Scopri, impara e cresci

Il teatro dal 1997 al 2007

Saggio di Tiberia de Matteis

Saggio di Tiberia de Matteis

La regia internazionale
Gli ultimi anni del Novecento, il periodo storico che più di ogni altro ha stimolato e accolto una varietà infinita di fermenti di rinnovamento scenico, tra avanguardie e recuperi di antiche formule in chiave attualizzata, segnalano una forte contaminazione di proposte e soluzioni con cui il teatro si avvia verso il nuovo millennio.

Lo sviluppo crescente della tecnologia, dell’informatica e della comunicazione virtuale, con cui l’arte scenica ha dovuto comunque confrontarsi, non ha tuttavia intaccato una forma espressiva ancestrale che ha sempre saputo resistere alle trasformazioni secolari, riuscendo addirittura a rafforzare la sua specificità. L’incontro collettivo con un’esibizione dal vivo di individui presenti in carne e ossa è un aspetto singolare e prezioso che assicura al teatro un’attrattiva peculiare proprio nei riguardi di un pubblico fin troppo abituato a rapporti telematici e a ricezioni solitarie e passive.
In una globalizzazione che tende a trattare anche la cultura come un prodotto industriale in un orizzonte fagocitato dalle valutazioni commerciali, l’attività scenica mantiene la sua vocazione artigianale ed esclusiva, legata a un evento unico e irripetibile di cui si può fruire soltanto in un preciso, limitato e irriproducibile contesto spazio-temporale.

La fine del secolo che ha visto la nascita e l’affermazione della regia, la convivenza delle divergenti tecniche interpretative, legate all’identificazione o allo straniamento, e la diffusione di un teatro di ricerca incentrato sulla sperimentazione di nuove tendenze non può non rivelarsi depositaria degli infiniti ed eterogenei approdi di tante generazioni impegnate in una personale elaborazione dell’indispensabile rapporto fra scena e società che rende il teatro un luogo intramontabile di dibattito ed evoluzione culturale.

Il panorama internazionale, esaminato in quest’ottica, continua a risultare dominato dalla figura del regista, centro creativo e propulsore di ogni spettacolo come pure riferimento teorico e ideologico rispetto alle potenzialità del teatro nel suo dinamismo fra tradizione e innovazione. In un’epoca in cui non sono rintracciabili fenomeni e movimenti artistici ben definiti, prevale l’apporto del genio individuale e i suoi percorsi espressivi diventano l’emblema di una ricerca che non va considerata un appannaggio riservato alle compagnie dichiaratamente dedite a un lavoro sperimentale.

La sintesi di culture sceniche occidentali e orientali operata dal regista londinese d’origine russa Peter Brook (1925) non cessa di rivelarsi un referente di entità mondiale, trovando conferma persino negli allestimenti ispirati al repertorio classico come Hamlet (2000) e La tragédie d’Hamlet (2002), realizzati con interpreti di origine africana per proseguire sulla strada della sinergia di elementi di diversa provenienza etnica.
Lo stile essenziale ed eclettico che rende Brook una pietra miliare della regia fin dagli anni Cinquanta, grazie all’emancipazione da ogni orpello scenografico e alla centralità dell’attore come unico officiante necessario del rito teatrale, consente al mitico ideatore del Mahabharata (1985), tratto dall’omonimo poema epico indù in sanscrito e trasformato in pellicola cinematografica nel 1989, di alimentare la sua carriera con spettacoli sempre differenti e inediti che dal 1979 vedono la luce nel parigino Théâtre des Bouffes du Nord e vengono poi subito esportati in numerosi Paesi esteri.

Dalla patologia mentale di Je suis un phénomène (1998), ispirato al libro del russo Alexander Lurija sul caso di un uomo dotato di una memoria prodigiosa, alle istanze spiritualiste di Tierno Bokar di Amadou Hampate Ba, proposto nel 2004, fino al dramma dell’identità personale fra burocrazia e clandestinità di Sizwe Banzi est mort di Athol Fugard, John Kani e Winston Ntshona, allestito nel 2006, la volontà di cogliere le esigenze e le problematiche dell’oggi per ricondurle a una rappresentazione nitida e tutta affidata alle modalità recitative ribadisce il talento intramontabile di Brook nell’affermare l’utilità di un teatro che sappia garantire la crescita culturale ed etica degli spettatori. Il suo modello resta finora ineguagliato nella capacità di avvicinare e conciliare sistemi di pensiero, consapevolezze fisiche e psichiche nonché divergenti approcci scenici e artistici in una visione quasi mistica del teatro come suprema manifestazione dell’universale potenziale umano.

Per quanto concerne, invece, l’analisi e l’esaltazione del testo si distingue la regia filologica del tedesco Peter Stein (1937) che non si limita soltanto a cimentarsi con i classici, come la memorabile Orestea (1980), destinata a trionfare persino nella versione russa a Mosca nel 1994, ma attinge anche alla forza polemica della drammaturgia più recente. Il rispetto minuzioso del copione si accompagna alla decisione di sovvertire le normali convenzioni sceniche per inventare spazi inusuali quanto veramente consoni a ogni singola rappresentazione. Nel 2000 prende vita il suo sogno, coltivato invano fin dagli anni Settanta in cui ha fondato e diretto la Schaubühne di Berlino, di mettere in scena per la prima volta in versione integrale il capolavoro goethiano nel monumentale Faust I & II che debutta in sette giornate all’Expo di Hannover. I cambi di scena diventano veri e propri spostamenti ambientali per ciascun passaggio della vicenda con un finale approdo del pubblico all’interno di una gigantesca spirale che vuole corrispondere all’ascesa del protagonista verso il cielo. La caduta fatale dell’essere umano e il rapporto con il soprannaturale sono tematiche ricorrenti nei suoi spettacoli che coinvolgono compagnie molto numerose come è accaduto anche per Pentesilea di Kleist (2002), un evento colossale concepito appositamente per la suggestiva cornice naturale del Teatro Greco di Epidauro. L’indagine critica sull’opera dell’autore riceve una concreta visualizzazione nella struttura scenografica attribuendo a Stein il merito di aver rivoluzionato la concezione spaziale del teatro occidentale.

All’improvvisazione degli attori e alla creazione collettiva si rivolge la francese Ariane Mnouchkine (1939), allieva del mimo Jacques Lecoq e fondatrice dal 1964 del Théâtre du Soleil, domiciliato dal 1971 alla Cartoucherie di Vincennes, nei dintorni di Parigi. L’inizio di una proficua e duratura collaborazione con la scrittrice, saggista e drammaturga algerina Hélène Cixous (1937) per E all’improvviso delle notti di veglia (1998) le permette di tornare alla ribalta internazionale, come già era avvenuto con i suoi rivoluzionari progetti scenici degli anni Settanta.
Dedicato all’incontro di una delegazione tibetana con un gruppo di attori e il loro pubblico con la pacifica occupazione di un teatro per denunciare la vendita di aeroplani da guerra ai cinesi, verificatasi realmente con avallo del governo francese, il lavoro si incentra sulle possibilità del Dalai Lama e dei suoi seguaci di conquistare l’opinione civile. Un grave fatto di cronaca è raccontato in uno spazio segnato da tende e cuscini con dialoghi, canti e danze ispirati alla vita vera. Sulla medesima scia si pone Le dernier caravansérail (2003) che utilizza in una serie di quadri successivi autentiche testimonianze raccolte in differenti Paesi del mondo per riflettere sul dramma sempre crescente dei profughi con attori provenienti da ventidue nazioni diverse. Il privato come strumento di osservazione delle condizioni di un popolo ritorna anche in Les Ephémères (2007), iperbolico monumento alla storia della Francia dagli anni Quaranta a oggi costruito come un’epopea dell’intimo.

Nonostante le vicissitudini politiche legate allo scioglimento dell’Unione Sovietica, la tradizione teatrale di quei territori mantiene il suo esemplare carattere pedagogico e formativo, assicurando ai registi livelli scenici qualitativamente altissimi per la serietà e la professionalità degli interpreti a disposizione e per la garanzia di un lungo e meticoloso impegno di prova. La vocazione a vagliare e mettere in pratica in una dimensione didattica le teorie e le tecniche di Stanislavskij si rintraccia tuttora in Anatolij Vasil’ev (1942), il regista russo che dal 1987 ha fondato la Scuola d’arte drammatica di Mosca.
Fautore di un rigoroso metodo di lavoro sull’attore, prevede una progressiva acquisizione del testo attraverso improvvisazioni contemporanee e parallele all’azione descritta nel copione che devono coinvolgere tutta la compagnia a prescindere dalla distribuzione dei ruoli. Dopo i capolavori tratti da Dostoevskij come Il giocatore (1997), trasfonde in canto il libro dell’Antico Testamento ne Le lamentazioni di Geremia (1997), fornisce nel 1997 e nel 2001 altre due versioni dell’Anfitrione di Molière, con cui si raffronta dal 1994, e sembra raggiungere la massima applicazione scenica delle sue consapevolezze sul rapporto fra interpreti e regista in Medea Materiale di Heiner Müller (2002), incarnato da Valérie Dréville.

Una stupefacente direzione degli attori coniugata con risolutive architetture scenografiche fa emergere il regista di origine siberiana Lev Dodin (1944), direttore del Maly Teatr di San Pietroburgo dal 1983, che propende per gli adattamenti di opere letterarie e si concentra sui disagi della sua patria dopo la pur bramata caduta del comunismo. In Chevengur (1999), ispirato a un romanzo di Andrej Platonov, si evidenziano i mali del regime socialista attraverso un impianto spaziale completamente immerso nell’acqua. Nella sua produzione vanno citati: Commedia senza titolo (1997), da Platonov di Cechov, Molly Sweeney di Brian Friel (2000), il potente affresco sociale Coro di Mosca (2003) e Zio Vanja di Cechov (2003).
Nella stratificazione di temi del Re Lear di Shakespeare (2006), Dodin riconosce e dimostra la sua urgenza di rappresentare le emozioni che solitamente vengono celate nella quotidianità, mentre in Vita e destino di Vassilij Grossman (2007) ritorna all’incisivo quadro storico del suo cavallo di battaglia Fratelli e sorelle di Fëdor Abramov (1985) che ha portato in tournée per oltre un ventennio.

La più imprevedibile e straordinaria rivelazione è però costituita dal lituano Eimuntas Nekrosius (1952) che ama misurarsi con Cechov, Puskin e Shakespeare con uno stile così originale e riconoscibile da aggiudicargli ben presto la notorietà internazionale con massiccia frequentazione dell’Italia. Il testo è un punto di partenza messo al servizio delle possibilità interpretative con una netta prevalenza delle immagini visive e delle azioni fisiche sulla parola. I contenuti indicati dall’autore sono trasformati in gesti che evocano le emozioni previste e le rendono condivisibili, mentre gli elementi scenici sono ridotti al minimo con pochi oggetti asserviti a una funzione simbolica che può anche totalmente divergere dal loro utilizzo abituale. Sono gli attori a produrre ogni forma di comunicazione in un confronto reciproco che si manifesta strumento di scoperta ed espressione di autenticità in un apparato ludico e magico destinato a testimoniare la creatività del genio in un’apparente ingenuità infantile. Un evento epocale è rintracciato in Amleto (1997) con una stella del rock lituano come protagonista e un cubo di ghiaccio in progressivo scioglimento come referente iconografico dominante sul palcoscenico.
Il fertile approccio a Shakespeare prosegue con Macbeth (1999) e con un indimenticabile Otello (2001) in cui il dramma dell’amore tradito si esplica in un gioco commovente di movimenti coreografici. Una serie di secchi pieni d’acqua con cui gli attori devono relazionarsi e una padella in veste di luna sono le icone della poetica edizione de Il gabbiano di Cechov (2000) con i giovani attori dell’Ecole des Maîtres, mentre il lavoro compiuto per la prima volta con una compagnia russa consente a Nekrosius di presentare a Mosca nel 2003 una versione de Il giardino dei ciliegi di Cechov salutata come la migliore degli ultimi dieci anni. Se si immerge in una dimensione primitiva e ancestrale della sua terra per Le stagioni (2003), basato sul poema epico dello scrittore lituano Donelaitis, affonda nella religione naturale in Cantico dei cantici (2004). Attratto dagli interpreti italiani e dalla loro fiducia nel teatro, si trova a dirigerli per il cechoviano Ivanov (2003) e per Anna Karenina di Tolstoj (2008) in cui grandi orologi bianchi individuano i tempi dell’incontro amoroso nell’atmosfera scandita dai treni che segnano l’inizio e l’epilogo del romanzo. Nell’universale sistema semantico di Nekrosius in cui i corpi sintetizzano e incarnano i sentimenti umani con maggiore evidenza del tessuto verbale si riscontrano alcune possibilità inedite del teatro dell’avvenire in una formula registica che ricrea il testo piuttosto che limitarsi a recitarlo.

I registi italiani
Lo storico ritardo italiano nell’introduzione della regia e il dominio incontrastato della centralità dell’attore non aiutano il pubblico a considerare lo spettacolo un’opera collettiva che deve a una mente creativa organizzatrice la sua univocità di stile e di contenuto. I registi italiani che riescono a emergere dall’anonimato e a ritagliarsi una fama assimilabile a quella di un noto interprete sono sempre troppo pochi e per lo spettatore comune è difficile comprendere e decodificare il valore di un’impostazione scenica a prescindere dall’impatto immediato legato alla qualità della recitazione.
L’ambizione a conservare la nostra pur gloriosa tradizione mattatoriale tende poi a ostacolare ulteriormente la fiducia in un unico responsabile a cui attribuire la completa paternità dell’allestimento. Non è quindi l’assenza di figure carismatiche a consegnare l’attività teatrale italiana nelle mani degli attori di richiamo per assicurarsi la promozione di un evento, ma un’abitudine inveterata e quanto mai impegnativa da sradicare che asseconda il culto divistico della popolarità e non induce a un’indagine competente delle modalità registiche.

La scomparsa del triestino Giorgio Strehler (1921-1997), a cui si deve non solo la fondazione del primo teatro stabile italiano con l’inaugurazione del Piccolo di Milano nel 1947, ma anche una monumentale attività scenica in grado di divulgare autori inediti o poco conosciuti e di testimoniare i risultati di un’appassionata e strategica direzione degli attori, costringe il teatro del nostro Paese a interrogarsi sulla debita funzione odierna della regia. Ispirato da una concezione pedagogica mutuata dai francesi Copeau e Jouvet e votata a un impegno di tipo brechtiano, Strehler non rinuncia alla potenza demiurgica del regista derivata da Reinhardt e si assume la responsabilità di una critica sociale del testo, mirando addirittura a conciliare in una forma inedita di «recitazione dialettica» le due opposte tecniche legate all’identificazione propugnata da Stanislavskij e allo straniamento immaginato da Brecht.
Protagonista assoluta della sua visione scenica è la luce che assume una valenza analitica e poetica inseguendo e scoprendo i significati da comunicare al pubblico. Gli spettacoli curati da Strehler sono diventati l’emblema del teatro italiano all’estero e vengono tuttora ripresi e condotti in tournée dagli attori e dagli allievi registi che hanno avuto il privilegio di partecipare al suo lavoro. Per esemplificare la portata internazionale del talento imperituro di un regista che ha saputo dimostrare la necessità del suo intervento professionale e artistico è sufficiente citare la sua versione del goldoniano Arlecchino, servitore di due padroni, allestita ininterrottamente a partire dal 1947 in quarantatré Paesi diversi e scelta dalla Cina per inaugurare il National Center for the Performing Arts di Pechino nel marzo del 2008.

Degno di competere, almeno in prolificità, con questo faro del teatro inteso come luogo di confronto tra l’arte e la società è Luca Ronconi (1933), un regista predisposto all’opulenza di complessi apparati scenici in cui confluiscono testi ponderosi, attinti più spesso dalla letteratura che dalla drammaturgia. Fin dalla sua consacrazione al Festival dei Due Mondi di Spoleto con l’itinerante Orlando furioso (1969), che in un ampio e alternativo spazio quadrangolare permette la rappresentazione simultanea di differenti quadri con quaranta attori impegnati contemporaneamente su palcoscenici mobili e carrelli spinti dal pubblico, in modo che ciascuno possa scegliere e vedere il suo spettacolo personale, si intuisce un’ambizione all’evento grandioso che connota una carriera costellata di allestimenti imponenti e dalle durate colossali. Ai fasti di quell’esperienza, Ronconi torna infatti volentieri con Infinities (2001), tratto da un’opera scientifica del matematico John Barrow e destinato a indurre gli spettatori a viaggiare liberamente in cinque stanze differenti per apprendere le varie declinazioni possibili del concetto di infinito.
L’utilizzo frequente e distintivo di marchingegni e macchine sceniche evoca in questa visione registica il meraviglioso del teatro barocco, mentre l’attore viene ridotto a uno strumento da una recitazione antirealistica ed esasperata, spesso franta da inaspettate cesure vocali che danno volutamente rilievo ad alcune parole della battuta con precise e bizzarre appoggiature, lontane dal cliché accademico quanto dal parlato quotidiano. Dalla narrativa sono prelevati, dopo il gaddiano Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana (1996), le due puntate de I fratelli Karamazov (1998), Quel che sapeva Maisie di Henry James (2001), Diario privato di Léautaud con la coppia Albertazzi-Proclemer (2005), mentre da Nabokov proviene Lolita-sceneggiatura (2001).
E se non mancano titoli teatrali come Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill (1997) con le splendide Mariangela Melato ed Elisabetta Pozzi, il pirandelliano Questa sera si recita a soggetto (1998), il goldoniano I due gemelli veneziani (2001), Candelaio di Giordano Bruno (2001), il dramma elisabettiano Peccato che fosse puttana di John Ford, proposto con un doppio cast, misto e solo maschile (2003) e Il Professor Bernhardi di Arthur Schnitzler (2006), la voluttà di creare un sistema spettacolare che non sia limitato a un lavoro unico e autonomo si esplica con Progetto Domani (2006), un ventaglio di cinque eventi teatrali tutti firmati da Ronconi in occasione delle Olimpiadi di Torino. A esclusione di Troilo e Cressida di Shakespeare e Atti di guerra di Edward Bond, si sconfina qui nel territorio politico, economico e scientifico con Il silenzio dei comunisti, epistolario a tre mani di Miriam Mafai, Vittorio Foa e Alfredo Reichlin, Lo specchio del diavolo dell’economista Giorgio Ruffolo, fino a Biblioetica. Un dizionario di Corbellini, Donghi e Massarenti. La finalità è dimostrare come ogni forma di espressione umana possa essere rappresentabile attraverso opportune idee di regia, una convinzione che guida e alimenta l’itinerario scenico di Ronconi.

Una profonda analisi del testo e del sottotesto, fra lettura simbolica e psicoanalitica, riesce a compiere il toscano Massimo Castri (1943) che sa indirizzare gli attori in una mirabile scomposizione della vicenda drammatica e dei personaggi in grado di illuminare gli aspetti più significativi della trama e gli elementi portanti dell’immaginario dell’autore. Dopo esemplari allestimenti pirandelliani e magistrali incursioni ibseniane, realizza tra il 1994 e il 1998 il monumento goldoniano La trilogia della villeggiatura, autentico capolavoro di fedeltà al copione quanto di riflessione universale, Oreste di Euripide, Orgia di Pasolini, Fede speranza carità di Von Horvart, nello spazio storico del Fabbricone di Prato, e La ragione degli altri di Pirandello.
Dal 2000 al 2002 mette in scena spettacoli rigorosi e affascinanti, guardati con ammirazione a livello nazionale, come Ifigenia di Euripide, Madame De Sade di Yukio Mishima e John Gabriel Borkmann di Ibsen. Nelle stagioni 2003 e 2004 prosegue la sua incessante ricerca su Pirandello con Questa sera si recita a soggetto con Valeria Moriconi e Quando si è qualcuno con Giorgio Albertazzi. Successivamente si confronta con assoluta e pregnante originalità con Il padre di Strindberg con Umberto Orsini (2005), con Spettri di Ibsen (2006), Alcesti di Euripide (2006) ed Ecuba di Euripide (2006) al Teatro Greco di Siracusa per il XLII Ciclo di Rappresentazioni Classiche organizzate dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico.

Un instancabile organizzatore di iniziative culturali e teatrali in grado di nobilitare l’immagine italiana anche all’estero e di dimostrarsi in equilibrio fra tradizione e modernità è Maurizio Scaparro (1932) che ha al suo attivo oltre ottanta spettacoli a partire da La Venexiana di Anonimo del Cinquecento con cui si è distinto al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1965. Abile nello spaziare da Shakespeare a Pirandello, da Goldoni a Petrolini, da Cervantes a Brecht, ha diretto: Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (1997) con Umberto Orsini, Il gabbiano di Cechov (1998) con Valeria Moriconi, Prima della pensione di Thomas Bernhard (1999), America (2000), dall’omonimo romanzo di Franz Kafka, Don Giovanni (2002), con Peppe Barra e le musiche di Nicola Piovani, I Mémoires (2004) di Goldoni con Mario Scaccia. Nel 1999 ha fondato a Parigi il Théâtre des Italiens e nel 2006 è stato chiamato nuovamente alla direzione del settore teatro della Biennale veneziana dopo l’esperienza già svolta dal 1979 al 1982.

Per quanto concerne il teatro di ricerca non si può non citare il regista Romeo Castellucci (1960), fondatore e animatore a Cesena della Socìetas Raffaello Sanzio, la compagnia italiana giudicata più innovativa e in grado di conquistarsi una buona stima a livello internazionale. Inventore in proprio di ogni spettacolo, di cui cura personalmente scene, costumi, suono e luci, Castellucci ama recuperare l’antica natura cerimoniale del teatro puntando sul legame organico fra azioni e sonorità. E se l’apparato testuale è appannaggio di sua sorella Claudia (1958) e la recitazione impegna in particolari studi sulla voce Chiara Guidi (1960), il lavoro collettivo riceve comunque un’impronta forte nel segno della corporeità intesa come materia in una sorta di «drammaturgia fisica». In Giulio Cesare (1997) la parola perde la sua rilevanza fino a ridursi al timbro cupo di un Antonio che ha subito una laringectomia.
Al 1999 risale l’apprezzato Genesi. From the museum of sleep che rilegge il primo libro della Bibbia in tre atti, ribaltando le vicende tramandate nei secoli con l’immagine di un’Eva anziana e malata e soprattutto con un Caino che uccide il fratello per gioco e senza coscienza fino a mostrare il baratro peggiore dell’umanità alludendo alle stragi di bambini ad Auschwitz. E se la vocalità è al centro del celiniano Viaggio al termine della notte (1999) come pure nella lettura drammatica di Uovo in bocca (2001), la musica domina nella commistione fra i madrigali di Monteverdi e le note rumorose del contemporaneo Scott Gibbons ne Il combattimento (2000). L’etimologia della tragedia dà vita dal 2002 a una sequenza di spettacoli, ognuno corrispondente a una città che attribuisce il titolo al singolo allestimento e in stretta relazione con l’attualità. Affondare verso il grado zero del linguaggio per sperimentare ulteriori formule di comunicazione e di espressione artistica è dunque l’orizzonte privilegiato da una teatralità che vuole emanciparsi dalla cultura letteraria.

La vivacità creativa delle generazioni più giovani trova la sua migliore esponente nella palermitana Emma Dante (1967), attrice ben presto passata alla regia e animatrice dal 1999 della compagnia Sud Costa Occidentale che si apre alla ribalta nazionale grazie a mPalermu (2001), in cui la tradizione teatrale siciliana, il suo dialetto e le sue musiche si dimostrano efficaci nel restituire temi e disagi dell’oggi. Frustrazioni e disillusioni sociali vengono tradotte in azioni fisiche e simboliche che legano gli attori in un contatto estremo e autentico a prescindere dal tessuto verbale. Sulla medesima scia di «scrittura scenica», in cui il copione non è preesistente, ma nasce da un lavoro collettivo maturato attraverso l’improvvisazione degli interpreti, nell’ottica di una teatralità rituale e incentrata sulla corporeità e sulle sue iconografie, appare Carnezzeria (2002), mentre Medea di Euripide (2003) e La Scimia (2004), tratto dal racconto di Tommaso Landolfi, segnano un’incursione nella drammaturgia e nella narrativa altrui.
Un capolavoro assoluto di poesia ed emotività è il commovente e autobiografico Vita mia (2004) in cui il dolore per la morte di un ragazzo è vissuto dalla madre e dai fratelli come un gioco consolatorio della memoria in una rappresentazione asciutta e sublime priva di retorica e autocompiacimenti. Seguono Mishelle di Sant’Oliva (2005), con un traumatico rapporto fra padre e figlio in assenza di una madre colpevole, la denuncia dell’omertà mafiosa in Cani di bancata (2006) e il corrosivo Il festino (2007) con protagonisti due gemelli intercambiabili. La regista è qui anche autrice di spettacoli elaborati grazie a una lunga e meticolosa pratica scenica in cui il testo non ha alcuna priorità, diventando soltanto uno degli elementi comunicativi della rappresentazione.

La drammaturgia contemporanea più frequentata
Un teatro che tende a valorizzare la «scrittura scenica» ovvero lo spettacolo che nasce dall’improvvisazione degli attori senza necessariamente riferirsi a un copione precedente a cui ispirarsi sembra limitare il contributo creativo della drammaturgia che in passato era il basilare punto di partenza di ogni allestimento. Un secolo come il Novecento, che ha dimostrato il fallimento delle ideologie e ha indagato la crisi dell’umanità e le sue ripercussioni sull’efficacia della comunicazione verbale, si chiude quindi con la testimonianza di autori teatrali impegnati a misurarsi con le concrete possibilità del linguaggio scenico e con la rappresentabilità dei mali endemici di una civiltà in declino rimanendo in ascolto dei fermenti del nuovo millennio.

La voce più compiuta e incisiva resta quella del londinese di origine ebrea Harold Pinter (1930) che trasferendo in una persecutoria e perturbante quotidianità la scarnificazione espressiva beckettiana si conquista la fama internazionale scrivendo per teatro, cinema e televisione fino ad aggiudicarsi il Premio Nobel per la Letteratura nel 2005 con la seguente motivazione: «Nelle sue opere svela il baratro nascosto sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe a entrare nelle chiuse stanze dell’oppressione». Dagli anni Novanta la sua drammaturgia rinuncia progressivamente all’azione a vantaggio dell’analisi dialettica dei personaggi che tentano invano di utilizzare il racconto di eventi passati per chiarire situazioni del presente. La dimensione misteriosa e rarefatta dei suoi testi si applica sempre di più a un confronto dialogico serrato, solitamente sviluppato all’interno di un rapporto di coppia.
In Ceneri alle ceneri (1997) di cui Pinter ha curato personalmente la regia italiana, con protagonisti Adriana Asti e Jerzy Stuhr, la breve conversazione viene infatti caricata di sensi riposti attraverso pause, silenzi e ritmi ovattati. Segue l’acuta derisione dell’ignoranza dell’affluente società contenuta in Anniversario (1999), che ambienta nel miglior ristorante della città la futilità dei discorsi mondani di tre coppie, mentre il cameriere racconta improbabili peripezie di suo nonno risultando tuttavia meno superficiale e volgare dei commensali da servire.
Il teatro è per Pinter uno strumento di ricerca della verità che dovrebbe riguardare tutti da vicino, passando dalla realtà intima di ognuno fino ad arrivare al linguaggio del potere. E come i suoi testi evidenziano comportamenti apparentemente banali e riconoscibili per individuare i sottesi meccanismi di incomunicabilità se non di sopraffazione, così la drammaturgia è diventata per lui l’anticamera di un approccio più diretto con l’attualità, tanto da annunciare nel 2005 di voler smettere di scrivere commedie per dedicarsi attivamente alla politica, schierandosi contro gli interventi bellici e tutte le forme di ingiustizia sociale.

Eclettico, iconoclasta e anticonvenzionale è l’attore e regista londinese Steven Berkoff (1937) che può essere ritenuto un classico del teatro contemporaneo sperimentale per la sua drammaturgia destinata a minacciare le opinioni diffuse e a scatenare reazioni conflittuali quanto problematiche. Conosciuto nel cinema per Arancia meccanica, 007 Octopussy – Operazione piovra e Beverly Hills Cop, recita spesso i suoi copioni ed è rappresentato in tutto il mondo. Fra i suoi lavori si ricordano: East (1977), Decadenza (1982), Alla greca (1982), West (1985), Kvetch (1991).
Il suo monologo One Man, satira sulla società in due atti che esplora l’universo mentale di un omicida logorato dal senso di colpa e di un hooligan accompagnato dal suo pitbull, è stato presentato nel 1997 a Firenze nella rassegna di Intercity London: la prima parte del testo rivisita il racconto di Poe Il cuore rivelatore, mentre nella seconda sezione si analizza la modalità bestiale di esistere di alcuni umani. Seguono The Secret Love Life of Ophelia (2001), Requiem for Ground Zero (2002), un tributo in versi alla tragedia americana dell’11 settembre, Thought Acts (2003), una riflessione sulle persone con cui ha lavorato sul palcoscenico e per il grande schermo, e infine Sit and Shiver (2006).

Nel gruppo degli autori inglesi denominati New Angry Men emerge Sarah Kane (1971-1999) che deve a una produzione di una decina di opere precedenti al suo suicidio una notorietà internazionale rinnovata da continui allestimenti. Apprezzata anche da Pinter, dopo Dannati (1995) e Phaedra’s Love (1996), descrive un’università come un campo di concentramento in Purificati (1998) acquistando uno stile sempre più conciso fino ai quattro monologhi intrecciati di Fame (1998) in cui quattro personaggi denunciano la solitudine e l’impossibilità del dialogo. Il postumo 4.48 Psychosis (2000) penetra nella mente in fuga dalla realtà di chi decide di uccidersi, anticipando in maniera sconvolgente e autobiografica l’epilogo della vita della giovane autrice.

Per quanto riguarda la Francia merita di essere nominata Yasmina Reza, romanziera e attrice di origine ebrea nonché una delle commediografe più stimate della scena internazionale, già tradotta in oltre trenta lingue: tra le sue opere per il teatro sono note anche in Italia Conversazioni dopo un funerale (1987), con cui ha vinto il premio Molière, La traversata d’inverno (1989), Art (1995) e l’adattamento de La metamorfosi di Kafka portato a Spoleto da Roman Polanski. A proposito di Tre versioni della vita (2000), Reza ha dichiarato di aver voluto sperimentare le possibilità della scrittura teatrale: infatti si recita tre volte la stessa situazione lasciando che i protagonisti vengano manipolati ogni volta in modo diverso dall’autrice. Nel primo atto un astrofisico e sua moglie vedono piombare in casa loro un collega e la consorte, invitati per la sera successiva. Nel secondo atto un astrofisico e sua moglie, invitati a cena da un collega e sua moglie, arrivano con un giorno d’anticipo. Nel terzo atto, a causa di un malinteso, due astrofisici e le loro mogli trascorrono insieme una serata improvvisata.
Le differenti soluzioni della trama determinano un gioco teatrale comico e tuttavia incline all’approfondimento psicologico di personaggi capaci di assumere valenze universali. Dopo Une pièce espagnole (2004), arriva Il Dio della carneficina (2006), in cui una lite violenta nel parco fra due bambini diventa motivo di incontro per i loro genitori fra intenzioni concilianti e moti di intolleranza sempre più difficili da reprimere. Levità e umorismo applicati a temi d’attualità molto seri e impegnativi continuano a delineare la cifra stilistica di una drammaturgia di sicuro impatto scenico.

Il conflitto che domina la dissoluzione del mondo odierno è il filo conduttore della cospicua produzione teatrale dello svedese Lars Norén (1944) che supera i settanta testi e ha per modelli Strindberg, Bergman e soprattutto O’Neill, alla cui biografia dedica La notte è madre del giorno (1982) e Nostre ombre quotidiane (1991). Lucido nel rintracciare all’interno degli scontri familiari le energie in perenne contrasto che scatenano anche le più estreme e perverse dinamiche sociali, si occupa delle attuali problematiche riscuotendo il plauso mondiale.
Se in Autunno e inverno (1987) sono le relazioni ostili fra i genitori anziani e due figlie adulte e ribelli a strutturare la macchina scenica, si approda a uno spaccato sociale apocalittico con le prostitute, gli eroinomani, gli immigrati e i barboni in primo piano nella trilogia Morire di classe (1997), che denuncia gli orrori del capitalismo senza tuttavia rinunciare all’effetto di straniamento suscitato da uno sguardo umoristico più che strettamente realistico. Una successiva trilogia è dedicata alla morte e vi spicca l’intimo ed esistenziale Novembre (2000), mentre a un fatto di cronaca realmente accaduto in Svezia negli anni Novanta si riferisce Freddo (2003), allestito anche in Italia con regia del medesimo autore, in cui il protagonista, un coreano d’adozione, s’imbatte disgraziatamente in un gruppo filonazista che lo picchia fino alla morte dopo averlo deriso e punito con accuse razziste.

Nell’ambito del versante scandinavo merita attenzione lo stile minimalista e tuttavia densamente articolato del norvegese Jon Fosse (1959), considerato un’inedita rivelazione della scena europea. In un’oscillazione fra realismo e assurdo i suoi dialoghi dilatano e sezionano un’unica situazione drammatica in cui inezie psicologiche e avvenimenti banali manifestano il vuoto di una condizione umana dolorosa e traumatica, ma comunque mai completamente disperata. Il linguaggio scarno e ripetitivo attinto dal parlato non condanna il teatro all’afasia, bensì si rivolge alla sua potenza espressiva. Anche quando non accade nulla e i protagonisti non possono emanciparsi, la loro avventura scenica spaventa e consola al tempo stesso in una dimensione oscura quanto capace di illuminare gli spettatori e di recuperare una comunicazione empatica con la platea. Dal suo esordio teatrale con E non ci lasceremo mai (1994), è diventato il drammaturgo norvegese più rappresentato al mondo dopo Ibsen.
L’analisi delle relazioni interpersonali è la sua tematica ricorrente: dopo Il bambino (1997), Il figlio (1997) e Madre e figlio (1997), scrive il monologo L’uomo della chitarra (1997) e offre un ritratto lancinante e spietato di un adulterio nel pregevole E la notte canta (1998), che vanta già cinquantacinque allestimenti internazionali ed è stato messo in scena in edizione italiana dall’attore e regista Valerio Binasco nel 2008. Altri suoi titoli sono: In una giornata d’estate (1999), Sogno d’autunno (1999), Inverno (2000), Bello (2001), Ragazza sul divano (2003), I cani morti (2005), Susanna (2004), Sonno (2006) e Caldo (2006).

Erede della tradizione teatrale statunitense è ritenuto Sam Shepard (1943) che ha rappresentato il suo primo copione a diciannove anni senza mai smettere di osservare e smascherare la cultura e la realtà del suo Paese fra ricerca delle proprie radici e presa di coscienza della fine dell’agognato sogno americano. Nel corso degli anni ha maturato un dominio sempre crescente degli intrecci, dapprima fin troppo complessi e affastellati, e ha sviluppato una maggiore coerenza nei personaggi, coltivando un interesse privilegiato per le tragedie familiari e richiamando l’esempio di O’Neill. Dopo la svolta in chiave realistica testimoniata con Stati di shock (1991), si segnalano The Late Henry Moss (2000) e The Gold of Hell (2004). Uno stile diretto e incisivo è qui finalizzato a demandare sempre verso un’altra dimensione, ad alludere a un inquietante vuoto esistenziale e a denudare le parvenze di una realtà in contraddizione con il suo aspetto visibile.

Più disponibile ad assecondare le esigenze commerciali si dimostra lo statunitense David Mamet (1947) che attinge al lessico quotidiano e alle vicende di uomini comuni e anonimi per elaborare testi compatti e di immediata fruizione da parte di un vasto pubblico. Diventato dalla fine degli anni Ottanta uno sceneggiatore di successo con frequenti incursioni anche nella regia cinematografica, deve ad American Buffalo (1977) e ad A life in the Theatre (1977) i suoi primi veri successi teatrali, superati soltanto da Glengarry Glen Ross (1983) con cui ha ottenuto il Premio Pulitzer, analizzando la frustrazione degli impiegati di un’azienda in vena di licenziamenti. Nonostante l’attivo impegno per il grande schermo e la popolarità raggiunta, si cimenta ancora con la drammaturgia come confermano le sue commedie: The Old Neighborhood (1997), Boston Marriage (1999), Faustus (2004), Romance (2005).

Il malessere degli Stati Uniti è individuato e descritto con lungimiranza da Tony Kushner che dopo il dramma Una stanza luminosa chiamata giorno (1985), ha acquistato fama internazionale con Angels in America, una saga provocatoria e commovente su temi nazionali che si divide in Si avvicina il millennio (1992), ritratto polemico, feroce e tenero della morte di Aids dell’avvocato Roy Cohn, braccio destro di McCarthy, che non ha mai ammesso la sua omosessualità, e Perestroika (1993), quadro meno riuscito di varia umanità concluso da un messaggio di speranza. Uno stile immaginifico e barocco mescola fonti shakespeariane con passaggi da telenovela, condendo di sentimentalismo e ironia le vicende di figure allucinate e fantasmatiche in perenne dialogo terreno e trascendente. La questione dell’identità personale fra razze, religioni e classi sociali genera anche Henry Box Brown o lo specchio della schiavitù (1998), il musical Carolyne, or Change (2002), Solo noi che osserviamo il mistero saremo infelici (2003).

Gli autori italiani
La drammaturgia contemporanea italiana è afflitta da un grave pregiudizio su una fantomatica crisi poetica ed espressiva degli autori teatrali viventi che in realtà fornisce un alibi rassicurante per il sistema produttivo, colpevole di non assumersi il rischio di finanziare allestimenti di opere inedite. Un diffuso quanto ingiustificato ossequio verso le offerte straniere induce a preferire testi di provenienza estera, da rappresentare in traduzione, piuttosto che attingere al bacino nazionale, assai florido di proposte interessanti e troppo spesso misconosciute, destinate a smentire l’assurda prevenzione sulla qualità artistica degli attuali copioni italiani. Non mancano, infatti, personalità degne del massimo rilievo in grado di muoversi agevolmente nel campo dell’invenzione e della pratica drammatica senza alcun debito di sudditanza nei riguardi dei colleghi europei o internazionali.
La prova dell’indiscutibile valore dei nostri drammaturghi, a fronte della scarsa lungimiranza dei meccanismi teatrali italiani, risiede infatti nel gradimento che ricevono costantemente all’estero, dove sono rappresentati molto più spesso e con maggiore favore di pubblico e di critica che in una patria in cui gli interessi commerciali non solo dominano quelli culturali, ma arrivano a ribaltarli e fagocitarli.

La specificità culturale dell’Italia, con le sue differenze storiche, linguistiche e sceniche legate ai territori regionali, fornisce poi un panorama variegato ed eterogeneo che elabora stimolanti confronti fra l’esperienza tradizionale e i suoi fermenti innovativi. Ogni autore deve alla sua origine geografica e alla sua impronta formativa una pulsione creativa con cui relazionarsi e patteggiare per raggiungere una propria sintesi stilistica personale.

All’estremo settentrione appartiene il meranese Roberto Cavosi (1959) che, dopo una breve carriera di attore professionista di teatro e cinema, opta in maniera quasi esclusiva per il mestiere di drammaturgo. La convivenza difficile di etnie diverse in una terra di confine come quella abitata prima del definitivo trasferimento a Roma, l’azione persecutoria esercitata dalla storia sulle biografie dei singoli e un moderno afflato mistico verso il trascendente sono i temi portanti di un repertorio dedicato agli esclusi che sperimentano il disagio di esistere in una società incapace di accoglierli. Dalle colpe irredimibili delle donne di una famiglia mafiosa in Rosanero (1994) che lo apre alla notorietà grazie al premio Idi 1993, Cavosi attualizza la tragedia di Medea in Piazza della Vittoria (1997), trasferendo la Colchide a Milano e Corinto a Bolzano e scegliendo la datazione del progetto mussoliniano del ripopolamento del Trentino.
Al colonialismo italiano nel continente africano si associa il dissidio fra due sorelle che si sono contese lo stesso uomo in Cinema Impero (2003), ambientato nell’Asmara del 1975, mentre la speciale vocazione ad affondare nella complessità dell’universo affettivo, eroico e spirituale dei personaggi femminili trova compimento in Trilogia della luna (2003) con un trittico che mira a esplorare la radice antropologica dell’essere umano attraverso il legame intrinseco con il corpo e con il cosmo rintracciabile nella donna.
Nella volontà di rispondere a interrogativi esistenziali si recupera la formula del tragico, superando l’avventura nichilista del teatro beckettiano e puntando su un linguaggio alto, poetico e viscerale in grado di riscattare la sacralità del teatro come luogo di dibattito sulle possibilità rituali e divine ancora insite nella collettività. Alla rivolta contro la criminalità organizzata dei ragazzi di Locri, in seguito all’omicidio di Franco Fortugno, è dedicato Notte d’Epifania (2007), una storia d’amore adolescenziale radicata in un’attualità che bisognerebbe contribuire a cambiare.

Nel solco di un minimalismo inquietante e metafisico vicino alla produzione drammatica anglosassone e scandinava di oggi, si pone il pavese Edoardo Erba (1954) che asseconda gli insospettati risvolti di una situazione quotidiana e apparentemente banale fino a scatenare un epilogo surreale spiazzante destinato a un’imprevista presa di coscienza. Fin dal suo capolavoro Maratona di New York (1993), tradotto in oltre tredici lingue, in cui un allenamento atletico per una gara di corsa si rivela infine una sfida alla morte durante un’agonia, si scopre una naturale tendenza a tradurre il gioco metateatrale in una leggera quanto coinvolgente meditazione emotiva. Dalla rimossa condizione edipica di Dejavu (1999) alla crudeltà del mondo aziendale di Venditori (1999), in cui si italianizzano questioni sociali affrontate in teatro anche dallo statunitense David Mamet, dalle suggestioni di fine millennio di Fine del mondo (1999) e Buone notizie (2002) alle sorti del teatro nell’avvenire indagate in Vaiolo (1998) e nel piccolo capolavoro Muratori (2002), diventato un cult con oltre sei stagioni di repliche consecutive, il pubblico è mantenuto in una continua suspence mozzafiato che decolla progressivamente e si infrange soltanto nell’atteso colpo di scena finale in cui tutto si chiarisce smentendo ogni congettura precedente.
Una sacra rappresentazione rivisitata è poi Animali nella nebbia (2005) e la commedia erotica cinquecentesca è riprodotta con felici esiti in Margarita e il gallo (2006) a testimonianza di una sicura abilità mimetica di generi e istanze sceniche opportunamente richiamate e adattate agli spettatori odierni. Lo stratagemma di modificare un tassello della storia per immaginare una diversa evoluzione degli avvenimenti è utilizzato con genialità in Senza Hitler (2006) che relega il dittatore a quel ruolo di pittore che da giovane avrebbe tanto desiderato, ipotizzando altre soluzioni per un’Europa libera dalle sue velleità espansionistiche e, soprattutto, salvando l’umanità dall’orrore dell’olocausto. La curiosità di penetrare in mondi ben precisi per andarvi a rintracciare imprevedibili sorprese dell’immaginario umano prosegue con Dramma italiano (2007) e Parete nord (2007). Una poetica del perturbante, che riveste gli aspetti familiari della realtà di una sottesa potenza riflessiva e catartica si sposa con l’indagine in atto delle dinamiche sceniche in uno stile teatrale di respiro universale.

A privilegiare un percorso evolutivo da drammaturgo di compagnia è invece il toscano Ugo Chiti (1943) che si applica a lungo alla riscrittura di testi altrui prima di spiccare il volo verso una completa libertà creativa sempre e comunque applicata alle esigenze pratiche di un gruppo di attori con cui elaborare spettacoli di espressione collettiva, attribuendosi il duplice compito di autore e regista. Oltre al successo plateale di Benvenuti in casa Gori (1989) e dei suoi successivi Ritorno in casa Gori (1994) e Addio Gori (2006) in cui la fertile collaborazione con Alessandro Benvenuti permette la materializzazione scenica di un’intera saga familiare, colta nel momento fatidico della celebrazione del Natale e apprezzata anche sul grande schermo, Chiti si cimenta in trilogie dedicate alla storia culturale, sociale e popolare della sua regione: dal progetto La terra e la memoria (1994), con tre situazioni radicate nella provincia toscana in differenti epoche, fino a La recita del popolo fantastico (2004) in cui il racconto diventa affresco e la favola illumina la realtà. Ormai indivisibile dall’attività della compagnia dell’Arca Azzurra che dagli anni Ottanta è la sua palestra di sperimentazione, spazia dal ritratto storico di Nero cardinale (2002), alle varianti shakespeariane di Amleto Moleskine (2003), per poi approdare al recupero della scrittura umoristica toscana di Buffi si nasce (2006).
L’antico e mai sopito piacere di infiltrarsi nelle opere di altri per offrirne personali e contaminate derivazioni si affianca a un’intensa produzione di sceneggiature cinematografiche, riservando però all’irrinunciabile rapporto con il teatro la missione speciale di concretizzare visivamente e fisicamente una vicenda umana.

Una sterminata conoscenza letteraria accompagnata a un talento linguistico ai limiti del virtuosismo contraddistinguono l’autore romano Giuseppe Manfridi (1956), il più prolifico della sua generazione. L’urgenza interiore di trasfigurare eventi e persone, traducendo in formule drammatiche le istanze della vita grazie all’originale invenzione di una lingua specifica e consona alla situazione da rappresentare alimenta una scrittura teatrale destinata a insinuarsi nelle anime dei protagonisti per inchiodarli a battaglie dialettiche in cui possano scoprire la propria verità intima.
Dal tema del plagio reciproco, insito in ogni relazione umana, che ha segnato tanti suoi lavori come Anima bianca (1987), Ti amo, Maria! (1990), Stringiti a me, stringimi a te (1990), nasce anche la voluttà di osservare note figure letterarie e artistiche dal buco della serratura come accade con il pluripremiato Giacomo, il prepotente (1989), che svela il privato di Leopardi, e con i successivi La sposa di Parigi (1995), sul rapporto fra Rodin e la sorella di Paul Claudel, I venexiani (2002), incentrato su Casanova, Il fazzoletto di Dostoevskij (2003) e L’osso d’oca (2007), dedicato a Puccini. Un tributo degno della migliore tradizione scenica europea del Novecento è reso poi alla tragedia classica con riattualizzazioni in versi del mito antico e moderno come Elettra (1990), L. Cenci (1992), Ultimi passi per la salvezza dell’Epiro (1994), Didone (1997), senza dimenticare l’assoluto capolavoro Teppisti! (1984) in cui utilizza gli endecasillabi per ritmare il dialetto romanesco degli ultrà in una vicenda di estremo tifo calcistico.
Tra i numerosi titoli spicca anche la pochade nera Zozòs (1994), così apprezzata all’estero da meritarsi una regia di Peter Hall al Gate Theatre di Londra nel 2000. Nel dare voce e corpo scenico a una miriade di creature del nostro immaginario, Manfridi realizza la sua idea di teatro come spaccato delle mente umana, meglio ancora se creativa: il personaggio si confessa, diventa l’incarnazione stessa delle sue parole e agisce così sulla platea che non può non sentirsi mutata dall’esperienza collettiva vissuta durante la rappresentazione.

Da un bacino storicamente fecondo di avventure teatrali come Napoli si attingono ancora fertili linfe che non devono però essere tutte ricondotte alla mera imitazione del modello per eccellenza individuato in Eduardo De Filippo. La drammaturgia partenopea di oggi trasuda suggestioni e immagini del suo glorioso passato, ma si dimostra anche sensibile e anticipatrice nell’intuire gli orizzonti scenici del futuro. La scomparsa prematura di un autore raffinato e caustico come Annibale Ruccello (1956-1986) non ha ostacolato la vitalità delle sue opere che descrivono, in un proficuo amalgama di lingua e dialetto, i disagi antichi e recenti della sua città come dimostrano i pregevoli Le cinque rose per Jennifer (1980) e Ferdinando (1984). Carnalità e poesia si fondono mirabilmente poi nella scrittura scenica dell’autore-attore Enzo Moscato (1948) che vince il Premio Riccione con Pièce noire nel 1985, proseguendo da allora in una ricerca tematica e sonora che tende spesso ad affidare a un monologo la narrazione dei fatti accaduti.
E se in Mal d’Hamlé è il principe di Danimarca, in Recidiva (1995) incarna Copi, in Lingua, carne e soffio si identifica con Artaud e in Aquarium Ardent interpreta Rimbaud. Dopo il successo di Rasoi (2001), diventato un film con la regia di Mario Martone nel 1994, emoziona il quadro storico e umano di Luparella (1997), immortalato da Isa Danieli, come pure si rivela pieno di magia Orfani veleni (2002).
Il lirismo che scaturisce da una orchestrazione verbale e musicale delle pulsioni sensoriali è l’ambito in cui si muove Ruggero Cappuccio (1964), nato a Torre del Greco da famiglia aristocratica e incline a considerare il teatro una suprema sintesi di tradizione classica e cultura moderna in un esercizio di comunione stilistica che racchiude meditazioni private e sentimenti collettivi. Consacrato da Delirio marginale (1994) che ottiene il Premio Idi 1993, affonda nel mistero sulla vera identità del dedicatario dei Sonnets shakespeariani nel racconto fantasmatico di mere parvenze di Shakespea Re di Napoli (1994), in cui un giovane rievoca di essere stato rapito da Napoli per andare a recitare nel Globe londinese. Una follia che sovverte l’ordine della vita contrassegna la polifonia linguistica di Edipo a Colono (1997), con l’eroe ormai cieco e rinchiuso in un manicomio che tenta invano di chiarire la sua storia personale tra sogni in cui prendono vita le sue illusioni e scene metateatrali che riproducono le tappe del suo tragitto terreno.
Il mito è protagonista ancora in Tieste (1998) che colloca la cruenta tragedia omonima di Seneca all’interno di un clan familiare mafioso della Sicilia degli anni Quaranta, come pure del comico Le Bacchidi (1998), riscrittura dell’originale plautino elaborata in chiave metateatrale. Rende omaggio a Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel centenario della nascita, il vagheggiamento oltremondano Desideri mortali (1996), una sorta di oratorio profano dedicato alla marginalità e all’esplosione mediterranea dell’opera dell’autore siciliano che ispirerà anche Lighea. I silenzi della memoria (2001), trasformato poi in pellicola cinematografica. Un sereno viatico verso la morte, sublimato con il conforto dell’eternità garantita dall’arte, alimenta la visione estatica e contemplativa de Il sorriso di San Giovanni (1997), anch’esso diventato film col titolo Il sorriso dell’ultima notte (2004). Una dimensione corale fra cronaca, confessione e dramma intimo si respira in Paolo Borsellino Essendo Stato (2004) che ricostruisce il tragico sacrificio del magistrato impegnato a combattere la mafia in una società che lo ha condannato a capro espiatorio.

Astrazione beckettiana e visceralità siciliana dialogano in continua sfida reciproca nella scrittura scenica dell’autore-attore messinese Spiro Scimone (1964) che fin dal primo testo Nunzio (1994), derivato da Emigranti del polacco Mrozek, formalizza la banalità della conversazione quotidiana con le sue costanti ripetizioni in un’alternanza ritmica di parole e silenzi che determinano il vuoto di una sterile attesa di novità salvifiche inesorabilmente negate. Due personaggi che hanno unito le loro solitudini spezzano e ricompongono un’alleanza che resta l’unico miraggio di una vita irragionevole, misteriosa e insensata. Un’atmosfera un po’ meno claustrofobica si avverte in Bar (1997) in cui si auspica ancora la possibilità di un futuro migliore nonostante l’angoscia incombente di reminiscenza kafkiana e un’inquietante minaccia esterna che ricorda Pinter.
Il triangolo edipico come persecutorio e inscindibile incastro comunicativo è smascherato nonché analizzato nella ricorrenza familiare de La festa (1999), mentre il contesto si dimostra meno riconoscibile sul piano spazio-temporale nel desolato e metafisico Il cortile (2003) in cui ectoplasmi di esseri umani, rifiutati dalla società, sperimentano a quale livello di degrado etico si possa giungere senza tuttavia rinunciare completamente all’istinto di sopravvivenza. La virata verso la drammaturgia internazionale, in una progressiva emancipazione dalle allusioni della sua terra d’origine, continua con La busta (2007) che applica una lettura dell’assurdo derivata da Jonesco al tema della violenza parossistica e immotivata delle gerarchie professionali.

Raccontare a teatro
L’antica forma di intrattenimento legata ai cantastorie in cui un singolo attore dimostra le sue doti di affabulazione proponendo al pubblico il racconto di una vicenda, vera o immaginaria, senza ricorrere all’interpretazione di un personaggio e alla messinscena di un testo teatrale di un altro autore, si è rivelata in tempi recenti molto vicina alle esigenze di spettatori disabituati alla lettura personale e viziati dalla ricezione televisiva.
Il teatro di narrazione, avviato da Dario Fo con Mistero buffo (1969), è diventato l’approccio più richiesto e gradito a fatti di cronaca, a eventi del passato o a situazioni storiche e letterarie che la platea apprende attraverso una performance vocale che non ha bisogno di orpelli scenografici e si concentra nelle capacità espressive del protagonista, che è ovviamente anche autore del copione. La parola detta, più ancora che recitata, discrimina una strategia di comunicazione che determina un rapporto di fiducia e di empatia con i destinatari, seduti di fronte a un artista che non indossa maschere e si svela nella sua nudità di essere umano in carne e ossa insignito del semplice privilegio di poter ottenere un silenzio da riempire con la sua voce che scandisce i ritmi e i suoni di una storia accattivante. Pochi elementi scenici possono collaborare alla confezione visiva e figurativa del racconto, lasciando però che la funzione verbale resti assoluta e prevalente via di contatto con il pubblico.

Tutto comincia con il piemontese Marco Baliani (1950) che, dopo anni di attività nell’ambito scenico riservato ai ragazzi, approfondisce la sua ricerca sulla tradizione orale, realizzando Storie (1989) e soprattutto Kohlhaas (1989), ricavato da Kleist e davvero esemplare sul piano interpretativo per la suggestione garantita con pochissime azioni fisiche in compagnia soltanto di una sedia. Seguono altri monologhi come Tracce (1996), conferenza narrativa sui tempi dello stupore e dell’incantamento, Corpo di stato (1998), ricostruzione autobiografica degli anni del delitto Moro a vent’anni dall’accaduto, e Lo straniero (2003), ispirato all’omonimo romanzo di Camus.
Nel 2005 Baliani dirige lo spettacolo Pinocchio Nero, allestito con ragazzi prelevati dal degrado di Nairobi e coinvolti in un progetto teatrale di recupero e riscatto sociale. Divagazioni personali, ricordi e riflessioni esistenziali si intrecciano con un romanzo dello scrittore nigeriano Amos Tutola in Una notte nel bosco degli spiriti (2007) con cui l’attore sintetizza il suo intimo confronto con la realtà africana.

Più propenso alla ricerca documentaria di casi irrisolti e alla pubblica denuncia di scandali politici si manifesta il veneto Marco Paolini (1956) che ottiene la notorietà a partire dal 1995 grazie al pluripremiato Il racconto del Vajont, cronaca della frana di Longarone, trasmessa con un successo imprevedibile in diretta televisiva su Rai Due il 9 ottobre del 1997. Dopo Il milione quaderno veneziano di Marco Paolini (1997), prendono vita Stazioni di transito (1999), l’interessante e provocatorio I-tigi. Canto per Ustica (2000) e lo sconvolgente Parlamento chimico. Storie di plastica (2002) sulle colpe e i disastri provocati nella chimica italiana da gravi collusioni fra manager e politici. Un omaggio a Mario Rigoni Stern è poi Il sergente (2004), cronistoria della ritirata di Russia. Il valore storico ed etico delle rivelazioni di Paolini supera l’impegno della recitazione che si limita a una conversazione avvincente di immediato impatto sulla platea.

Sulla medesima strada si incammina il giovane nativo di Morena Ascanio Celestini (1972), il cui primo lavoro è Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini (1998) con un padre e un figlio in viaggio da Foggia a Roma in un mondo memore della lezione del poeta friulano. Il passo successivo è la trilogia dedicata alla narrazione orale Milleuno (1998-2000), formata da Baccalà (il racconto dell’acqua), Vita, Morte e Miracoli e La fine del mondo, in cui si celebra l’epopea popolare di quegli ultimi che vivono ai margini della capitale, ormai divorata da speculazioni edilizie. All’eccidio delle Fosse Ardeatine si riferisce il fortunato Radio clandestina (2000), seguito dal libero montaggio di fiabe della tradizione italiana di Cecafumo (2002) e dallo spaccato di tre generazioni di vita operaia di Fabbrica (2002).
Alla Biennale di Venezia del 2004 Celestini si impone con Scemo di guerra. 4 giugno 1944, in cui attinge alle testimonianze di suo padre sul secondo conflitto mondiale e sull’arrivo degli americani a Roma. L’universo della reclusione psichiatrica è indagato ne La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico (2005), mentre il lavoro precario è documentato e analizzato in Appunti per un film sulla lotta di classe (2006), continuamente aggiornato in base agli episodi che si verificano. Amato anche da un pubblico che generalmente non frequenta il teatro, Celestini deve alla sua schiettezza priva di accademia la possibilità di essere recepito da tutti.

Al filone della narrazione si può anche avvicinare Moni Ovadia (1946), autore e attore di origine ebraica che associa al racconto struggente e ironico della condizione di perenne esilio del popolo israelitico un importante recupero della tradizione canora, folclorica e musicale yiddish. Il suo primo dramma musicale è infatti Dalla sabbia al tempo. Breve viaggio nell’ebraitudine (1987) che dà l’avvio a un percorso di ricerca scenica e sonora, ben presto realizzato nei suoi capolavori: Oylem Golem (1993), Dybbuk (1995) e Ballata di fine millennio (1996). Aneddoti, barzellette e storielle trattate dal patrimonio umoristico ebraico sono intervallate da canzoni del repertorio popolare in una effervescente e mirabile prova di affabulazione attoriale, accompagnata dalla spumeggiante e virtuosistica TheaterOrchestra.
Le attitudini maniacali per l’economia e il commercio che hanno alimentato tanti pregiudizi sugli ebrei sono affrontate con il consueto spirito critico e ludico ne Il banchiere errante (2001), mentre ai racconti di Isaak Babel’ si ispira L’armata a cavallo (2003). Il celebre musical Il violinista sul tetto, scritto da Joseph Stein è personalizzato da Ovadia nel 2002, tornando poi ancora a riflettere sulla presenza ebraica nel mondo dello show business statunitense in occasione della conferenza scenica Es iz Amerike! (2005). Le questioni più scottanti della nostra attualità politica, sociale e culturale sono prese in considerazione ne Le storie del signor Keuner (2006) di Brecht, applicando le indicazioni su straniamento, teatro epico e impegno intellettuale fornite dal drammaturgo tedesco. Il racconto diventa qui strumento di assunzione di responsabilità.

L’adesione massiccia degli spettatori a un teatro di parola che si limita a narrare invece di voler rappresentare deve far riflettere sulle direzioni che l’arte scenica può intraprendere per mantenere la sua eterna e immutabile potenza comunicativa in un mondo in continua evoluzione.