut aut: riduzione dell’occupazione o contenimento del costo del lavoro.
Come nelle precedenti rivoluzioni industriali, le nuove «leggi» imposte dalla new economy e dal toyotismo hanno prodotto vantaggi e svantaggi: la messa in discussione del modello di impresa centrata sulla grande fabbrica (ad alta intensità sia di manodopera, sia di capitali) ha infatti aumentato la platea di soggetti in grado di fare impresa ma, al tempo stesso, ha prodotto ovunque precarietà e sottoccupazione (promuovendo un tipo di azienda tendente a frammentarsi nei luoghi, e nei Paesi, capaci di garantire volta per volta la soluzione più conveniente per ogni singolo segmento produttivo). Se da una parte, inoltre, si sono create le premesse per il coinvolgimento dei Paesi in via di sviluppo all’interno della nuova «fabbrica globale», dall’altro la divisione del lavoro internazionale si è cristallizzata sempre più in fasce alte e basse, col risultato di creare rigide diseguaglianze sia tra i vari Paesi, sia all’interno dei Paesi stessi.
Con l’affermazione della «fabbrica globale» è cambiata anche la natura del commercio mondiale. Se prima, infatti, si trattava sostanzialmente di scambiare materie prime con prodotti industriali, dopo la «rivoluzione» degli anni Novanta il commercio è diventato esso stesso una funzione del processo produttivo. In seguito alla politica di diversificazione delle multinazionali (che subappaltano all’estero le funzioni produttive a minore valore aggiunto), gran parte degli scambi ha cominciato a svolgersi all’interno dello stesso sistema di imprese: se prima, infatti, il prodotto nasceva all’interno di una data fabbrica, ora nasce attraverso un continuo commercio tra tipologie analoghe di merci.
L’apertura dei mercati industriali, perciò, da un lato ha avvantaggiato i Paesi tecnologicamente in grado di inserirsi all’interno di questo gigantesco processo di trasformazione (Stati Uniti, Giappone, Europa occidentale, Cina, Taiwan, Corea del Sud), dall’altro ha penalizzato le economie maggiormente dipendenti dall’esportazione di materie prime e di prodotti agricoli (Stati arabi, Africa, America Latina).
La difficoltà dei Paesi emergenti all’interno del commercio globale sono ancora più evidenti se ci si concentra sul mercato agricolo (prodotti alimentari, cotone, tabacco, ecc.). In questo campo i problemi vengono dai generosi sussidi garantiti alle agricolture dei Paesi sviluppati, che consistono sia in sovvenzioni dirette ai produttori (come avviene negli Stati Uniti), sia in tariffe all’entrata (che rendono artificialmente competitive le derrate locali prodotte nei Paesi europei). A titolo di esempio, è sufficiente ricordare che, solo nel periodo 1998-2002, i produttori di cotone del Texas hanno ricevuto 15 miliardi di dollari in sussidi: non è difficile immaginare quali ripercussioni possano avere tali pratiche nei confronti di Paesi poveri come quelli dell’Africa subsahariana, dove l’esportazione di cotone rappresenta una delle principali forme di reddito per la popolazione.
Di fronte a questa situazione, ai Paesi emergenti restano due possibilità: o affidarsi ad accordi bilaterali volti a scambiare l’esportazione di monocolture con l’importazione di prodotti di sussistenza (entrambi ai prezzi volatili fissati dal mercato delle commodities); o accettare il baratto tra l’abolizione degli odiati sussidi e la liberalizzazione dei servizi (permettendo ai Paesi sviluppati di insediarsi nel mercato ancora «vergine» dei Paesi poveri). La problematica è ben sintetizzata dalle parole dell’economista Silvia Perez-Vittoria: «Un certo livello di protezionismo è necessario, ma bisogna distinguere fra protezionismo dei governi e del mercato e protezionismo di chi produce ciò di cui abbisogna ed eventualmente mette in commercio le eccedenze. In questo sistema di mercato, l’agricoltura industriale è estremamente dipendente non solo dalle sovvenzioni, ma dal petrolio, dai prodotti chimici, eccetera». E dal momento che due terzi delle persone che, nel mondo, soffrono la fame sono contadini, la questione non è di poco conto.
Di questi problemi si occupa (a suo modo) l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il WTO (sigla inglese con cui l’organizzazione è universalmente nota) nasce il 1° gennaio 1995 come esito dell’Uruguay Round (1986-1994) e ha il compito di amministrare ed estendere gli accordi internazionali riguardanti il commercio di beni, servizi e proprietà intellettuali. L’azione del WTO (di cui fanno parte 152 Paesi) è caratterizzata da una spiccata impronta liberista (volta alla progressiva riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale), dalla stretta cooperazione con le istituzioni di Bretton Woods (FMI e Banca Mondiale), dall’incoraggiamento di misure «ritorsive» nei confronti di chi non rispetta gli accordi (misure, tuttavia, appannaggio dei Paesi più ricchi, gli unici ad avere i mezzi per imporre ritorsioni) e, soprattutto, dal cosiddetto «meccanismo del consenso» (che non prevede l’unanimità delle decisioni né il rispetto del criterio «un Paese un voto»).
Quest’ultimo aspetto è responsabile sia dei lunghi round negoziali (necessari per raggiungere, appunto, una qualche parvenza di consenso), sia dei frequenti fallimenti delle conferenze dell’organizzazione (a iniziare da quello, condito da epocali contestazioni, dell’edizione di Seattle del 1999). La difficoltà di raggiungere accordi concreti all’interno dei membri del WTO si spiega, inoltre, non soltanto con l’ovvia contrapposizione di interessi tra Paesi emergenti e Paesi sviluppati, ma anche con le diverse strategie commerciali che creano contrasti sia tra i Paesi della cosiddetta «Triade» (USA, Giappone e Unione Europea), sia tra quelli in via di sviluppo (dove l’eccezionale crescita delle economie brasiliana, cinese e indiana hanno finito per spezzare l’unità, in realtà mai esistita, del «fronte del Sud»). Tutti in ordine sparso, quindi; con il rischio che il pur lodevole «principio della nazione più favorita» (per cui ogni Paese membro si impegna ad accordare agli altri le stesse condizioni commerciali) si trasformi nel vecchio e immarcescibile diritto del più forte.

Le crisi finanziarie
Accanto alla ottimizzazione dei processi produttivi e all’apertura del commercio internazionale, un terzo aspetto dell’economia «globalizzata» è costituito dal processo di deregolamentazione finanziaria. La liberalizzazione dei mercati di capitali ha un duplice vantaggio: permette alle economie emergenti di approvvigionarsi dei mezzi finanziari necessari per finanziare la propria crescita e offre ai Paesi ricchi un mercato allargato utile ad aumentare i propri profitti. Il problema sopraggiunge quando si pretende che, in nome di questo allargamento del mercato finanziario, i Paesi emergenti mettano a rischio la stabilità delle proprie economie per fare incetta di capitali di cui, in ultima analisi, non hanno bisogno.
Delle due crisi finanziarie che hanno segnato il decennio di cui ci stiamo occupando (la crisi asiatica del 1997 e la crisi dei mutui subprime del 2007), la prima è dovuta appunto a un processo di deregolamentazione finanziaria eccessivo e mal governato.

Tutto cominciò il 2 luglio 1997 quando il bath thailandese, che per dieci anni era stato scambiato con un rapporto 25:1 rispetto al dollaro, subì una svalutazione di circa il 25%. Dalla Thailandia, di lì a poco, la speculazione si sarebbe diffusa alla Malaysia, alla Corea, alle Filippine e all’Indonesia, finendo per coinvolgere banche, borse ed economie di interi Paesi, dal Brasile a Hong Kong.
E pensare che gli Stati dell’Est asiatico colpiti dalla crisi provenivano da tre decenni di crescita ininterrotta, passata alla storia come «miracolo asiatico». Tale miracolo era stato possibile grazie all’elevata propensione al risparmio, agli investimenti governativi in istruzione e ricerca, alle politiche industriali rigidamente gestite dagli Stati e incanalate verso l’export, alla redistribuzione dei profitti della crescita (per garantire la necessaria coesione sociale), alla preoccupazione di colmare il gap tecnologico con i Paesi più sviluppati e, soprattutto, alla liberalizzazione controllata del commercio e dei mercati di capitali: le aperture, cioè, avvenivano gradualmente e non prima di aver creato un adeguato numero di posti di lavoro stabili nei settori trainanti. Una crescita economica che produca povertà e disoccupazione, infatti, è una crescita illusoria.
I problemi per i Paesi del «miracolo asiatico», tuttavia, arrivarono quando la crescita raggiunse dimensioni tali da costituire un mercato particolarmente appetibile per il capitale internazionale: a quel punto la stabilità delle economie asiatiche passò fatalmente in secondo piano rispetto all’opportunità di moltiplicare i profitti mediante le attività speculative. È indicativo il fatto che l’assemblea annuale del FMI e della Banca Mondiale, riunitasi nel settembre 1997, non trovò di meglio che raccomandare ai Paesi colpiti dalla crisi finanziaria un’ulteriore liberalizzazione dei propri mercati di capitali. Per quanto riguarda invece gli aiuti, le istituzioni di Bretton Woods prestarono soldi non tanto per sostenere il cambio nei Paesi attaccati dalla speculazione, ma per garantire che le aziende di quei Paesi riuscissero a rimborsare i prestiti contratti con le banche internazionali.
I soldi del salvataggio orchestrato dal FMI, perciò, rimasero nei Paesi asiatici il tempo strettamente necessario per preparare una gigantesca fuga di capitali (la stessa che, pochi anni prima, aveva caratterizzato la crisi messicana). È comprensibile, del resto, che chi presta denaro si preoccupi di averlo indietro con gli interessi. Quello che si comprende meno è la pretesa che i capitali liberalizzati facciano altro da quello che è prevedibile facciano: vale a dire, accorrere nei periodi di rapida espansione (con l’effetto di creare inflazione) e andarsene nei periodi di recessione, proprio quando un Paese ne avrebbe più bisogno.
Se nel caso della crisi del 1997 il capitale speculativo internazionale operò, per così dire, «in trasferta», la più recente crisi dei mutui subprime è stata provocata invece da una politica economica tutta interna a uno dei Paesi guida della globalizzazione: gli Stati Uniti.
Con il termine «subprime» ci si riferisce a prestiti concessi a soggetti che, avendo avuto gravi problemi di sofferenza debitoria ed essendo perciò considerati ad alto rischio di insolvenza, non possono accedere ai tassi di interesse di mercato. I prestiti subprime sono perciò caratterizzati da tassi particolarmente alti. Il vantaggio di questa pratica creditoria sta nell’estensione del mercato creditizio a chi, altrimenti, ne resterebbe escluso: si calcola, infatti, che il mercato dei subprime capitalizzi circa un quinto del mercato statunitense dei mutui per la casa. L’espansione della bolla immobiliare statunitense, inoltre, ha garantito (fino all’esplosione della crisi del 2007) una costante rivalutazione degli immobili, in modo da permettere al debitore in difficoltà di vendere o ipotecare la casa di cui stava pagando il mutuo e rifinanziare così il proprio debito.
A partire dal 2000, tuttavia, si crearono le premesse per l’inceppamento di questo meccanismo: in quel periodo, infatti, la Federal Reserve iniziò a praticare in maniera sempre più decisa una politica di credito a buon mercato, alimentando il boom del mercato immobiliare in tutto il mondo, facilitando i mutui e rendendo meno cara la loro restituzione. I proprietari di case le ipotecavano usando la differenza per acquistare beni di consumo e il valore degli immobili costituiva inoltre il titolo di garanzia anche per prestiti con scopi speculativi (come l’investimento in azioni o nel mercato dei derivati, che ogni giorno scambia titoli per un valore di centinaia di volte superiore al prodotto lordo mondiale).
Il risultato fu che, a partire dal 2006, si verificò una situazione di insolvenza per centinaia di migliaia di debitori, mettendo in crisi gli istituti di credito e le compagnie finanziarie titolari di questi crediti a rischio. Per ridurre le perdite, le banche cominciarono allora o a vendere i propri crediti ai risparmiatori (omettendo, ovviamente, di informarli della sostanziale inesigibilità dei titoli acquistati) o a collocarli direttamente all’interno dei fondi di investimento (approfittando dell’incapacità della maggior parte dei titolari di fondi di valutare la consistenza delle componenti del proprio piano d’investimento).
La conseguente «crisi da bolla» fu impressionante: il 10 agosto 2007, infatti, le borse europee annunciarono una perdita superiore a 200 miliardi di euro di capitalizzazione, nonostante i 95 miliardi prestati dalla BCE a 49 banche. Per fronteggiare la crisi dei mutui subprime negli USA, infatti, la Banca Centrale Europea (al pari di tutte le banche centrali del mondo) cominciò a immettere fondi in quantità straordinaria sul mercato e la FED (17 agosto 2007) abbassò il tasso di sconto dal 6,25% al 5,75%. A quel punto si verificò un «effetto domino»: la crisi finì per coinvolgere banche, fondi, hedge fund, enti locali statunitensi e investitori di tutto il mondo. Si manifestò, insomma, il circolo infernale insito nella finanza stessa: la ricerca del profitto impone di prestare per un multiplo delle proprie riserve, la vigilanza delle istituzioni di controllo impone (al contrario) di tener conto delle riserve e l’espansione della finanza offre espedienti per aggirare i controlli. È un sistema rischioso, ma è quello che, nello stesso 2007 della crisi dei subprime, ha permesso alla finanza statunitense di produrre il 40% dei profitti creati nel Paese impiegando solo il 5% della manodopera utilizzata dal settore privato.

Le materie prime
Il prezzo del petrolio (che nel 1999 costava 10 dollari al barile) varia in base al contenuto di zolfo e alla densità: il petrolio più pesante e ad alto contenuto di zolfo (come, ad esempio, quello venezuelano) costa di più perché ha bisogno di maggiori lavorazioni. Ma a decidere veramente il prezzo dell’«oro nero» sono le borse mondiali, le più importanti delle quali sono Wall Street (New York Stock Exchange) e Londra (London Stock Exchange): a New York si usa come riferimento il WTI (West Texas Intermediate, cioè il petrolio estratto nel Texas occidentale), mentre a Londra si usa il Brent (estratto nel Mare del Nord).
La valutazione di entrambi questi greggi viene fatta in dollari (dal momento che il dollaro è la moneta di riferimento per tutte le transazioni petrolifere) e, per fare un esempio, a Londra si trattano quotidianamente quantitativi di Brent 1000 volte superiori alla massima produzione di tutti i pozzi del Mare del Nord. Il prezzo del petrolio, insomma, da un lato viene controllato mediante i mercati finanziari (senza alcun rapporto con i costi effettivi di estrazione che, in Iraq, sono pari a 1,5 dollari a barile), dall’altro viene pagato con i dollari stampati dal governo statunitense.
Il dollaro, infatti, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è moneta di riserva (serve, cioè, a denominare i crediti sull’estero accolti nei bilanci delle banche centrali di tutti i Paesi). Ciò è avvenuto perché, a quell’epoca, gli USA erano l’unico Paese in grado di produrre ogni cosa, avevano una capacità di esportazione illimitata, registravano un grande avanzo nella bilancia dei pagamenti correnti e avevano una moneta convertibile in oro. Ora tali condizioni non sussistono più: in particolare, la convertibilità in oro è stata soppressa da un decreto presidenziale del 15 agosto 1971 e il deficit della bilancia dei pagamenti statunitense è ormai il più grande del mondo (ed è, oltretutto, «intrattabile», vale a dire non si riduce nemmeno di fronte a decise svalutazioni del cambio).
Il punto è che dal 1971 il sistema monetario internazionale è stato fondato, appunto, sul dollaro inconvertibile: ciò significa che gli USA sono l’unico Paese al mondo che non è tenuto a sottoporre la propria bilancia di pagamenti ai meccanismi di aggiustamento previsti dal FMI; e, dal momento che gli altri Paesi usano il dollaro come moneta di pagamento internazionale, è l’unico che può finanziare automaticamente il proprio deficit «catturando» le risorse prodotte dalle economie del resto del mondo.
Gli USA, insomma, riducono i tassi d’interesse (facendo salire il costo delle merci importate, diminuendo quello delle merci esportate, cercando di fronteggiare la recessione generata dalla crisi dei mutui e continuando a sostenere un sistema di consumi interni basato sull’indebitamento) e hanno un’enorme spesa pubblica (tesa a finanziare il complesso militare e industriale). Dal momento che non possono tagliare ulteriormente la spesa sociale (già enormemente ridotta) e non possono aumentare le tasse (per motivi di consenso), finanziano il debito accumulato (che è il più grande del mondo) non emettendo titoli di Stato (per rendere attraenti i quali sarebbero necessari tassi d’interesse elevati), ma stampando dollari, necessari al resto del mondo per acquistare petrolio. In tal modo, il mondo assorbe la massa monetaria emessa dagli USA, evitando a questi ultimi di rimanere avvinti in una spirale inflazionistica. Il petrolio consumato dagli USA (il 24% di quello estratto al mondo) viene pagato inoltre in titoli di Stato, che non vengono mai venduti (perché i possessori non vogliono che si svaluti il proprio patrimonio). Ma ormai, perché la FED riesca a mantenere bassi i tassi d’interesse e svalutare il dollaro, è necessario che il prezzo del petrolio aumenti.
Mentre l’euro si apprezza rispetto al dollaro, le valute dei Paesi emergenti competono sul mercato internazionale (delle materie prime, dei beni e del lavoro) mantenendosi ancorate al dollaro e tenendosi, così, artificialmente basse. Il risultato è che nei Paesi del Golfo cresce eccessivamente l’inflazione, in Cina crescono eccessivamente le riserve (in dollari) e dovunque i prezzi crescono eccessivamente rispetto al valore degli stipendi e dei patrimoni. Ma, in realtà, quando i prezzi aumentano spesso significa solo una cosa: che il valore dell’unità con cui i prezzi vengono misurati (vale a dire la moneta) scende.
Nel 2003 il grano costava 161 dollari alla tonnellata ed è salito a una media del 10% all’anno fino al 2006. A partire dall’inizio del 2007, la crescita è stata del 10% al mese ed è arrivato a costare più di 480 dollari con un aumento di oltre il 400% nell’arco del quinquennio. Il riso, nel 2000, costava 300 dollari alla tonnellata, oggi costa 800 dollari (quello di media qualità) e più di 1000 (quello aromatico di alta qualità). Attualmente, circa 25.000 persone al giorno muoiono di fame o per malattie correlate alla povertà.
Le cause dell’aumento delle materie prime per l’alimentazione sono molteplici: il prezzo del petrolio (che incide sui costi logistici e di trasporto), il gelo cinese, la siccità australiana, i parassiti del riso vietnamiti, la finanziarizzazione del mercato alimentare (registrato dal mercato delle commodities, che non corrisponde mai ai reali costi di produzione), il boom dei futures sui cereali (diventati «beni rifugio» dopo la crisi dei mutui e la caduta del mercato azionario), la riduzione delle terre coltivate e delle risorse idriche (consumate dall’industrializzazione), l’aumento del tenore di vita di parti consistenti di popolazione in Cina e in India e il conseguente mutamento delle abitudini alimentari (meno riso e più carne e, quindi, più cereali per l’allevamento), la corsa agli agro-carburanti, la modifica del modello di produzione agricola a favore dell’ortofrutta e a danno della coltivazione di cereali, i costi di intermediazione e distribuzione, la trasformazione delle agricolture di sussistenza in agricolture da esportazione.
Come ha ricordato il presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick: «l’aumento dei prezzi degli alimentari taglierà almeno sette anni sul cammino della riduzione della povertà». Nelle aree più povere del mondo il cibo rappresenta fino all’80% dei consumi della popolazione; si stima che nel 2007-2008 la bolletta alimentare degli 82 Paesi a basso reddito e importatori netti di generi alimentari abbia raggiunto i 33 miliardi di dollari e che le importazioni di tali Paesi abbiano subito un rincaro pari al 50%.
La FAO ha identificato 22 Paesi che dipendono doppiamente dall’estero (per i consumi alimentari e per quelli del petrolio) e in cui almeno il 30% della popolazione è sottoalimentata. La metà di questi Paesi si trova nell’Africa subsahariana; tra gli altri, ci sono la Cambogia, il Laos, la Corea del Nord e Haiti. Tutti i prodotti (tranne lo zucchero) che costituiscono il paniere del FAO Food Price Index sono aumentati. L’India, il Messico, l’Indonesia, il Marocco hanno ridotto o eliminato i dazi sull’importazione di alcuni prodotti; la Cina, l’Argentina, il Pakistan, l’Honduras hanno disincentivato o bandito l’esportazione di prodotti alimentari di prima necessità; Camerun, Ecuador, Perù hanno fissato prezzi politici per il pane o il riso. La crisi alimentare, prevedibile esito della «tempesta perfetta» scatenatasi a partire dalla crisi dei subprime, sfocerà in una rivolta della fame?

La lotta per il controllo delle risorse
Secondo un comunicato della marina statunitense «il 15% del petrolio importato dagli Stati Uniti proviene dal golfo di Guinea, regione ricca anche di altre risorse: nostro scopo è quindi stabilire un ambiente marittimo sicuro per permettere a tali risorse di raggiungere il mercato». La Nigeria, in particolare, è il Paese africano più ricco di petrolio, ma molti nigeriani non possono permettersi di acquistare il combustibile necessario e cercano di ovviare al problema rubandolo (forando gli oleodotti). L’80% di ciò che la Nigeria ricava dall’esportazione del petrolio finisce all’1% della popolazione del Paese e il 95% della produzione petrolifera nigeriana è controllato da poche multinazionali (tra cui la Shell, che ne controlla circa la metà). Il petrolio del Ciad, invece, viene esportato mediante un oleodotto che attraversa il Camerun ed è controllato da un consorzio internazionale capeggiato dalla ExxonMobil.
Il dominio delle multinazionali sul petrolio dell’Africa occidentale, però, è minacciato dalla ribellione delle popolazioni e dalla concorrenza cinese.
Oltre all’Africa occidentale, un’altra area strategica è quella del Corno d’Africa (all’imboccatura del Mar Rosso) che comprende Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia, Kenya e Sudan.
Il controllo delle risorse di queste vaste aree, all’indomani dell’indipendenza conquistata nella seconda metà del Novecento, ha portato a una lunga sequela di colpi di Stato, guerre civili, assassini di esponenti politici, secessioni, dittature, violenze e corruzione. È per questa ragione che, nel continente africano, operano circa cento imprese di sicurezza, impegnate nella protezione dell’attività di estrazione del greggio e dei diamanti. Al business della sicurezza, inoltre, si affianca quello del traffico di armi (sia legale che illegale) e il risultato di questa situazione è l’impressionante successione di guerre che devasta il continente africano: guerre estremamente concrete nelle loro motivazioni, ma sempre meno comprensibili agli occhi della distratta opinione pubblica occidentale.
Per quanto riguarda la Nigeria, la regione più «calda» è il Delta del Niger, quella in cui si concentra il maggior numero di pozzi petroliferi del Paese. Da anni i gruppi etnici degli ijaw e degli itsekiri combattono per ottenere una più equa distribuzione dei proventi petroliferi; ma la loro lotta, tuttavia, si inserisce in una situazione di illegalità diffusa, in cui migliaia di giovani armati e organizzati in gang si contendono il controllo del territorio e scatenano una serie di furti, azioni di contrabbando, agguati ai dipendenti e sabotaggi agli impianti, con il risultato di ridurre di circa il 25% i proventi delle compagnie petrolifere.
Per questo le autorità nigeriane, a partire dal 2004, hanno iniziato una serie di operazioni repressive rivolte contro le varie bande armate e, di conseguenza, contro le popolazioni civili. La situazione, resa ancor più problematica dalla continua esplosione di oleodotti, si complica ulteriormente con l’ingresso in scena dei ribelli del MEND (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger) che, inaugurando una serie di clamorosi rapimenti, riescono finalmente ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale (un po’ come è successo in Colombia con i rapimenti delle FARC e delle altre organizzazioni guerrigliere). La situazione nel Delta del Niger inizierà a sbloccarsi solo nell’aprile 2007, quando le elezioni porteranno alla presidenza del Paese Umaru Yar’Adua e alla vicepresidenza Goodluck Jonathan, appartenente all’etnia ijaw. Si tratta, infatti, dell’etnia a cui appartiene la maggioranza dei combattenti del MEND e degli abitanti del Delta del Niger.

Passando dall’Africa occidentale all’Africa centrale, un caso particolarmente emblematico è quello del Ciad. Il Paese, infatti, oltre ad avere la sfortuna di confinare con l’esuberante Sudan, dal 2000 ha anche quella di aver sviluppato un’intensa attività di estrazione petrolifera, con il risultato di subordinare alla ricerca dell’«oro nero» un’economia tradizionalmente basata sull’agricoltura (da cui continua a dipendere l’80% della popolazione).
I problemi del Ciad relativi alla contiguità con il Sudan, invece, risalgono al 2003: da quando, cioè, le autorità sudanesi hanno iniziato ad accusare il Paese centrafricano di appoggiare i ribelli antigovernativi (forse perché le milizie filogovernative amano sconfinare dal Sudan in Ciad allo scopo di attaccare i campi profughi).
Il 2003 è anche l’anno in cui, nel Sudan, alla quarantennale guerra civile tra il Nord musulmano e il Sud animista si aggiunge anche quella del Darfur, causata a sua volta dalla lotta tra popolazioni nomadi e popolazioni stanziali per il controllo delle scarsissime risorse di acqua e di terre coltivabili a disposizione. Anche il Sudan è «benedetto» dal petrolio, che, insieme al gas naturale, costituisce la sua principale fonte di esportazione; ma a causa della siccità, delle inondazioni, delle interminabili guerre civili e della carestia, il Paese costituisce, per il PAM e per l’UNICEF, una delle principali emergenze umanitarie del mondo.
Il Sudan, del resto, fa parte del Corno d’Africa, regione che ha l’invidiabile primato di essere una delle più povere e instabili del mondo e di figurare agli ultimi posti nella graduatoria dell’Indice di sviluppo umano. Nel caso del Corno d’Africa è proprio la scarsità di risorse a scatenare i conflitti, a cominciare da quello tra l’Etiopia e l’Eritrea per la conquista del proverbiale «sbocco sul mare».
A complicare la situazione, inoltre, la sfortunata regione africana ospita la Somalia: vale a dire uno dei tasselli della «guerra al terrorismo» statunitense (ben prima l’11 settembre) e sorta di «Afghanistan africano», con il suo perpetuo conflitto tra «califfati» islamici e spietati signori della guerra.
Ma la guerra forse più rappresentativa tra quelle combattute in Africa negli ultimi dieci anni è senz’altro quella che ha meritato il nome di «prima guerra mondiale africana»: si tratta di un conflitto, scatenatosi intorno alla Repubblica Democratica del Congo e incentrato sul controllo delle ingenti risorse della regione (coltan, uranio, rame, cobalto e legnami pregiati). La guerra, scoppiata come conseguenza della conquista del potere da parte di Laurent Kabila e conclusasi solo nel 2002, ha provocato più di 3 milioni di profughi e 3,3 milioni di morti (la maggioranza dei quali a causa delle carestie provocate dalla guerra).
Le armi ai miliziani sono state fornite dal Ruanda e dall’Uganda, mentre le forze governative congolesi sono state sostenute direttamente da Angola, Namibia e Zimbabwe e rifornite di armi da Stati Uniti, Francia, Cina, Corea del Nord, Georgia, Polonia e altri Paesi dell’Europa orientale. La «prima guerra mondiale africana», insomma, è l’espressione tipica dei tre grandi business africani: materie prime, fame e mercato delle armi.

La «guerra al terrorismo»
All’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, una nuova tipologia di guerra si aggiunge ai tradizionali conflitti locali per il controllo delle risorse: la «guerra al terrorismo». Si tratta di una guerra potenzialmente infinita, diretta contro un «nemico» sempre più impalpabile e caratterizzata dalla tendenza a far coincidere i propri «successi» con la creazione di una cronica instabilità nei Paesi interessati. L’aspetto paradossale della faccenda è che il fattore di instabilità introdotto e incentivato dalla guerra è proprio il nemico che la guerra si prefigge di sconfiggere: il terrorismo fondamentalista islamico.
Tutto comincia nel settembre 1996 quando i talebani (letteralmente «studenti» di scuole coraniche) conquistano Kabul, la capitale afghana. Fanatici, sostenitori di un islamismo fondamentalista, i talebani nascono durante la prima metà degli anni Novanta, quando l’Afghanistan, caduto il governo appoggiato dall’Unione Sovietica, piomba nell’anarchia più totale. Gli «studenti» intraprendono così una lotta serrata contro i «signori della guerra» che imperversano nel Paese e, appoggiati dal Pakistan, riescono a estendere gradualmente il controllo sull’Afghanistan.
Il loro movimento, dalla fine degli anni Novanta strettamente legato alla figura di Osama bin Laden (sceicco saudita leader dell’organizzazione terroristica internazionale di al-Qaeda), si distingue per l’intransigenza dei costumi (dettata dall’applicazione ferrea della sharia) ma anche per il divieto, sempre per motivi religiosi, della coltivazione di papaveri da oppio, tra le maggiori risorse economiche dell’Afghanistan. È per merito loro che, dalle 4000 tonnellate prodotte nel 2000 (circa il 70% della produzione mondiale), il Paese è passato alle sole 80 del 2001.
Di fronte all’avanzata dei talebani, gli USA di Clinton attuano una politica di non intervento e tale attendismo si spiega con il fatto che, all’epoca, gli USA hanno ben altro a cui pensare: appare all’orizzonte, infatti, una vera e propria rete terroristica internazionale, il cui obiettivo è attaccare sia i militari statunitensi presenti nei Paesi dell’Islam, sia i numerosi turisti occidentali. Questa rete afferma che «uccidere gli americani e i loro alleati, civili e militari» è «un dovere individuale per ogni musulmano che possa farlo in ogni Paese ove sia possibile, per giungere alla liberazione della moschea di Aqsa di Gerusalemme e della Sacra Moschea della Mecca».
A spiegare l’atteggiamento pacato degli USA nei confronti degli studenti coranici, tuttavia, c’è anche un altro motivo: pur nella loro medievale radicalità, infatti, i talebani rappresentano un insperato elemento di stabilità in Afghanistan. Si tratta, inoltre, di una stabilità particolarmente ben vista da parte delle imprese che operano nell’area, a cominciare dalla statunitense Unocal (che progetta di costruire un oleodotto in grado di trasportare il petrolio del Mar Caspio in un porto sicuro, scavalcando la Russia e aprendo così le repubbliche dell’Asia centrale al mercato USA).
Nell’agosto 1998, tuttavia, qualcosa si rompe: gli studenti coranici si rivelano partner commerciali tutt’altro che accondiscendenti e, per giunta, avviano trattative con l’opposizione guidata dal comandante Massud, creando così le condizioni per l’istituzione di un governo di unità nazionale sotto la mediazione ONU. I talebani, insomma, stanno iniziando a fare politica e, di conseguenza, gli USA cominciano a esplorare altre vie. In un suo articolo del dicembre 2000, Frederick Starr, presidente del Central Asia-Caucasus Institute, informa che funzionari governativi statunitensi, russi e indiani stanno incontrandosi «per discutere quale tipo di governo avrebbe dovuto rimpiazzare i talebani. […] Gli Stati Uniti ora parlano di rovesciare un regime che controlla quasi l’intero Paese, nella speranza che esso possa essere rimpiazzato da un ipotetico governo che non esiste nemmeno sulla carta».
Pochi giorni dopo George W. Bush viene dichiarato presidente degli Stati Uniti e, tra i suoi primi atti, spicca una serie di sanguinosi bombardamenti ai danni dell’Iraq: i raid vengono definiti dal neo presidente «un’azione di routine, necessaria per far rispettare a Saddam gli accordi presi nel 1991».
Contemporaneamente la stampa internazionale, fino a quel momento pochissimo interessata ai crimini compiuti dal regime talebano, esprime raccapriccio per la distruzione di due giganteschi Buddha della valle di Bamiyan. Pochi mesi dopo analogo raccapriccio verrà espresso a causa dell’irruzione di miliziani integralisti all’interno dell’ospedale Emergency di Kabul. Il 9 settembre, infine, un attentato kamikaze uccide il comandante Massud, facendo naufragare definitivamente la soluzione afghana caldeggiata dall’ONU.
Solo due giorni dopo scoppia l’inferno: 19 terroristi arabi dirottano tre aerei di linea e li usano come bombe contro il World Trade Center (cuore commerciale di New York) e contro il Pentagono. Si tratta del più grave attentato terroristico mai compiuto (le vittime sono quasi 3000), ma anche il più discusso, dal momento che non si farà mai chiarezza sull’effettiva ricostruzione dei fatti e sulle responsabilità dell’accaduto. Nei frenetici giorni che seguono l’attentato, la borsa di Wall Street verrà salvata dal crollo da consistenti (e redditizi) programmi di buy-back messi in atto dalle grandi aziende americane e, solo una settimana dopo il tragico 11 settembre, Bush sarà già in grado di lanciare l’operazione Enduring Freedom («libertà duratura») contro i misteriosi mandanti dell’attentato e contro i Paesi ritenuti loro fiancheggiatori. La «guerra al terrorismo», insomma, è cominciata.
Il primo obiettivo a essere colpito è proprio l’Afghanistan, reo di offrire protezione a Bin Laden. Il Paese verrà bombardato, occupato e sottoposto a un repentino cambio di governo, alla cui guida verrà messo il filo-statunitense Hamid Karzai. Il nuovo esecutivo, tuttavia, non arriverà mai ad assumere il controllo del Paese, che tornerà in gran parte nelle mani dei «signori della guerra» dell’alleanza del Nord. L’Afghanistan piomberà così in una situazione di guerra civile strisciante che dura tutt’oggi; centinaia di prigionieri, inoltre, verranno rinchiusi nel campo di concentramento di Guantanamo, destinato a diventare uno dei simboli della violazione sia della Convenzione di Ginevra, sia della giurisdizione ordinaria. In compenso, Osama bin Laden, obiettivo principale dell’aggressione, non verrà mai catturato e riparerà (così si sospetta) in Pakistan: vale a dire nel Paese che, al tempo stesso, è il principale alleato statunitense nell’area e il principale sostenitore del regime talebano*.

Ma non finisce qui. Il secondo obiettivo della «guerra al terrorismo» è l’Iraq. Si tratta di un Paese che con il terrorismo non pare aver nulla a che fare: ma gli USA sono convinti (a differenza degli ispettori ONU che sostengono l’esatto contrario) che il regime di Saddam Hussein dispone di armi di distruzione di massa. Per dar forza a questo assunto, Bush non esiterà a esibire dei documenti che, due anni dopo, si riveleranno essere dei clamorosi falsi. Ciò, tuttavia, basterà per riproporre anche in Iraq il copione seguito per l’Afghanistan.
E così, mentre il terrorismo internazionale fa la sua comparsa anche in Pakistan, in Tunisia e in Marocco (e mentre il prezzo del greggio schizza a 40 dollari al barile), il 20 marzo 2003 iniziano i bombardamenti sull’Iraq. Seguirà la «liberazione» del Paese, la messa di tutti i pozzi petroliferi sotto il controllo statunitense, la cattura e l’impiccagione di Saddam Hussein e il trascinamento dell’Iraq verso una situazione di terrorismo endemico che non avrà mai fine.
Il 3 dicembre 2007 Bush – a quanto pare non ancora pienamente appagato – rende noto che «l’Iran era pericoloso, è ancora pericoloso e sarà pericoloso se ha le conoscenze necessarie per fare un ordigno nucleare»: si prepara una terza fase della «guerra al terrorismo»? Per saperlo bisognerà aspettare le elezioni presidenziali statunitensi del novembre 2008, quando si fronteggeranno il candidato repubblicano John McCain e quello democratico Barak Obama. Che Dio (o Allah) ci protegga.

La questione mediorentale
L’integralismo islamico – nella sua duplice funzione di valvola di sfogo per problemi irrisolti e di alibi per limitare la sovranità nazionale in nome di una sempre più strabordante «guerra al terrorismo» – svolge il suo ruolo anche nella pluridecennale questione palestinese.
Nel marzo 1996, riprendendo in parte gli accordi di Oslo, Israele e OLP firmano un trattato che prevede sia il riconoscimento dello Stato d’Israele, sia quello del diritto a uno Stato indipendente per la Palestina. Ciò, però, non è sufficiente a fermare né i sanguinosi attentati in Israele, né gli insediamenti colonici a Gerusalemme (considerati illegali dall’Assemblea generale dell’ONU ma portati avanti pervicacemente dal governo Netanyahu).
In ogni caso, il 15 ottobre 1998, prendono ufficialmente il via i negoziati miranti al rilancio degli accordi di Oslo II e, pochi giorni dopo, viene finalmente raggiunto uno storico patto: gli israeliani promettono di ritirarsi dal 13% della Cisgiordania e l’ANP si impegna ad adottare tutti i provvedimenti possibili per contrastare efficacemente il terrorismo. Quando, però, nel maggio 1999 il governo israeliano passa nelle mani dei laburisti di Ehud Barak, il processo di pace si arena di nuovo: il ritiro israeliano dai territori occupati, infatti, si ferma a metà (a causa del proseguimento degli attentati), le questioni aperte (alture del Golan, Gerusalemme, rientro dei profughi palestinesi) rimangono tali, il governo Barak assiste impotente a continue defezioni (fino a rimanere con soli 42 seggi su 120), Hamas rifiuta imperterrito ogni ipotesi di cessate il fuoco e il vertice di Camp David (11 luglio 2000) si conclude con un nulla di fatto. Nell’arco di pochi anni, insomma, due governi – di colore opposto – vedono crollare i propri consensi a causa del loro impegno nel processo di pace. In casi del genere la politica, in Israele come altrove, ha l’abitudine di tirar fuori dal taschino un «uomo forte»: e, nel caso israeliano, quest’uomo si chiama Ariel Sharon.
Fiero oppositore di ogni processo di pace (sia di quello tentato da Rabin, sia di quello portato avanti da Netanyahu) e responsabile della strage di Sabra e Chatila del 1982, Sharon si propone ora come l’oppositore ufficiale degli Accordi di Oslo e attua una plateale «passeggiata» nella Spianata delle Moschee (accompagnato da mille uomini armati): tale gesto verrà premiato dagli elettori israeliani (che, nel 2001, consegneranno a Sharon la guida del governo) e spingerà i palestinesi a dare vita alla «Seconda Intifada» (così chiamata per distinguerla dalla prima grande sollevazione palestinese del 1987, che proprio gli Accordi di Oslo avevano contribuito a placare).
La situazione, tra attentati palestinesi e rappresaglie israeliane, precipita e il 28 marzo 2002 Sharon lancia l’operazione «Muraglia di difesa», nella quale saranno nuovamente occupate tutte le città della Palestina e verrà raso al suolo il quartier generale di Arafat. Inizia così il declino dello storico leader palestinese, che si troverà sempre più stretto tra due opposte accuse: quella israeliana (e statunitense) di non fare abbastanza per frenare gli attentati e quella di Hamas di essere troppo arrendevole nei confronti delle pretese israeliane. Una volta isolato Arafat, il secondo passo del governo Sharon è quello di isolare letteralmente i palestinesi, mediante la costruzione di un muro difensivo lungo 350 km in grado di circondare tutta la Cisgiordania, Gerusalemme compresa.
La costruzione del muro viene giustificata con la volontà di contenere gli attentati: ma gli attentati continuano lo stesso e, tra le organizzazioni terroristiche, iniziano ormai a farsi strada i fondamentalisti della Jihad islamica. Il 28 gennaio 2003 Sharon ottiene la riconferma del mandato e, due mesi dopo, sale alla guida dell’ANP il suo omologo palestinese Abu Mazen: si occuperà di ordine pubblico, sicurezza nazionale e finanze, mentre ad Arafat resteranno le responsabilità della difesa e della diplomazia. Abu Mazen si rivelerà l’interlocutore giusto per rilanciare il processo di pace?

I tentativi in tal senso ricominciano nell’aprile, con la stesura da parte del cosiddetto «quartetto» (Kofi Annan, segretario generale dell’ONU; Colin Powell, segretario di Stato degli Stati Uniti; Javier Solana, rappresentante dell’Unione Europea; Igor Ivanov, ministro degli Esteri russo) dell’ennesimo piano volto a risolvere l’annosa questione palestinese. La «road map», così viene chiamato il nuovo progetto, fa così il suo ingresso nel mondo della diplomazia, accompagnato dall’immancabile teoria di attentati e rappresaglie a cui il Medio Oriente è purtroppo abituato. Secondo un collaudato schema, tuttavia, anche in questo caso i buoni propositi diplomatici finiranno per essere superati dai fatti politici. Come gli Accordi di Oslo erano svaniti di fronte al protagonismo di Sharon (che riuscì a interpretare la volontà di gran parte dell’opinione pubblica israeliana, arrivando a tirare dalla propria parte anche lo storico leader laburista Shimon Peres), così le ambizioni della «road map» finiranno per ridimensionarsi di fronte a due eventi prettamente politici: la spaccatura all’interno dell’ANP (fatale esito dalla politica di «divide et impera» propugnata da Sharon) e la crisi libanese (che finirà per creare, una volta venuta meno la «tutela» siriana sul Libano, uno scenario completamente nuovo).

La radicalizzazione del contrasto tra Fatah e Hamas nell’ambito di ANP scorre parallela al riacutizzarsi della crisi libanese. All’indomani della mai del tutto chiarita morte di Arafat (11 novembre 2004), Abu Mazen assume la presidenza dell’ANP, Hamas trionfa alle elezioni amministrative nella striscia di Gaza e il nuovo esecutivo Sharon ottiene la fiducia dal Parlamento israeliano; contemporaneamente (14 febbraio 2005) viene assassinato a Beirut l’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, con modalità tali da lasciar supporre il coinvolgimento nell’attentato da parte dei servizi segreti libanesi e siriani. Nel maggio, il secondo turno delle elezioni municipali palestinesi consegna la Cisgiordania a Fatah, creando una contrapposizione tra le due regioni dell’ANP; contemporaneamente le elezioni libanesi si concludono col trionfo del fronte anti-siriano guidato da Saad Hariri, figlio dello scomparso Rafiq.
Nell’estate inizia il controverso piano di evacuazione delle colonie israeliane dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania; contemporaneamente inizia il ritiro delle truppe siriane dal Libano, Fuad Siniora (ex dirigente del gruppo Citybank di Beirut e amministratore dell’impero economico di Rafiq al-Hariri) assume l’incarico di primo ministro e Israele inizia a bombardare il Libano, allo scopo di annientare il gruppo armato sciita Hezbollah. Nei mesi seguenti, sia in Palestina, sia in Libano inizierà una scomoda coabitazione tra filo-occidentali (il presidente dell’ANP Abu Mazen e quello libanese Hariri) e integralisti islamici (il premier palestinese Ismail Haniyeh e il presidente del Parlamento libanese Nabih Berri).
Tale polarizzazione porterà, in entrambi i casi, al fallimento dei governi di coalizione, all’esplosione di una guerra civile strisciante e alla trasformazione della dialettica politica in una faccenda di «ordine pubblico»: se in Palestina, infatti, i trasferimenti dei fondi fiscali e gli aiuti internazionali verranno limitati alla fazione «moderata» rappresentata da Abu Mazen (istituendo un embargo di fatto nei confronti dell’«integralista» Gaza), in Libano la resa dei conti giungerà con il terribile assedio da parte dell’esercito di Nahr al Bared, campo profughi palestinese dove un gruppo di miliziani islamisti aveva creato la propria roccaforte.
Il futuro della Palestina e del Libano, insomma, viene sempre più deciso altrove.

Dal Plan Colombia al bolivarismo
Abbiamo visto come, in Africa e in Medio Oriente, la lotta per il controllo delle risorse si svolga tuttora attraverso il collaudato strumento della guerra. Per quanto riguarda, invece, l’America Latina la situazione è un po’ più complessa. Il continente sudamericano, infatti, esce da un lungo periodo di spietate dittature, sostenute e foraggiate alla luce del sole da parte degli Stati Uniti. Durante gli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, la spregiudicatezza dell’uso statunitense del proprio «cortile di casa» ha raggiunto livelli tali di efferatezza da rendere necessario il passaggio a una gestione più «morbida» delle sovrabbondanti e appetitose risorse sudamericane. È avvenuto così che al nefasto Plan Condor che ha insanguinato gli anni Settanta e Ottanta si sia sostituito un nuovo «plan», in grado di perseguire gli stessi obiettivi in maniera più politically correct: stiamo parlando, ovviamente, del Plan Colombia.
Il piano viene proposto per la prima volta nel 1998 dal neoeletto presidente colombiano Andrés Pastrana e viene ufficialmente lanciato nel 2000 da Bill Clinton in un celebre discorso tenuto a Cartagena. Il progetto, che si prefigge di contrastare la coltivazione e il traffico di coca nel Paese, parte dall’assunto che la Colombia sia la principale causa dell’instabilità del continente sudamericano.
Il governo colombiano, infatti, è in grado di controllare solo la parte centrale del Paese, quella centrata sulla coltivazione del caffè, sull’approvvigionamento dell’energia idrica, sull’industria agraria e dei minerali e sulla gestione degli aeroporti e dei porti internazionali. Le altre zone della Colombia, invece, sono tutte in mano alle organizzazioni guerrigliere (FARC, ELN) e paramilitari (AUC) e, per giunta, si autofinanziano soprattutto con la coltivazione e il traffico di coca.
Il Plan Colombia, dunque, mira a due obiettivi: creare le condizioni per il cosiddetto «sviluppo regionale alternativo» (vale a dire, l’apertura del mercato locale alle imprese statunitensi); e utilizzare la lotta al narcotraffico per sottrarre risorse alle forze insurrezionali (FARC), redistribuendole ai gruppi istituzionali e filo-statunitensi (AUC e, in parte, ELN). A tale scopo si cerca in tutti i modi di rendere organiche alle forze armate le formazioni paramilitari «amiche», tanto da far dire al leader delle AUC Carlos Castaño: «Adesso passiamo dallo stato di amante a quello di sposa».

Una versione assai somigliante al Plan Colombia è quella varata nel gennaio 2008 in Messico, Paese che condivide con la Colombia un governo di centro-destra, la presenza massiccia di multinazionali occidentali operanti nel settore agro-alimentare, le pessime condizioni di vita delle classi contadine e delle popolazioni indie, il progressivo impoverimento dei ceti medi e la presenza di industrie nazionali ancora da privatizzare (a partire dalla compagnia petrolifera Pemex). Il Plan Colombia in sala messicana si chiama «Iniziativa Mérida» e porta nelle casse del governo Calderon 500 milioni di dollari offerti dall’amministrazione Bush: serviranno sia per l’acquisto di armamenti, elicotteri da combattimento e tecnologia avanzata finalizzata a operazioni di spionaggio; sia per l’addestramento di poliziotti messicani e contractors statunitensi. L’obiettivo è contrastare i cartelli del narcotraffico (soprattutto quelli operanti alla frontiera con gli USA) e, in generale, rafforzare la lotta al terrorismo e soddisfare la richiesta di sicurezza pubblica.
La politica statunitense nel Sud America, tuttavia, non si limita agli accordi bilaterali, semplificati dai casi colombiano e messicano: l’atto più rappresentativo in tal senso operato dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio è stato infatti il tentativo di costituire un’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA). Si tratta dell’avvio di complicate trattative, che coinvolgono 34 Paesi e che mirano al progressivo abbattimento delle barriere commerciali tra le nazioni del continente americano (con l’esclusione di Cuba).
Nell’ambito delle discussioni sviluppatesi nei round negoziali dell’ALCA, i principali motivi di contrasto sono quelli che oppongono gli Stati Uniti (propensi a tagliare le tariffe sui prodotti manifatturieri e agricoli e a innalzare le barriere commerciali su servizi e proprietà intellettuali) al Brasile (impegnato nella difficile impresa di assecondare l’apertura dei mercati e, al tempo stesso, difendere il proprio ruolo di potenza regionale nell’ambito dell’economia sudamericana).
La minaccia più seria al raggiungimento degli obiettivi dell’ALCA, tuttavia, non è rappresentata dal Brasile, ma dall’Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA). Si tratta di un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica che all’impostazione neoliberista dell’ALCA contrappone l’identificazione di ambiti di interesse comuni che consentano di coalizzarsi per superare le storiche diseguaglianze che pongono in svantaggio le nazioni povere rispetto alle grandi potenze economiche. Al progetto dell’ALBA, nato originariamente da un accordo bilaterale tra Venezuela e Cuba, hanno aderito anche Bolivia, Nicaragua e Dominica, mentre l’Ecuador si è finora limitato a firmare un semplice impegno per una adesione futura.

Per capire in concreto cosa significhi cooperazione dal punto di vista «bolivarista», possiamo confrontare due diversi tipi di politiche di integrazione regionale: quella promossa nel 2007 dal Brasile e quella portata avanti nello stesso periodo dal Venezuela. Nel primo caso, il presidente brasiliano Lula ha promosso un accordo tra la compagnia statale messicana Pemex e la transnazionale brasiliana Petrobas per l’esplorazione e lo sfruttamento petrolifero nelle acque del golfo del Messico. Il Brasile, inoltre, mira alla creazione di un vero e proprio mercato mondiale di agrocombustibili, coinvolgendo nel progetto il Messico, la Giamaica (dove è stato installato un impianto giamaico-brasiliano per la disidratazione dell’etanolo), l’Honduras e Panama (che ha firmato un accordo per lo sviluppo di combustibili a partire dalla canna da zucchero).
Dal canto suo, invece, il presidente venezuelano Chavez ha firmato un importante accordo con l’Argentina, che prevede la costruzione di un impianto di rigassificazione a Bahia Blanca e l’impegno, da parte del Venezuela, di acquistare titoli del debito argentino (l’Argentina, dopo il default del 2001, è stata esclusa dal credito internazionale). Analoghi accordi sono stati stipulati con l’Uruguay (allo scopo di garantirgli l’approvvigionamento energetico nel lungo periodo), con l’Ecuador (per la costruzione di una raffineria) e con la Bolivia (per creare l’impresa petrolifera Petroandina). A coronamento del progetto «bolivarista», infine, il 3 novembre 2007 è nato il Banco del Sur, sorta di Fondo Monetario Sudamericano di cui faranno parte Venezuela, Argentina, Brasile, Ecuador, Uruguay, Paraguay e Bolivia.
I tempi in cui l’America Latina era il «cortile di casa» degli USA, insomma, si stanno facendo sempre più lontani.

L’incognita dei Balcani
Le guerre di cui abbiamo parlato fino ad ora (e di cui parleremo in seguito) si inseriscono all’interno di quella che rappresenta, con ogni probabilità, l’evento principale degli anni Novanta: la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia. Questa storica trasformazione ha provocato, allo stesso tempo, un rafforzamento degli Stati Uniti come potenza globale; un superamento del bipolarismo a favore dell’emergere di numerose potenze regionali, spesso fornite di armi nucleari; e la redifinizione del ruolo della NATO, sempre più tendente ad autorappresentarsi come organismo super partes impegnato nella gestione di conflitti di portata sia locale che globale.
La guerra della NATO contro la Serbia (prima operazione militare avviata dall’Alleanza Atlantica contro uno Stato indipendente e causa principale del definitivo crollo del regime di Milosevic) è stata, senza ombra di dubbio, il banco di prova di questa «nuova dottrina NATO».
L’aggressione militare alla Serbia del 1999 prende le mosse da una questione annosa: quella kosovara. Il conflitto tra serbi e albanesi nel Kosovo era iniziato nel 1913, come conseguenza della Conferenza di Londra (che, a conclusione della prima guerra balcanica, aveva assegnato la provincia balcanica alla Serbia). Gli albanesi del Kosovo si trovarono così a passare da una sudditanza non particolarmente esaltante (quella, cioè, esercitata dall’Impero ottomano) a una nuova (decisamente oppressiva e caratterizzata da una decisa strategia di «pulizia etnica») rappresentata dal dominio serbo.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Kosovo finì prima sotto l’occupazione italiana e poi sotto quella tedesca; in quegli anni, la pulizia etnica cambiò di segno e iniziò ad accanirsi contro le popolazioni di etnia serba. Fu solo con l’inizio dell’era titina che il Kosovo riuscì a ottenere il sospirato status di provincia autonoma; negli anni Ottanta, però, con la morte di Tito e l’affermarsi del nuovo astro della politica jugoslava Slobodan Milosevic, finì per perderlo di nuovo.
Giungiamo così al 1996, quando la questione kosovara assiste a una importante svolta: fa la sua apparizione, infatti, l’UCK. Si tratta di un vero e proprio esercito di liberazione, che inizia ad attuare efficaci operazioni di guerriglia e riesce a porsi sin da subito come scomodissimo ostacolo rispetto alle pretese panserbe avanzate da Milosevic.
È solo nel marzo 1998, tuttavia, che la situazione diventa veramente esplosiva: in quei giorni, infatti, scatta l’intervento delle forze speciali della Federazione e iniziano i violenti rastrellamenti dei villaggi a maggioranza albanese. La situazione kosovara attira così l’attenzione della «comunità internazionale», che si materializza in tre entità: Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, «Gruppo di Contatto» e NATO. Il primo, salomonicamente, impone un embargo alla fornitura di armi sia alla Federazione Jugoslava, sia all’UCK; il secondo (formato da Germania, Francia, Italia, Stati Uniti e Russia) infligge sanzioni, un po’ meno salomonicamente, unicamente alla Federazione; la NATO, infine, fa il suo ingresso nella crisi kosovara all’indomani del raggiungimento dell’importante accordo di ottobre.
Quest’ultimo, grazie agli sforzi diplomatici del mediatore statunitense Richard Holbrooke, era riuscito a ottenere il ritiro delle truppe serbe e l’invio di osservatori OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) con il compito di monitorare le operazioni di rientro dei profughi. Tutto bene, dunque? No, perché, a quel punto, il «contributo» della NATO al faticoso processo di pace si palesa nella minaccia di bombardamenti in caso di violazione degli accordi da parte serba e (a scanso di equivoci) nell’invio di 1700 soldati in Macedonia, allo scopo ufficiale di proteggere gli osservatori internazionali. L’effetto del rumoroso ingresso della NATO all’interno del processo diplomatico sarà, come era facile prevedere, la ripresa dei combattimenti nel Kosovo.
È a quel punto che la pluridecennale questione kosovara finisce per partorire una delle più brevi conferenze di pace della storia: la Conferenza di Rambouillet, infatti (così detta dal castello parigino che ospita le trattative) inizia il 6 febbraio 1999, si interrompe il 23 febbraio, ricomincia il 17 marzo e si conclude definitivamente il giorno dopo. Il motivo principale del fallimento della conferenza è da ricercarsi, con tutta probabilità, in due circostanze: la prima è che il piano di pace su cui le trattative vengono impostate è stato elaborato da quello stesso «Gruppo di Contatto» che si era distinto per l’imposizione di sanzioni a una sola delle parti in conflitto; la seconda è che, per tutta la durata della conferenza, Stati Uniti e UCK (sotto la guida di Hashim Thaci) non faranno altro che invocare come risolutivo l’uso della forza. Inizia così un’implacabile escalation: il 19 marzo (il giorno dopo il fallimento delle trattative) comincia il ritiro degli osservatori OSCE; il 23 marzo il segretario generale della NATO Javier Solana autorizza l’attacco; il 24 marzo cominciano i bombardamenti, che dureranno ben 78 giorni.

In quei due mesi e mezzo, nel Kosovo, accadrà di tutto. Da un lato le milizie serbe si abbandoneranno a feroci operazioni di pulizia etnica ai danni delle popolazioni albanesi, creando una situazione di obiettiva emergenza umanitaria. Dall’altro i bombardamenti NATO inizieranno a inanellare una sconcertante serie di «errori», colpendo frequentemente obiettivi non militari: un treno carico di passeggeri in transito per la Serbia, una colonna di profughi albanesi, la sede della televisione pubblica di Belgrado, un pullman carico di civili, innumerevoli centrali elettriche, l’ambasciata cinese, persino un ospizio. Sin dall’aprile, inoltre, cominceranno a trapelare informazioni circa l’uso da parte delle forze dell’Alleanza di munizioni a uranio impoverito (sostanza radioattiva e fortemente tossica).

L’offensiva, in ogni caso, porta, nel giugno, a un accordo che prevede lo sgombero dal Kosovo delle truppe serbe e la loro sostituzione con un contingente formato da 50.000 uomini e posto sotto il comando di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia (vale a dire, i membri NATO del «Gruppo di Contatto»). È solo a questo punto che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approva una risoluzione che legittima a posteriori l’intervento della NATO nel Kosovo e istituisce un protettorato internazionale incaricato di costruire e gestire l’amministrazione civile della regione. Pochi giorni dopo (mentre affluiscono nel Kosovo le truppe KFOR e rientrano i profughi di etnia albanese che si erano rifugiati in Albania, Macedonia e Montenegro) decine di migliaia di serbi e rom iniziano a fuggire dalla regione, per scampare alle operazioni di «contropulizia etnica» messe in atto dall’UCK.
L’esercito di liberazione kosovaro, infatti, lungi dall’aver riconsegnato le armi, sta cercando di assumere il controllo effettivo della regione. E ci riuscirà.
Nel novembre 2007, infatti, la paziente mediazione delle Nazioni Unite volta a definire lo status del Kosovo subirà un’improvvisa accelerazione: la formazione nel Kosovo di un governo di larga coalizione guidato dall’ex capo guerrigliero Hashim Thaci porrà le basi per la proclamazione unilaterale dell’indipendenza del Kosovo. Quest’ultima verrà prontamente riconosciuta dai cinque membri NATO del vecchio «Gruppo di Contatto» e, al contrario, fortemente osteggiata da Spagna, Grecia, Cipro, Romania, Russia e Cina.

La Russia di Putin
Come abbiamo visto, la Russia, unico membro del «Gruppo di Contatto» estraneo alla NATO, è anche il solo Paese del sestetto a opporsi strenuamente alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte del Kosovo. Le motivazioni di questa opposizione vanno cercate sia nella comprensibile ostilità, da parte russa, nei confronti delle strategie messe in atto dalla NATO; sia nel timore dei disastri che il «modello kosovaro» potrebbe innescare una volta esportato al di fuori dei confini balcanici.
La Russia, infatti, è da tempo alle prese con la «patata bollente» della Cecenia, combattiva repubblica autonoma che, dal 1994, combatte praticamente senza interruzioni contro le truppe federali e contro le milizie dell’opposizione filo-russa. Dal 1999, in particolare, grazie all’attivismo del leader separatista Shamil Basayev – che, nell’agosto dello stesso anno, ha proclamato nel Daghestan uno Stato islamico indipendente – il nazionalismo ceceno ha assunto una sempre più spiccata connotazione terroristica.
L’escalation islamico-terrorista del separatismo ceceno, però, coincide con la nomina a premier russo di Vladimir Putin: e l’ex dirigente dei servizi segreti (che, nel 2000, subentrerà a Eltsin nella carica di presidente federale) ha deciso, sin dal suo insediamento alla guida del governo, di mettere la questione cecena in cima alla propria agenda. Ciò, per Putin, significa sottoporre Grozny, la capitale cecena, a un lungo assedio che se da un lato porterà le truppe ribelli ad abbandonare la città (febbraio 2000), dall’altro guadagnerà alla Russia vibrate denunce da parte dell’associazione americana per la tutela dei diritti umani Human Right Watch, a causa delle violenze e atrocità commesse dalle truppe federali.
La «liberazione» di Grozny, tuttavia, non significa la sconfitta della guerriglia cecena che, al contrario, prosegue imperterrita la propria attività terroristica: gli episodi più eclatanti saranno la strage del teatro Dubrovka dell’ottobre 2002 (amplificata da un devastante intervento delle forze speciali russe), l’assassinio del presidente ceceno Akhmad Kadyrov (maggio 2004) e la strage di Beslan del settembre 2004 (anch’essa provocata dal blitz delle forze speciali). Tale frenetico attivismo dei separatisti viene contrastato dal governo russo con la forza bruta, ma anche con sottigliezze politiche: come quella che, nel marzo 2003, convincerà gli elettori ceceni a rinunciare alla secessione in cambio di maggiori autonomie e finanziamenti. Ciò non toglie che la strategia decisiva per sconfiggere il terrorismo ceceno rimarrà quella degli «omicidi mirati»: dell’ex presidente Ashlan Maskhadov (marzo 2005), del leader ceceno Abdul-Malik Saidullaiev (giugno 2006), della «primula rossa» Shamil Basayev (luglio 2006), della coraggiosa giornalista russa Anna Politkovskaya (ottobre 2006) e dell’ex spia dissidente Aleksandr Litvinenko (novembre 2006).
Sarebbe ingiusto, tuttavia, ridurre la Russia di Putin alla repressione cecena e all’impressionante sequela di «misteriosi» omicidi politici. Il «piccolo zar», infatti, ha saputo trasformare un Paese devastato da una spaventosa crisi finanziaria e a serio rischio di perdita di sovranità nazionale (a causa degli ingenti prestiti ottenuti dal FMI e dalla Banca Mondiale) in una vera e propria superpotenza regionale. La strategia adottata per raggiungere tale risultato si è centrato su una serie di spregiudicate manovre economiche, istituzionali e politiche.
Il primo passo è stato garantirsi il sostegno del predecessore Eltsin, accusato di riciclaggio, assicurandogli l’impunità con il decreto del dicembre 1999 (intitolato Sulle garanzie riguardanti il precedente presidente della Federazione Russa e per i membri della sua famiglia). Il secondo, una riforma costituzionale volta a ridurre sensibilmente i poteri delle 89 regioni e repubbliche russe, sottoponendole a un rigido controllo federale. Il terzo, l’avvio di una lotta senza esclusione di colpi (con una spiccata predilezione per i colpi di dubbia legalità) contro le oligarchie economiche sorte all’indomani del collasso dello statalismo sovietico e prosperate all’epoca di Eltsin (è questo il periodo in cui la City londinese comincia a riempirsi di politici e oligarchi russi caduti in disgrazia).
Il risultato è il raggiungimento di un ferreo controllo statale sulle risorse energetiche che, a partire dall’impennata dei prezzi di petrolio e gas verificatasi nel 2000, trasformerà la Russia in una vera e propria cassaforte dotata di un corteggiatissimo «fondo sovrano». Il quarto aspetto della strategia putiniana è consistito, invece, nel sistematico boicottaggio delle politiche legate alla «nuova dottrina NATO» e all’allargamento dell’Alleanza Atlantica, al fine di garantirsi uno spazio d’azione esente dall’ingombrante interventismo statunitense. In tal modo, la Russia riuscirà ad assumere atteggiamenti tipici di una superpotenza: opposizione all’aggressione dell’Iraq del 2003 e alla pretesa di abolire le sanzioni all’indomani dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein; storico viaggio di Putin in Medio Oriente (2005); uscita dal trattato NATO contro la proliferazione di armi convenzionali in Europa (2007); opposizione al progetto statunitense di scudo spaziale.
L’ultimo passo (effettuato in vista dell’insediamento del fedelissimo ex presidente di Gazprom Dmitrij Medvedev al Cremlino e del conseguente passaggio di Putin alla guida del governo) è consistito, infine, nella fulminea approvazione di una serie di leggi volte a rafforzare i poteri del primo ministro a scapito di quelli riservati al presidente.

L’America di Bush
Dopo aver esaminato il ruolo degli Stati Uniti nello scenario creatosi all’indomani del collasso del sistema bipolare, passiamo ora a un aspetto dell’amministrazione Bush che non abbiamo ancora preso in considerazione: la politica interna. La presidenza Clinton – che ha potuto giovarsi sia della fine della guerra fredda, sia dell’esplosione della «new economy» – è stata caratterizzata da un periodo di spiccata crescita e da una politica economica che, centrata sulla diminuzione della spesa militare e sull’aumento della pressione fiscale, ha permesso di giungere nel 2000 a una riduzione del debito pubblico.
L’America di Bush, invece, riceve in eredità lo scoppio della bolla speculativa, registra il crack di Enron e di Worldcom, e, come abbiamo visto, si trova coinvolta, all’indomani dell’11 settembre, in una sempre meno gestibile «guerra al terrorismo». Di conseguenza l’amministrazione Bush finisce per produrre una politica economica di segno totalmente opposto rispetto a quella clintoniana. Ciò che il nuovo presidente offre, infatti, sono tagli fiscali, generalmente riservati alle fasce più ricche della popolazione; un aumento vertiginoso delle spese militari; un debito pubblico vicino ai 9000 miliardi di dollari; un forte disavanzo della bilancia commerciale; un finanziamento del debito col debito, attraverso una politica di continui ribassi dei tassi d’interesse. Si tratta, insomma, di una politica espansiva, tradizionale risposta alle fasi recessive (come quella, appunto, che si è aperta nel 2001).
In ogni caso, oltre che all’enorme budget militare, alle politiche fiscali (spesso definite dai critici «donazioni regressive») e all’elevato servizio del debito, le spese dell’amministrazione Bush finiscono soprattutto in due settori: negli ingenti aiuti offerti alle nazioni amiche (come nel caso dei sostegni offerti al Messico, al processo di democratizzazione in Georgia e alla «rivoluzione arancione» ucraina) e nel finanziamento delle ricerche dedicate alla fusione a freddo dell’atomo e alle fonti energetiche alternative.
Per quanto riguarda invece il finanziamento del sistema di Welfare, la tendenza di Bush è quella di incoraggiare, nei limiti del possibile, soluzioni legate al mercato. Quando, ad esempio, nell’ottobre 2007, il Congresso approva una legge che estende a tutti i bambini americani il programma pubblico per l’assistenza sanitaria, il presidente pensa bene di porre il veto. La legge era concepita in modo da permettere l’accesso alla sanità pubblica anche ai bambini appartenenti a famiglie che hanno redditi superiori, anche se di poco, alla soglia di povertà: redditi, cioè, troppo «alti» per accedere al programma pubblico Medicaid ma, al tempo stesso, troppo bassi per potersi permettere il costo di un’assicurazione medica.
La filosofia di Bush, invece, è quella di limitare al massimo l’intervento dello Stato in queste faccende e di utilizzare, al contrario, gli strumenti offerti dal sistema assicurativo. In particolare, per migliorare un sistema che, obiettivamente, finisce per negare un’adeguata assistenza sanitaria a gran parte della classe lavoratrice statunitense, l’amministrazione Bush propone: di creare raggruppamenti di piccole aziende allo scopo di ottenere dalle compagnie assicurative gli stessi sconti concessi alle grandi imprese; di fornire ai lavoratori delle piccole imprese crediti fiscali per incentivare il ricorso alle assicurazioni; e, soprattutto, la possibilità di conservare la polizza anche se si perde il lavoro.
La soluzione proposta da Bush è, sulla carta, estremamente suggestiva e perfettamente in linea con l’american way of life. Il problema è che andrebbe applicata a un Paese in preda alla recessione; dove tendono ormai a ridursi sia l’afflusso di capitali stranieri, sia i consumi interni; dove l’industria delle costruzioni (motore dell’economia statunitense) si sta fermando; dove, per la prima volta dall’epoca della grande depressione, il tasso di risparmio delle famiglie è andato in negativo; dove l’uragano Katrina ha scoperchiato di fronte al mondo intero la povertà endemica di cui si nutre la più grande potenza economica del mondo.
Un altro dei numerosi paradossi dell’America di Bush sta, infine, nel fatto che essa, pur rappresentandosi come garante dell’ordine mondiale ed esportatrice di democrazia, tende a porsi sistematicamente al di fuori del comune sentire del resto del mondo: rifiuta, infatti, di ratificare il trattato di Ottawa sulle mine anti uomo; non accetta la giurisdizione della Corte penale Internazionale dell’Aja (che persegue i crimini di guerra, di genocidio e contro l’umanità); ritira la propria adesione al Trattato anti missili balistici del 1972; rifiuta la ratifica al protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di gas serra; taglia i fondi per la ricerca scientifica; impone restrizioni negli studi sulle cellule staminali; si guadagna una petizione da parte di 5000 scienziati che accusano Bush di diminuire le protezioni ambientali al fine di agevolare le richieste delle lobbies industriali.
Bizzarrie di una superpotenza, si dirà. Ma, in un mondo sempre più multipolare, anche le superpotenze diventano meno potenti. E, nel XXI secolo, il colosso statunitense non dovrà confrontarsi solo con la Russia e con gli ex Paesi emergenti diventati ormai giganti, ma anche con un nuovo protagonista dell’economia e della politica contemporanea: l’Unione Europea.

La nascita dell’eurozona
In un mondo ideale, caratterizzato da una libera e spensierata concorrenza, la moltiplicazione di «locomotive» dello sviluppo sarebbe una buona cosa. Nel mondo reale, purtroppo, la situazione è un po’ diversa: quando, infatti, gli USA costituivano l’unico motore della crescita, era sufficiente che l’economia statunitense entrasse in fase recessiva per ottenere, nel mondo industrializzato, una contrazione della domanda e una conseguente riduzione dei prezzi. Attualmente, invece, alla locomotiva USA si sono affiancate le economie dell’euro e quelle dei Paesi di recente industrializzazione (Brasile, India, Cina, Russia). Il risultato è la stagflazione: non basta più, cioè, frenare la domanda (stagnazione) perché i prezzi smettano di crescere (deflazione). La conseguenza è semplice e disarmante: non si riesce più a far scendere i prezzi delle materie prime.
Che fare? Per adesso, come al solito, ognuno va in ordine sparso: i Paesi poveri, che avrebbero bisogno di controllare le proprie importazioni e aumentare le proprie esportazioni, si trovano in una situazione difficilissima; i Paesi di recente industrializzazione, al contrario, prosperano accumulando all’interno dei propri preziosi fondi sovrani le riserve ottenute con le esportazioni; gli USA, grazie alla politica espansiva portata avanti dalla FED, riescono a consumare quantità crescenti di merci di importazione, producendo una mole di servizi sia per il mercato interno, sia per il resto del mondo e permettendo la crescita delle esportazioni e dell’accumulazione di riserve in dollari da parte dei Paesi emergenti.

E l’Europa? Al contrario degli USA, attua una politica deflattiva e – diversamente da Paesi come la Cina, l’India, il Brasile e il Giappone – espone la propria moneta a un’eccessiva rivalutazione sul dollaro, con il rischio che gli USA abbandonino le merci europee a favore di mercati più convenienti dal punto di vista dei cambi. Di fronte a una situazione del genere, all’Europa non rimane altro che cercare di rivalersi, in qualche modo, sui Paesi emergenti. È quello che è avvenuto sia con i negoziati per la liberalizzazione degli scambi tra Paesi europei, Mercosur e Cile; sia, soprattutto, con l’accordo di partnenariato tra UE e i Paesi dell’ACP (Africa, Caraibi e Pacifico), cha ha posto le basi per l’avviamento di un round negoziale sui cosiddetti EPA (Economic Partnership Agreement). L’idea è semplice: consiste, in pratica, nell’abolizione, da parte dei Paesi ACP, di qualunque dazio a protezione dei propri prodotti, con il risultato di produrre effetti tutt’altro che esaltanti. Secondo uno studio delle Nazioni Unite, infatti, si stima che l’applicazione degli EPA porterebbe il Burundi a perdere 19 milioni di entrate (pari al 3% del PIL nazionale) e il Kenya a perderne ben 300.

L’economia dell’euro, dunque, si preannuncia sin dal suo esordio come particolarmente ingombrante. All’interno dei membri dell’eurozona, d’altronde, si trova di tutto: potenze nucleari (Francia) e industriali (Germania), economie entrate nell’euro per il rotto della cuffia e a prezzo di un dimezzamento del potere d’acquisto dei propri cittadini (Italia e Portogallo), paradisi fiscali (Lussemburgo, Malta e Cipro), Paesi cresciuti e prosperati all’ombra del marco (Slovenia), piccole economie destinate a diventare sempre più grandi (Irlanda e Spagna), Paesi balcanici che hanno deciso di adottare unilateralmente la nuova valuta (Kosovo e Montenegro). Particolarmente singolare, inoltre, è la vicenda relativa ai tassi di cambio con il dollaro. Al momento della sua introduzione, infatti, l’euro valeva 1,18 dollari; di lì a poco, tuttavia, la valuta europea prese a scendere, provocando prima un intervento in sua difesa da parte dei ministri delle Finanze del G8 (settembre 2000) e raggiungendo poi il suo minimo storico nel luglio 2001 (0,84 dollari).
A quel punto (in coincidenza sia dell’emergere degli scandali Enron e Worldcom, sia dell’inaugurazione di un’inflessibile politica deflattiva da parte della BCE) iniziò un’inarrestabile risalita che avrebbe portato l’euro a toccare, nel luglio 2008, la quotazione di 1,6038 dollari. La cosa più paradossale della vicenda è che, nonostante questo rivoluzionamento dei tassi di cambio, il dollaro continua a ricoprire il suo ruolo di valuta di riserva e i Paesi europei continuano a pagare petrolio e materie prime in dollari.
Per questo motivo la politica di alti tassi d’interesse della BCE viene frequentemente criticata (a cominciare dal presidente francese Sarkozy che, nel luglio 2007, ha chiesto espressamente «che venga fatto con l’euro ciò che fanno gli americani col dollaro, i cinesi con lo yuan, i giapponesi con lo yen, gli inglesi con la sterlina»). Tuttavia, alla luce del repentino balzo dell’inflazione a cui l’eurozona ha assistito all’indomani dello scoppio della crisi dei subprime, l’ossessione deflazionista della BCE non sembra più tanto ingiustificata.

In ogni caso, non è solo l’euro a diventare sempre più forte: anche l’Unione Europea diviene sempre più affollata. Nel maggio 2004, infatti, dieci nuovi Paesi membri fanno il loro ingresso (Slovenia, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Malta, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania e Repubblica Ceca); nel gennaio 2007 ne entrano altri due (Romania e Bulgaria); e altri sette sono in attesa di essere ammessi (Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Turchia). Con poche eccezioni, insomma, tutto il blocco del fu «socialismo reale» è passato dall’altra parte, sposando l’economia di mercato, entrando nella NATO e mettendo a disposizione dell’economia «globalizzata» un mercato incredibilmente variopinto: si passa, infatti, dai 32.343 euro di PIL pro capite dell’Irlanda ai 6997 della Romania (dove, con gioia dei patiti delle delocalizzazioni, il salario medio non arriva ai 300 euro mensili).

Grande varietà, grandi dimensioni e grandi problemi: da quelli relativi alla legislazione sulle biotecnologie, alle questioni etiche innescate da pratiche come la clonazione, la fecondazione eterologa e le ricerche sulle staminali; dalle normative sugli OGM alla necessità di fronteggiare le conseguenze di un’attività agricola eccessivamente industrializzata (morbo della «mucca pazza» e afta epizootica); dalle difficoltà di mettere d’accordo tutti sul testo di Costituzione europea (contestata sia da chi lamenta l’assenza di riferimenti all’«identità cristiana» dell’Europa, sia da chi rileva la carenza di «clausole sociali») al problema dell’immigrazione. Ed è forse questa la questione più delicata che si trova a dover affrontare l’Europa nel nuovo millennio: una massa di migranti sia interni al mezzo miliardo di cittadini UE, sia esterni (i cosiddetti «extracomunitari», condannati quasi sempre a restare eternamente «clandestini»).
La questione tocca vari aspetti – economici, giuridici, culturali, religiosi – e, di fatto, ogni Paese europeo la affronta inseguendo criteri e priorità diverse (dall’esigenza di manodopera alla cosidetta «insicurezza percepita» dai cittadini autoctoni): nel giugno 2008, tuttavia, il Parlamento europeo ha approvato una «Direttiva Rimpatri» che stabilisce durata massima di detenzione nei centri di permanenza temporanea e criteri relativi alle espulsioni.
Il commento sulla Direttiva rilasciato da Irene Khan, segretaria generale di Amnesty International, è durissimo: «Desidero ricordare ai governi europei che se una persona è priva di documenti, ciò non significa che sia anche priva di diritti. I diritti umani spettano a ogni essere umano, a prescindere dal suo status legale: i richiedenti asilo politico in fuga dalla persecuzione hanno il diritto a chiedere asilo, i migranti hanno il diritto di essere trattati umanamente e con dignità».

Tre nuovi giganti: Cina, India e Brasile
Abbiamo già avuto modo di osservare come, accanto alla nascita dell’eurozona e del conseguente «euro forte», l’altro elemento che caratterizza lo scenario delineatosi negli ultimi dieci anni risieda nell’eccezionale crescita di quattro economie «emergenti»: Brasile, Russia, India e Cina. In un suo rapporto del 2003, la banca d’affari statunitense Goldman Sachs ha coniato l’acronimo BRIC per indicare l’insieme di questi quattro Paesi, in grado ormai di raccogliere l’8% delle risorse economiche globali, il 45% della forza-lavoro del pianeta e il 25% del PIL mondiale.
Se dalla fotografia dello stato attuale si passa poi alle stime di crescita future, le previsioni dicono che entro il 2050 queste quattro nazioni, pur rallentando gli attuali ritmi di sviluppo, arriveranno a ricoprire il 40% dell’economia mondiale, mettendo a disposizione dei Paesi della «triade» (Europa, USA e Giappone) una quantità enorme di mercati e risorse finanziarie. Tre dei quattro Paesi BRIC, inoltre, siedono come membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: il Brasile nelle vesti di maggior economia del continente sudamericano; la Russia come nucleo centrale dell’ormai collassato sistema sovietico; la Cina in virtù del fatto che, da sola, costituisce il 9% delle esportazioni mondiali e il 7,4% delle importazioni.
L’India, unico Paese del gruppo a essere escluso dal supremo organo dell’ONU, può consolarsi con il fatto di appartenere a un altro «club» molto esclusivo: quello atomico, nel quale è riuscita a entrare senza nemmeno il fastidio di firmare il trattato di non proliferazione.

Pur nella sua suggestività, tuttavia, il termine BRIC si riferisce a realtà economico-sociali molto differenti tra loro: se Brasile e Russia, infatti, provengono da una devastante crisi finanziaria (frutto, a sua volta, della crisi asiatica del 1997), Cina e India si caratterizzano proprio per il fatto di essere rimaste estranee a quella crisi, traendo da questo scampato pericolo le condizioni per il loro successivo sviluppo. Se Brasile e Russia, inoltre, esercitano la loro leadership essenzialmente a livello di superpotenze regionali, Cina e India, al contrario, traggono la loro importanza nel ruolo, squisitamente economico (e precedentemente ricoperto dal Giappone), di guida del processo di sviluppo asiatico. È arrivato perciò il momento di esaminare, come abbiamo già fatto con la Russia, le peculiarità degli altri tre nuovi «giganti» dell’economia mondiale.
Uscito da 25 anni di dittatura, il Brasile fonda nel 1991 (insieme ad Argentina, Paraguay e Uruguay) il Mercosur, mercato comune del Sudamerica (nel quale entreranno in seguito anche Venezuela, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador e Perù). All’interno dell’economia sudamericana il Brasile ricopre un ruolo decisamente dominante: basti pensare, infatti, che il 77% del PIL complessivo dei Paesi fondatori del Mercosur proviene proprio dal gigante carioca.
La supremazia brasiliana nel continente deriva dall’ampio spazio dato all’agricoltura e alle piantagioni (a prezzo di una radicale deforestazione), dallo spiccato sviluppo delle telecomunicazioni e della tecnologia e dalle ingenti risorse naturali, che permettono al Paese di puntare con decisione sull’esportazione di un’ampia gamma di prodotti: caffè, cacao, soia, mais, canna da zucchero, bovini, oro, argento, ferro, acciaio e petrolio.

A causa, tuttavia, dell’alto costo del lavoro, dell’elevato prelievo fiscale e della pesantezza (e corruzione) della burocrazia, l’interesse principale suscitato dal Brasile nei confronti degli investitori internazionali si riduce essenzialmente all’elevata capacità di esportare biocombustibili, soia e minerali. Il Paese, inoltre, è afflitto da profonde disparità economico-sociali: il 29,3% dei brasiliani vive al di sotto della soglia di povertà e si concentra soprattutto o nelle favelas delle metropoli o nelle regioni, particolarmente povere, del Nord e del Nordest. L’1% dei proprietari, inoltre, possiede il 40% dei terreni coltivabili e il 22% delle terre disponibili è utilizzato per l’allevamento da parte dei grandi possidenti.
La povertà, per giunta, ha anche una connotazione razziale: un brasiliano nero, infatti, guadagna in media la metà di un bianco e il 65% della popolazione povera è costituita da meticci (contro il 36% di bianchi). La situazione, purtroppo, non è cambiata di molto nemmeno con l’avvento alla presidenza del Paese dell’ex sindacalista Luiz Inacio Lula da Silva, nonostante nel suo programma spicchino priorità come la riforma delle pensioni e il programma «Fame Zero».
Gravi diseguaglianze, sia geografiche che sociali, caratterizzano anche il tumultuoso sviluppo registrato da Cina e India, anche se, rispetto al Brasile, è meno forte l’ostacolo rappresentato dalla struttura fondiaria di derivazione coloniale e dalla storica sudditanza nei confronti del potere di «persuasione» esercitato dalle multinazionali.
Resta il fatto, però, che, al pari di tutte le rivoluzioni industriali, anche quella riguardante «Cindia» (per usare un neologismo reso popolare da un bel saggio di Federico Rampini) si basa essenzialmente sull’utilizzo del basso costo del lavoro: tale circostanza, se da un lato crea le condizioni per l’integrazione all’interno dell’economia globale, dall’altro non può che moltiplicare le sacche di povertà, analfabetismo e denutrizione.

L’India è il secondo Paese più popoloso del mondo, la quarta potenza mondiale in termini di potere d’acquisto e la seconda a più rapida crescita. Lo sviluppo ha preso il via nei primi anni Novanta, quando il Paese è entrato nel WTO, ha abbandonato la politica dei piani quinquennali e ha inaugurato un massiccio programma di privatizzazioni, aprendosi al mercato internazionale, attirando investimenti esteri e aumentando sensibilmente sia le esportazioni, sia le importazioni. Il risultato è stato un netto incremento del settore industriale, soprattutto nei campi siderurgico, tessile, automobilistico, farmaceutico e aeronautico. Il settore, però, in cui l’India ha raggiunto risultati veramente eccezionali è stato quello della produzione di software, con il conseguente proliferare di server e filiali (call center e attività di gestione di banche e assicurazioni) operanti per le aziende di tutto il mondo.
Tale primato dell’India nella «new economy» viene (oltre che, ovviamente, dal basso costo del lavoro) dalla diffusa conoscenza della lingua inglese e dal buon tasso di istruzione tecnico-scientifico della popolazione indiana: tali fattori hanno fatto sì che molte aziende anglo-americane (a cominciare dalla Microsoft) abbiano scelto di delocalizzare nel Paese asiatico. Lo svantaggio di questo modello di sviluppo sta nel fatto che la maggior parte di imprese operanti in India (e, di conseguenza, il grosso delle esportazioni) sono straniere; il vantaggio, invece, sta nell’incremento dei livelli salariali e, soprattutto, nello sviluppo di competenze tecnologiche che ha permesso fenomeni come Bangalore (sorta di Silicon Valley indiana) e Tata Motors (che, quotata in borsa nel 2004, quattro anni dopo ha iniziato a distribuire i prestigiosi marchi Ford e Jaguar).

Se il «boom» indiano prende il via negli anni Novanta, quello cinese risale almeno a dieci anni prima e si muove su un piano complementare rispetto a quello seguito dall’India: se, infatti, quest’ultima, fornisce al mercato globale soprattutto operatori al software e laboratori di ricerca, la Cina si è affermata come vera e propria «fabbrica del mondo», specializzata, ormai, nel settore della costruzione di prodotti high-tech. Ciò ha permesso al Paese, nell’arco di pochi decenni, di liberare circa 300 milioni di persone dalla morsa della miseria, avviandole verso una condizione di sostanziale benessere. Il prezzo di questo sviluppo, tuttavia, non è stato indolore: in seguito, infatti, alla liberalizzazione del commercio della soia (tributo pagato dalla Cina in cambio del suo ingresso nel WTO), ben 200 milioni di cinesi sono stati costretti ad abbandonare le campagne; e, se prima del 2000 la Cina era uno dei maggiori produttori mondiali di soia e dei suoi derivati, ora deve importarli quasi interamente dal Brasile, mentre la produzione interna supersite è ormai controllata all’80% dalle multinazionali statunitensi del settore.
Il problema veramente cruciale creato dall’impetuoso sviluppo asiatico di questi ultimi decenni, tuttavia, è un altro: il pianeta (sempre più afflitto da scarsità di fonti energetiche e materie prime) sarà in grado di far posto ad altri tre miliardi di persone intenzionate a produrre e a consumare a livello occidentale? Sarà sufficiente un riorientamento dei modi di produzione verso modelli di maggiore compatibilità ambientale? Auguriamoci di sì. Perché, in caso contrario, l’esito più probabile sarebbe il «rimedio» più antico del mondo: la guerra.

L’Asia tra democrazia e sviluppo
In ogni caso, anche se foriero di pesanti incognite sul futuro, il continente asiatico resta pur sempre quello che, a livello mondiale, è stato in grado di mostrare maggiore vitalità, sia dal punto di vista economico, sia da quello politico. Per esprimere la peculiarità del «modello» asiatico, Bruce Cumings ha elaborato il concetto di «Stati di sviluppo burocratici autoritari»: con questa espressione, lo studioso statunitense si riferisce a sistemi di sviluppo che non possono essere ricondotti né allo Stato liberale classico, né a quello pianificatore di tipo sovietico.
Si tratta, al contrario, di governi fortemente centralizzati, che riservano alle masse sia un rigido sistema di gestione poliziesco, sia una politica di diffusa istruzione secondaria: l’obiettivo è l’ottenimento di un clima permanente di mobilitazione volto a creare le condizioni per una concentrazione del capitale e una sua redistribuzione alle industrie nascenti (a loro volta protette da politiche commerciali neomercantiliste).
A partire dal secondo dopoguerra, questo sviluppo accelerato, coordinato centralmente dalle politiche statali, ha attraversato il continente asiatico secondo un modello di propagazione che ricorda, per usare la suggestiva immagine utilizzata da Kaname Akamatsu, la formazione di volo delle oche selvatiche (flying geese model): partendo dal Giappone (l’unico Paese non occidentale ad avere partecipato alla rivoluzione industriale sin dall’Ottocento), si è passati prima ai Paesi dell’Asia orientale (Corea del Nord, Taiwan, Singapore), poi a quelli del Sud Est asiatico (Malesia, Thailandia, Indonesia), per concludere il «volo» con l’ultima ondata, quella, cioè, che ha interessato la Cina e l’India.

In ogni fase, i Paesi che hanno raggiunto un livello superiore passano le attività a minore valore aggiunto alle «oche» dell’ondata successiva (vale a dire, ai Paesi meno sviluppati, dove il costo del lavoro è minore). In questa suddivisione del lavoro regionale, insomma, ogni ondata si allinea rispetto al livello superiore e l’onda alla guida dell’intero «stormo», a sua volta, si allinea rispetto al centro dello sviluppo globale, in attesa di giungere essa stessa a occupare, un giorno, tale posizione centrale.
Il deficit di democrazia sociale e politica che il mondo occidentale (non sempre disinteressatamente) imputa all’Asia, va dunque collocato all’interno di un modello di sviluppo che, come si è visto, è tutt’altro che caotico. I famosi «paradossi» dell’Asia, insomma, diventano molto meno paradossali se rapportati ai passi da gigante che, in così poco tempo, il continente più popoloso del mondo ha saputo compiere.
Un altro aspetto che salta agli occhi se si guarda alla politica interna dei Paesi asiatici è che, con l’importante eccezione del Pakistan (che – per motivi geografici, storici e ideologici – è rimasto pesantemente coinvolto all’interno della «guerra del terrorismo»), tutti gli altri Stati del continente asiatico hanno saputo mantenere un’olimpica e invidiabile estraneità rispetto ai conflitti globali che hanno caratterizzato il decennio iniziato con l’11 settembre.
Ciò è avvenuto perché, come nota Philip S. Golub, «dopo la lunga parentesi dell’imperialismo, l’Asia sta ritrovando, oggi, il suo posto nell’economia politica internazionale – il posto che aveva occupato prima della rivoluzione industriale europea –, ma in un contesto radicalmente nuovo, perché, ora, l’integrazione della regione nell’economia internazionale non è più coercitivamente imposta dall’esterno, ma voluta dagli stessi Paesi asiatici». È questo il motivo per cui (a differenza di quello che è accaduto per la cosiddetta «prima guerra mondiale africana» e per le questioni balcanica e palestinese) i pur numerosi conflitti asiatici tendono a non esorbitare dai conflitti nazionali, evitando di acquistare una ingovernabile dimensione regionale.

Ciò permette, pur tra mille difficoltà, la possibilità di convogliare i conflitti verso una possibile soluzione. È quello che è successo con la ricomposizione dei rapporti tra le due Coree; con il superamento della crisi nucleare che ha opposto la Corea del Nord alla inflessibile «comunità internazionale»; con la caduta del regime di Suharto in Indonesia; con il riconoscimento dell’indipendenza di Timor Est; con l’avvio di un faticosissimo processo di pacificazione (purtroppo interrotto) tra il governo dello Sri Lanka e le Tigri Tamil; con la «seconda rivoluzione del popolo» (che ha portato, nelle Filippine, alla caduta di Joseph Estrada e alla sua sostituzione con Gloria Arroyo); con il ruolo che, all’interno dell’indifendibile regime birmano, continua a svolgere la coraggiosa Nobel per la pace Aung San Suu Kyi; con la capacità della Thailandia (liberatasi di un ingombrante premier in lampante conflitto di interessi) di sfidare sia «Big Pharma», sia il commissario europeo al Commercio estero Peter Mandelson con una legge che permette al Paese di accedere ai farmaci necessari per curare l’AIDS e le cardiopatie; con l’abbattimento, in Nepal, della monarchia e con l’apertura, per i ribelli maoisti, delle porte del parlamento.

Un caso a parte, come si è accennato, è quello del Pakistan. Legato, da interessi contrapposti, a realtà difficilmente conciliabili (Stati Uniti, Arabia Saudita e integralisti provenienti dalle madrase e dal movimento dei talebani) il Paese ha superato la crisi istituzionale scoppiata tra il presidente Leghari e il premier Sharif mediante un colpo di Stato attuato dal generale Pervez Musharraf (settembre 1999). Il nuovo regime, tuttavia (sempre più impegnato nel tentativo di conciliare protagonismo dei militari, diffusione dell’integralismo religioso e ruolo di «gendarme» richiesto dalla situazione venutasi a creare dopo gli attentati dell’11 settembre) è ben presto ripiombato in una nuova crisi istituzionale: quella che oppone il presidente golpista e la Corte Suprema, guidata da Iftikhar Muhammad Chaudhry.
L’esito della nuova crisi è stato devastante: sospensione della costituzione, proclamazione dello stato d’emergenza, dimissioni forzate per Chaudry e assassinio della coraggiosa ex premier Benazir Bhutto, da poco rientrata in patria per partecipare alle elezioni presidenziali del gennaio 2008. Già scampata a un altro attentato (nel quale erano morte 138 persone) la Bhutto non aveva esitato a indicare nei servizi segreti pakistani i mandanti dell’atto terroristico.

L’Italia dell’Ulivo
Dopo questa veloce (e necessariamente incompleta) carrellata sugli eventi di portata mondiale che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, torniamo in Italia e occupiamoci di cosa è avvenuto nella politica italiana dalle elezioni del 1996 in poi. Il 21 aprile 1996 l’Ulivo, la coalizione di centro-sinistra guidata da Romano Prodi, vince le elezioni politiche. Il mese successivo l’ex presidente dell’IRI formerà il nuovo governo e annuncerà un ambizioso piano di riforme destinato, però, ad applicarsi a un’Italia abissalmente lontana rispetto ai parametri di Maastricht: il deficit, infatti, è al 10% del PIL, l’inflazione è vicina al 4% e il debito pubblico è ormai al 120%. Ciò nonostante, il governo si mette al lavoro, con l’obiettivo di garantire, nel 1999, l’ingresso nell’eurozona: viene imposta la tassa straordinaria per l’Europa; il ministero del Tesoro mette all’asta il pacchetto di maggioranza del Banco di Napoli, prontamente acquistato da BNL e INA; viene emanata la cosiddetta «Direttiva Prodi», finalizzata al risanamento economico delle Ferrovie dello Stato; viene costituita la Borsa Italiana S.p.A.
Tanta frenetica attività porta, l’8 febbraio 1997, a un primo successo: l’Eurostat, infatti, attesta un miglioramento del bilancio pubblico dello Stato italiano, che ha chiuso il 1996 con un rapporto deficit/PIL del 6,8%. Rinfrancato da questo primo risultato, il governo continua la sua corsa contro il tempo, approvando gli incentivi per la rottamazione delle auto, ottenendo dalla Banca d’Italia l’abbassamento del tasso di sconto, creando le premesse per la privatizzazione di Telecom, ratificando il Trattato di Amsterdam. A questo punto, con il raggiungimento del secondo traguardo (l’ammissione dell’Italia agli accordi di Schengen) inizia il rush finale: viene firmato il Patto di stabilità, lanciata la «riforma Prodi» sulle pensioni, introdotta l’IRAP, avviata la riorganizzazione degli esercizi commerciali, riformata la pubblica amministrazione. Gli sforzi del governo, alla fine, vengono premiati: il 25 marzo 1998 (a dispetto di un debito pubblico che continua a destare preoccupazione) l’Italia viene infatti ammessa tra i Paesi che nel 2002 daranno vita alla moneta unica. L’importante traguardo è stato raggiunto non perché, d’incanto, i conti pubblici siano tornati in ordine, né perché l’economia abbia ripreso un qualche slancio: ma per la buona volontà dimostrata.
L’Italia, infatti, ha mantenuto un saldo attivo del bilancio di parte corrente, ha accelerato la riduzione del debito, ha partorito un documento di programmazione economica e finanziaria in cui promette di ridurre ulteriormente il debito pubblico entro il 2001 e, soprattutto, ha garantito che continuerà a privatizzare.
Ma, nel frattempo, il Paese ha perso settori importanti della propria industria: gran parte del settore alimentare è finito in mani straniere; quello dell’elettronica e dell’informatica manca decisamente di slancio; in quello della chimica di base e fine è rimasta solo l’Enichem. La FIAT si sta preparando all’alleanza strategica con la General Motors e, ormai, il grosso dell’industria italiana è rappresentata da Pirelli-Telecom, ENI ed ENEL. Il 90% degli esercizi manifatturieri è costituito da micro-imprese fortemente esposte alla concorrenza dei Paesi emergenti e, tra il 1997 e il 1998, le esportazioni del made in Italy sono state nettamente inferiori a quelle dei principali Paesi membri della UE.
Le industrie italiane, inoltre, sono poco sviluppate nei settori ad alta specializzazione, fanno largo uso dello strumento della delocalizzazione e investono pochissimo. Il risultato è che il saggio di crescita del PIL italiano è inferiore rispetto alla media europea e l’Italia è ultima, tra i Paesi dell’OCSE, per produttività, export, ricerca, innovazione, tecnologia, investimenti e infrastrutture.

Durante la sua corsa contro il tempo per entrare nell’eurozona, il governo Prodi ha dovuto fare i conti con i problemi derivati dall’imposizione europea delle quote latte, con le baruffe sorte all’interno del «duopolio» televisivo, con i disastri provocati dai terremoti del settembre 1997 e del novembre 1998, con i pruriti secessionisti della Lega, con la protesta degli olivicoltori, con l’incapacità di far fronte agli obiettivi prefissi dal Protocollo di Kyoto, con l’inarrestabile offensiva della criminalità organizzata, con le resistenze corporative opposte ai pur timidi tentativi di liberalizzazione degli esercizi commerciali, con i 159 morti provocati dalla frana di Sarno, con l’«emergenza» immigrazione.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, il governo vara, nel marzo 1998, la legge Turco-Napolitano che si propone di regolamentare il flusso migratorio dall’estero favorendo l’immigrazione regolare e nello stesso tempo ostacolando quella clandestina. Sul fronte del lavoro, invece, il governo si attiva sia nella lotta alla disoccupazione nel Mezzogiorno (prevedendo incentivi fiscali per le aziende del Sud disposte ad assumere), sia in quella che si rivelerà essere la soluzione più gettonata ai problemi dell’occupazione e del costo del lavoro: l’invenzione e regolamentazione delle forme di «lavoro atipico». Si comincerà nell’aprile 1998 (con la firma del primo contratto collettivo nazionale per i «co.co.co») e si proseguirà nel maggio 1999 (con la stipula del contratto per i lavoratori interinali) e nel luglio dello stesso anno (con la regolamentazione dell’utilizzo del lavoro temporaneo nei settori del terziario, dei servizi e della grande distribuzione).

Ma, assieme a quello economico, il campo in cui l’azione del governo Prodi mostrerà maggiore incisività sarà quello delle riforme istituzionali: capitolo che era già stato aperto con le riforme elettorali del 1993 e del 1995 e che sarà destinato a trasformare la politica italiana in un laboratorio permanente di riforme costituzionali. L’obiettivo è la modifica della Costituzione, sia per ampliare l’applicazione del sistema federalista, sia per riformare altri aspetti dell’ordinamento costituzionale (come il sistema di elezione del presidente della Repubblica e le prerogative dei due rami del Parlamento). Per far ciò, tuttavia, è necessario raggiungere un ampio grado di condivisione e aprire una sorta di fase costituente. È per questo che, il 18 luglio 1996, la Camera dei deputati approva una risoluzione con cui stabilisce di istituire una Commissione bicamerale volta ad apportare modifiche alla seconda parte della Costituzione.
La Bicamerale, come tutti finiranno per chiamare la commissione, verrà istituita ufficialmente il 22 gennaio 1997 sotto la presidenza del segretario del PDS Massimo D’Alema. Verrà divisa in quattro comitati e inizierà i lavori il 5 febbraio: suo compito sarà l’elaborazione di un progetto di riforma riguardante la forma di Stato, la forma di governo, il rapporto tra i due rami del Parlamento e la funzione degli istituti di garanzia.
L’impresa, conoscendo la politica italiana, si preannuncia subito come titanica e la Bicamerale, nel 1998, finirà per essere affossata. Tuttavia, sarà proprio sulla bozza da essa prodotta che, con le leggi costituzionali del 1999 e del 2001, si perverrà alla completa modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione.
Il risultato sarà l’avviamento del decentramento dei poteri a favore delle regioni, prevedendo l’elezione diretta del presidente della giunta regionale, il potere di nomina e revoca degli assessori da parte del «governatore», la clausola per cui (in caso di sfiducia da parte del Consiglio regionale) debbano essere indette nuove elezioni, la possibilità da parte delle singole regioni di dotarsi autonomamente di un proprio statuto e, in complesso, maggior potere legislativo e autonomia finanziaria alle regioni.
Il 6 ottobre 1998, intanto, il venir meno dell’appoggio esterno di Rifondazione provoca la caduta del governo Prodi. Gli subentrerà un esecutivo guidato da Massimo D’Alema e di cui farà parte anche una delegazione del PdCI, appena nato in seguito a una scissione da Rifondazione. Il governo D’Alema sarà il governo della guerra del Kosovo; del ritorno di Alitalia alla redditività (ma anche dell’inaugurazione ufficiale dello scalo di Malpensa); dell’abolizione dell’equo canone; dell’«irresistibile» scalata di Telecom da parte di Roberto Colaninno; della liberalizzazione del mercato elettrico e di quello del gas; del ritorno delle BR (che, il 20 maggio 1999, assassineranno il consulente del ministero del Lavoro Massimo D’Antona); delle incentivazioni per i medici che scelgono di esercitare la libera professione all’interno delle strutture pubbliche; del decreto sull’autonomia didattica delle università; della riforma sui cicli scolastici; dell’introduzione del principio del «giusto processo»; della legge sulla parità scolastica.

L’avventura del governo D’Alema si conclude il 20 aprile 2000 quando, in seguito alla pesante sconfitta del centro-sinistra nelle elezioni amministrative, l’ex segretario del PDS rassegnerà le dimissioni. Benché il centro-destra italiano invochi le elezioni anticipate, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi decide di incaricare Giuliano Amato di formare un nuovo esecutivo e il «dottor Sottile», al quale vengono richiesti tempi brevissimi, annuncia l’intenzione di presentare un governo in grado di durare fino alla fine della legislatura e di portare a termine le riforme iniziate dal governo D’Alema. Entrambe le promesse verranno mantenute: il governo non solo durerà fino alla fine, ma riuscirà anche ad approvare (nell’ultimo giorno utile) la definitiva riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione.
Una volta compiuta l’opera – mentre la compagnia aerea olandese KLM annuncia la rottura dell’accordo economico con Alitalia e l’IRI viene posto definitivamente in liquidazione – sarà lo stesso Amato ad annunciare il nuovo candidato premier del centro-sinistra per le prossime elezioni: il sindaco di Roma, Francesco Rutelli.

L’Italia di Berlusconi
La candidatura Rutelli, tuttavia, non ha fortuna e il 13 maggio 2001 le elezioni vengono vinte dallo schieramento di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi. Il primo importante appuntamento di rilevanza internazionale del nuovo esecutivo è il vertice del G8, che si svolge a Genova in un tripudio di misure di sicurezza. Tali misure, tuttavia, non solo non riusciranno a impedire le provocazioni dei «black block» (che, sostanzialmente indisturbati, si abbandoneranno a una serie di atti vandalici); ma porteranno a un’azione repressiva da parte delle forze dell’ordine le quali, paradossalmente, si accaniranno contro i manifestanti autorizzati e pacifici. Questi ultimi verranno duramente caricati (fino al tragico epilogo dell’assassinio del giovane Carlo Giuliani) e, una volta fermati, verranno sottoposti a una serie di vere e proprie torture. In seguito, tali abusi verranno sottoposti a giudizio, ma (a causa del cronico contrasto tra i lunghi tempi processuali e i, relativamente, brevi tempi di prescrizione) si avvieranno al destino di rimanere, con tutta probabilità, impuniti.
Chiusa ingloriosamente la parentesi del G8, il governo verrà travolto dalla nuova strategia di «ingerenza umanitaria», che porterà l’Italia a partecipare alle missioni afghana e irachena, a gestire una delicatissima escalation militare, a rimanere coinvolta in gravi episodi di extraordinary rendition (come nel caso del rapimento dell’imam di Milano Abu Omar) e a pagare un consistente tributo di sangue sia da parte di militari (basti pensare alla strage di Nassiriya) che civili (come stanno a testimoniare i numerosi, e spesso tragici, casi di rapimenti avvenuti in terra irachena).
Ma l’Italia di Berlusconi non è solo quella dell’inedito e consistente impegno bellico: è anche quella dello storico passaggio della lira all’euro (con l’inevitabile strascico di polemiche circa le responsabilità del disastroso calo del potere d’acquisto); delle speculazioni finanziare orchestrate intorno alla Banca Popolare Italiana e alla Banca Antonveneta (che costeranno la poltrona al governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio); dell’esplosione dello scandalo Parmalat (negli anni 2003-2004); e del drammatico «caso Fortugno», odioso omicidio mafioso da cui emergeranno pesantissime infiltrazioni della criminalità organizzata nelle istituzioni.
In una congiuntura economico-politico tutt’altro che facile, tuttavia, al governo Berlusconi non mancherà il tempo per dedicarsi a una frenetica attività legislativa: depenalizzerà il reato di falso in bilancio; modificherà le normative sulle rogatorie internazionali; attuerà la riforma Moratti della scuola; tenterà di introdurre una sospensione «in via sperimentale» dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; approverà la legge Bossi-Fini sull’immigrazione; varerà la legge «Cirami» sul legittimo sospetto; introdurrà la riforma del mercato del lavoro (detta «Biagi» dal nome del consulente del ministero del Welfare ucciso dalle BR il 19 marzo 2002); raggiungerà il cosiddetto «lodo Schifani», poi dichiarato incostituzionale, mirante a garantire l’immunità per le cinque più alte cariche dello Stato; porterà a termine la riforma previdenziale finalizzata all’innalzamento dell’età pensionistica; approverà la contestata legge Gasparri sul sistema radio-televisivo e l’altrettanto controversa legge 40 (che detterà le norme per la fecondazione assistita, per la diagnosi pre-impianto e per la ricerca sulle cellule staminali embrionali); varerà la legge sull’uso di stupefacenti e sostanze psicotrope; tenterà una riforma costituzionale (poi abrogata per referendum) volta all’introduzione del premierato forte, della devolution e del Senato federale; introdurrà una radicale riforma della giustizia (separazione delle funzioni, obbligo di colloqui psico-attitudinali a inizio carriera, frequenza obbligatoria dei corsi della Scuola Superiore della Magistratura, obbligatorietà dei provvedimenti disciplinari, divieto di militanza dei magistrati nei partiti politici, sottoposizione delle procure alla responsabilità unica del procuratore capo). L’ultima delle tante leggi berlusconiane sarà la legge Pecorella sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. In seguito, verrà dichiarata incostituzionale.

Il quinquennio berlusconiano si conclude con la sconfitta alle elezioni del 9 e 10 aprile 2006: la tornata elettorale, infatti, restituisce la presidenza del Consiglio a Romano Prodi, alla guida di una coalizione particolarmente numerosa e rissosa. Il «governo delle cento poltrone», destinato a essere uno dei più brevi della storia repubblicana, si insedia il 17 maggio e inaugura la sua attività approvando un contestatissimo (ma, paradossalmente, votatissimo) disegno di legge sull’indulto. Seguiranno una serie di provvedimenti tesi a porre ordine all’interno dei numerosi progetti di «grandi opere» infrastrutturali (dal Ponte di Messina all’eterno completamento della Salerno-Reggio Calabria), l’autorizzazione dell’importante missione di pace in Libano, l’approvazione del disegno legge Mastella sulle intercettazioni e una lunga serie di misure volte a liberalizzare (tra mille opposizioni) alcuni settori commerciali.
Il governo Prodi, inoltre, si mostrerà particolarmente attivo nel tentativo di modificare alcune leggi varate dal governo precedente: verranno così ritoccate la legge sull’immigrazione, quella sull’ordinamento giudiziario e quella sulle pensioni. Ma i successi principali del brevissimo esecutivo (destinato a cadere nel gennaio 2008 in seguito alla defezione dell’UDEUR di Clemente Mastella) riguardano la legislazione del lavoro: nel luglio 2007 governo e parti sociali firmeranno il «Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibile» (sorta di aggiornamento degli storici accordi del luglio 1993) e nell’agosto entrerà in vigore la sospiratissima nuova legge che disciplina la sicurezza sul lavoro.

*Il saggio qui proposto è antecedente al 2 maggio 2011, giorno in cui bin Laden è stato catturato e ucciso in Pakistan, per mano dell’unità anti-terrorismo DEVGRU dei Navy SEAL (i corpi speciali della Marina degli Stati Uniti) e della Special Activities Division della CIA.