Fino ai tempi dell’unità nazionale (quindi, fino alla metà dell’Ottocento) l’italiano fu a lungo una vera e propria lingua straniera…
Fino ai tempi dell’unità nazionale (quindi, fino alla metà dell’Ottocento) l’italiano fu a lungo una vera e propria lingua straniera per la stragrande maggioranza degli italiani: la lingua italiana, fondata sulla varietà del dialetto colto di Firenze, era parlata da una percentuale limitatissima di connazionali. Tullio De Mauro, nella sua Storia linguistica dell’Italia unita – apparsa in prima edizione nel 1963 presso l’editore Laterza di Bari – calcola che, alla vigilia dell’unificazione, non più del 2,5% degli italiani possedesse la competenza attiva (cioè sapesse usare nella comunicazione corrente) della lingua italiana su base fiorentina: in questa percentuale andavano collocati, oltre ai toscani colti naturalmente italofoni, le élites intellettuali gravitanti attorno al polo romano e, con minor intensità, le élites intellettuali disperse sul territorio nazionale.
Al di fuori di queste fasce di parlanti, l’italiano era utilizzato prevalentemente – per non dire esclusivamente – come codice scritto, come lingua della mediazione letteraria e della comunicazione colta: ovviamente da parte di quegli italiani, numericamente limitati, che avevano potuto fruire di buoni livelli di istruzione.
Le restanti masse, gravate dal peso di un analfabetismo assai profondo e da precarie condizioni culturali, ancorate alla vita isolata di villaggi, borghi, piccoli centri urbani, utilizzavano nella comunicazione corrente il dialetto parlato nei singoli punti linguistici della penisola: la dialettofonia era la norma e i dialetti coprivano praticamente tutte le necessità di comunicazione.
Personalità di indiscusso rilievo sul piano culturale e politico, non nativi della Toscana, testimoniano la loro condizione di dialettofoni: celebri sono i casi di Alessandro Manzoni e del conte Camillo Benso di Cavour, abituati a usare i loro dialetti (il milanese e il piemontese, rispettivamente) come lingua di comunicazione corrente; cui si affiancava, per gli usi più formali e più sorvegliati, l’uso della lingua francese. L’italiano letterario era utilizzato come codice scritto, la cui competenza – nel caso del Cavour – era talmente problematica da far sì che l’illustre statista, quando dovette pronunciare il primo discorso al Parlamento del Regno d’Italia, si fece scrivere il testo in italiano, traducendolo dal francese, lingua che dominava perfettamente.
Nello spazio di circa centocinquant’anni – tanti sono quelli che ci separano dal tempo dell’unità nazionale – la situazione linguistica del nostro paese ha subito un radicale mutamento: l’italiano, da lingua sostanzialmente elitaria e minoritaria, si è via via diffuso tra fasce sempre più consistenti di connazionali; i numerosi dialetti della penisola hanno visto ridurre notevolmente (anche se non definitivamente, perché la vitalità dei dialetti è ancora salda) la loro funzione comunicativa.
Le cause di tale fenomeno, estremamente complesso e ancora in atto, sono fondamentalmente di natura extralinguistica e vanno ricercate nei grandi fenomeni di trasformazione subiti dall’intera società italiana.
I dialetti dell’aerea italiana
Dopo l’innalzamento del toscano a lingua nazionale, le lingue locali, diventate ormai dialetti, rimasero gli strumenti della comunicazione quotidiana, soprattutto orale. Ancora oggi persiste una situazione di frazionamento dialettale del parlato, anche se, dopo l’unità politica d’Italia, l’italiano si è sempre più diffuso nelle varie classi sociali e nelle varie regioni, avviandosi a diventare anche lingua orale. Allo stesso tempo i dialetti, pur continuando a essere usati, hanno perso i loro caratteri più marcati, si sono «annacquati» (come diceva un grande storico della lingua italiana, Bruno Migliorini). Essi rimangono però ancora oggi vitali e convivono con la lingua nazionale, nelle diverse regioni.
I dialetti possono essere così suddivisi:
1) Dialetti settentrionali: si dividono in dialetto veneto e nel gruppo di dialetti gallo-italici così chiamati perché parlati nelle zone un tempo abitate dai galli: piemontese, ligure, lombardo, emiliano;
2) Dialetti toscani: si dividono in tre aree: a) fiorentina; b) lucchese-pisana-livornese; e) senese-aretina.
3) Dialetti centrali: si suddividono in dialetto laziale settentrionale, dialetto umbro (della parte orientale dell’Umbria), dialetto marchigiano (della zona centrale delle Marche: la zona settentrionale fa parte dell’area emiliano-romagnola; la zona meridionale fa corpo con i dialetti meridionali, abruzzesi).
4) Dialetti meridionali: suddivisi nei due tipi a) napoletano (Lazio del Sud, Abruzzo, Campania, parte della Puglia e della Lucania); b) siciliano (Sicilia, Calabria, Salento).
Il sardo e il ladino non sono considerati dialetti, ma lingue romanze, derivate (come l’italiano) dal latino.
Naturalmente queste suddivisioni sono molto generali; ogni area dialettale si suddivide a sua volta in aree più piccole: basti pensare alle differenze dialettali fra città di una stessa regione o a quelle addirittura tra quartieri della stessa città, o fra la città e la campagna che la circonda.
Il processo di cambio linguistico
Da un’indagine statistica condotta dalla Doxa nell’ormai lontano 1974, relativa al rapporto tra uso del dialetto e uso dell’italiano in famiglia e al di fuori dell’ambito famigliare, emerse che l’uso dell’italiano anche in casa – cioè in un ambiente tradizionalmente legato agli usi dialettali – era proprio ormai del 25% degli italiani. Ma nei centri con più di 100.000 abitanti, la percentuale saliva al 41% e al 63% nei ceti con istruzione medio-superiore ed universitaria.
Il 67% dei genitori usava l’italiano, in casa, quando si rivolgeva ai figli e tale percentuale saliva al 74% nel caso delle donne: il che significa che le giovani generazioni erano sottoposte ad un processo di rapido cambio linguistico all’interno dello stesso nucleo famigliare.
Al di fuori dell’ambito famigliare, il 35,7% delle persone usava l’italiano; il 35,5% usava alternativamente italiano e dialetto; il 28,9% dichiarava di usare costantemente il dialetto. Ovviamente erano le persone anziane (oltre i 54 anni) a usare prevalentemente il dialetto (il 45,6%); le regioni ove più saldamente era attestato il dialetto erano il Trentino, il Veneto, la Venezia Giulia (il 41,7%), ancor più che le regioni del Mezzogiorno (36,9%).
A distanza di quasi quarant’anni, la situazione è certamente di nuovo mutata: l’italiano si diffonde sempre più a scapito del dialetto, soprattutto presso le giovani generazioni, fornite di maggiori livelli di istruzione e sottoposte a un influsso massiccio da parte dell’italiano diffuso dai mezzi di comunicazione di massa.
Gli italiani, da tradizionalmente dialettofoni – in massima parte – e legati ai livelli comunicativi dei luoghi di origine, hanno compiuto un lento cammino verso i registri dell’italiano, abbandonando progressivamente (anche se non definitivamente) l’uso del dialetto: distinguendo le sfere d’uso, per cui il dialetto viene magari usato in ambito famigliare, mentre l’italiano viene adottato come strumento di comunicazione per rapporti comunicativi più ampi e differenziati.
L’italiano regionale
Se è vero che il livello dell’italofonia è certamente cresciuto, è pur vero che l’italiano – così come si parla nelle diverse aree geolinguistiche del paese – appare fortemente diversificato, sia a livello di intonazione, sia a livello di pronuncia, sia, infine, a livello morfosintattico e lessicale.
Una prova? Non è necessario usare strumenti troppo sofisticati o scegliere laboratori d’analisi nascosti negli anditi delle accademie. Basta seguire, con un minimo di sensibilità linguistica le edizioni nazionali dei giornali radio o dei telegiornali, badando alle realizzazioni di italiano parlato che sono proprie degli uomini politici: l’italiano parlato da Antonio di Pietro è ben diverso dall’italiano parlato da Matteo Renzi, o da quello che suona in bocca a Gasparri o a Bersani; a loro volta, tali realizzazioni di italiano sono ben distanti dal tipo di italiano, fortemente sorvegliato, che è proprio della dizione degli attori quando recitano testi alti, non caratterizzati da elementi regionali; oppure, senza scomodare le regole delle scuole di dizione teatrale, tali realizzazioni di italiano parlato sono comunque sensibilmente distanti dalle realizzazioni sorvegliate degli speaker televisivi e radiofonici.
Ad un’analisi, anche condotta con metodi empirici, appare evidente la grande varietà delle realizzazioni dell’italiano nel contesto nazionale: esistono numerose varietà geografiche, ben radicate negli usi linguistici di parlanti che hanno appreso a parlare la lingua nazionale in un’area linguistica specifica; esiste una selva di pronunce, di intonazioni, di inflessioni che permettono di riconoscere con una certa facilità la provenienza geografica di un parlante italiano; la lingua standard-normativa è un modello linguistico verso il quale si orientano le diverse varietà regionali, ma esso è proprio di fasce molto ristrette di parlanti; mentre le varietà regionali sono, di fatto, le realizzazioni correnti, quelle utilizzate nella normale interazione.
A questo punto, ora che abbiamo visto come è nato e come si è sviluppato l’italiano, possiamo proporre un quadro complessivo, dando qui di seguito la descrizione dei principali fenomeni fonetici, morfosintattici, lessicali e fraseologici documentati nelle grandi aree geolinguistiche in cui si articola la situazione linguistica della penisola: traendo il materiale dagli importanti contributi di studiosi quali Giacomo Devoto, Bruno Migliorini, Manlio Cortelazzo, Giambattista Pellegrini, Tullio De Mauro.
Varietà di lingua
Ogni sistema linguistico che sia concretamente utilizzato come strumento di comunicazione per i parlanti che fanno parte di una comunità linguistica è caratterizzato dalla presenza di quelle che i linguisti definiscono con il termine varietà linguistiche, distinte, a loro volta, in varietà sociali (o verticali) e varietà geografiche (o orizzontali).
Varietà sociali di un sistema sono, ad esempio, i registri comunicativi, ossia i modi diversi attraverso i quali può essere realizzato un messaggio, secondo una scala che va dalla massima informalità alla massima formalità e in base a variabili di tipo extralinguistico (situazione comunicativa, interlocutori, scopo della comunicazione ecc.); così, se sono preso dai morsi della fame, potrò variare il mio registro comunicativo passando da realizzazioni di carattere prettamente informale (del tipo ho una fame da lupi, non ci vedo più dalla fame ecc.), a realizzazioni mediamente formali (del tipo vorrei mettere qualcosa sotto i denti), a realizzazioni di tipo decisamente formali (ad esempio, desidererei mangiare qualcosa ecc.).
Ognuna di queste scelte – ma è ovvio che le soluzioni sono praticamente molto più numerose e ognuno può sbizzarrirsi a piacere nel trovare opportune sostituzioni – non è libera, bensì è condizionata dal contesto e dalla situazione comunicativa: registri di tipo formale risultano poco comunicativi in situazioni linguistiche di carattere informale (tra amici, in famiglia ecc.), mentre registri di tipo informale sono del tutto impensabili in situazioni comunicative di carattere sorvegliato-formale.
Un altro esempio di varietà sociale di un sistema è dato dai cosiddetti linguaggi settoriali: ossia dalla gamma, vasta e articolata quanto vaste ed articolate sono le professioni, di usi linguistici propri di mestieri particolari: così, nel linguaggio della medicina il comune «raffreddore» viene definito come rinite (con un termine di tradizione greca), lo «svenimento» è detto, sempre nel linguaggio della medicina, lipotimia (nuovamente con un grecismo dotto). Gli esempi possono essere ovviamente moltiplicati, traendo spunto dai più diversi campi professionali.
Varietà geografiche (o orizzontali) di un sistema sono, invece, i diversi modi – differenziati territorialmente – in cui un sistema linguistico viene realizzato da parlanti inseriti in aree geolinguistiche definite: i numerosissimi dialetti italiani – esito dell’evolversi, nei diversi punti linguistici della penisola, del sistema latino-volgare nelle forme romanze – sono un esempio di varietà geografica di un sistema. Dal punto di vista strettamente linguistico – dal punto di vista, cioè, degli elementi strutturali che caratterizzano un sistema: tipologia dei fatti fonetici, morfosintattici, lessicali – non esiste alcuna differenza formale tra il dialetto parlato nell’ultimo paesino della più remota provincia meridionale o alpina e il dialetto, poniamo, di un centro urbano significativo a livello nazionale, quale può essere Milano, Torino, Firenze o Roma stessa.
Il dialetto del piccolo villaggio meridionale o alpino, al pari del dialetto di uno dei centri urbani sopra menzionati, altro non sono, dal punto di vista strettamente linguistico, se non l’ultimo stadio dell’evoluzione del sistema latino-romanzo in punti linguistici diversamente distribuiti sul territorio.
Diverso, ovviamente, è il peso sociale e culturale esercitato dal dialetto di un centro urbano rispetto al ruolo del dialetto di un modesto villaggio: entrano in gioco, nella valutazione di tipo sociolinguistico, altri parametri, che vanno al di là della semplice registrazione-analisi dei fatti linguistici e che investono la sfera di problemi socioeconomici, politici, culturali; di quei fatti che stanno alla base della organizzazione di una comunità complessa e articolata.
All’interno delle varietà geografiche di un sistema possono essere correttamente inseriti anche i cosiddetti italiani regionali (IR), in costante rapporto con l’italiano standard normativo (IS) che ha per base la varietà sorvegliata del dialetto fiorentino, nobilitato dall’uso letterario e testimone di una tradizione di indiscusso prestigio a livello nazionale (e internazionale, almeno in passato), sì da essere accolto come lingua nazionale dell’Italia unita.
Tratti caratteristici dell’IR di area settentrionale
Nel consonantismo esistono alcuni tratti fonetici propri degli IR di area settentrionale: uno dei tratti più caratteristici è la tendenza a rendere le consonanti intense (realizzate nell’IS con maggior durata e rappresentate, a livello grafico, mediante grafemi doppi) in posizione intervocalica mediante fonemi consonantici semplici: per cui, di contro alle realizzazioni dell’IS [pàtto], [tétto], [accétta], [pàcco], [tàcco], [pollo] ecc. (con /tt/, /kk/, /ll/ realizzate con decisa durata nell’IS), gli IR di area settentrionale tendono a rendere i fonemi intensi in questione con minor durata: per cui si sentono realizzazioni del tipo [pàto], [tèto], [acèta], [paco], [taco], [pòlo], oppure – in caso di pronunce più sorvegliate – [pat(t)o], [tèt(t)o], [ac(c)èt(t)a], con i fonemi intensi realizzati comunque con minore intensità rispetto alle pronunce dell’IS.
Tale riduzione dell’intensità è propria anche di fonemi intensi quali /ñ/, /λ/, /ʃ/: per cui, gli italiani regionali settentrionali realizzano [ògni], [légno], [pégno] (di contro alla pronuncia dell’IS che prevede gli esiti [òññi], [péñño], [léñño]); anche [làʃo] è proprio degli IR di area settentrionale, in opposizione all’esito [làʃʃo] dell’IS.
Un altro esito particolare degli IR di area settentrionale è la mancanza di opposizione tra /s/ sorda e /ṡ/ sonora in posizione intervocalica: per cui, mentre l’IS oppone [fuso] (part. pass. del verbo fondere) a [fuṡo] «strumento per filare la lana», l’IR di area settentrionale realizza le due forme mediante l’unica forma [fuṡo] che copre i due significati.
Parallelamente, mentre l’IS oppone /z/ a /ż/ (per cui si sentono [zio], [zùcchero], con /z/, ma [żero], [żòna] con /ż/), gli IR di area settentrionale conoscono l’unico esito /ż/: per cui si sente [żùc(c)hero], [żio] al pari di [żero], [żòna].
Nel vocalismo, come tratto generale proprio degli IR di area settentrionale, è diffusa la tendenza a realizzare con maggior intensità la vocale tonica (colpita da accento) rispetto a quanto avviene nell’IS; inoltre, mentre l’IS oppone /è/ ad /é/ e /ò/ ad /ó/, gli IR di area settentrionale tendono a non documentare questa opposizione e a rendere con un unico fonema vocalico i due fonemi in questione: così, mentre l’IS oppone [vénti] «numerale 20» a [vènti] «movimenti delle masse d’aria», gli IR di area settentrionale realizzano i due significati mediante un’unica forma (a Milano, ad esempio, [vénti] vale tanto il «numerale 20» quanto «movimenti delle masse d’aria»).
Sul piano morfosintattico, uno dei tratti più caratteristici degli IR di area settentrionale è la tendenza a eliminare l’opposizione, proprio dell’IS, tra passato remoto e passato prossimo, a favore del passato prossimo: per cui si sente dire tranquillamente due anni fa sono stato a Roma e un’ora fa sono tornato da Roma, mentre l’IS realizza con due anni fa fui a Roma e un’ora fa sono tornato da Roma.
Sul piano del lessico e della fraseologia, voci proprie degli IR di area settentrionale sono, ad esempio, giocare a nascondersi per «giocare a nascondino», fregarsi gli occhi per «stropicciarsi gli occhi», verza per «cavolo», anguria per «cocomero», scodella per «tazza senza manico», pianoterra per «pianterreno», solaio per «soffitta», imposte per «persiane», sberla per «schiaffo», dopopranzo per «pomeriggio» ecc.
Tratti caratteristici dell’IR di area toscana
Nel consonantismo, l’IR di area toscana è molto prossimo alle realizzazioni dell’IS: pur tuttavia, esistono dei tratti peculiari, quali ad esempio (irradiata da Firenze, soprattutto nelle realizzazioni non sorvegliate), la realizzazione spirantizzata di /p/, /t/, /k/ intervocaliche con soluzioni del tipo [ph], [th], [kh]: per cui si sente [tìpho] per tipo, [dìtho] per dìto, [la hàsa] per la casa. Addirittura, in caso di pronunce più marcate, la spirantizzazione può giungere fino al dileguo: per cui si sentono forme quali [tì’o], [dì’o], [la’àsa]. Chiaramente distinta, invece, è l’opposizione tra /z/ sorda e /ż/ sonora: per cui [zio], [àlzo], [pàzzo] di contro a [żèro], [òrżo], [różżo].
I fonemi /c/ e /g/ intervocalici tendono ad essere realizzati rispettivamente mediante [sc] e [ṡg]: per cui [pàsce] per pàce e [raṡgione] per ragione. Nel vocalismo, tipica dell’IR di area toscana è l’opposizione tra /è/ ed /é/, /ò/ e /ó/: su tale base si fonda il vocalismo dell’IS formato, come è noto, da sette fonemi vocalici: i quattro sopra elencati, il fonema /a/, e i fonemi /i/ (palatale) e /u/ (velare).
Sul piano morfosintattico, caratteristica dell’IR di area toscana (tratto poi passato anche ad altri I R) è l’uso dei pronomi personali lui, lei, loro in funzione di soggetto in luogo di egli, esso, ella, essa, essi, esse; ancora, tipico dell’IR di area toscana è l’uso della forma soggetto te in luogo della forma tu dell’IS.
Nell’ambito del sistema verbale, tipica dell’IR di area toscana è la tendenza a sostituire la prima persona plurale del verbo mediante la struttura noi + forma impersonale preceduta da si: ad esempio, noi si va (in luogo di «noi andiamo»); inoltre, soprattutto nelle realizzazioni linguistiche non sorvegliate, l’IR di area toscana documenta la sostituzione, nelle terze persone plurali del presente indicativo, di -ano per -ono, e di -ino per -ano nella terza persona plurale del presente congiuntivo: per cui dicano in luogo di «essi dicono» e dichino in luogo di «essi dicano».
Sul piano del lessico e della fraseologia, l’IR di area toscana documenta forme del tutto peculiari, alcune delle quali sono poi passate anche nell’IS, mentre altre hanno circolazione limitata entro i confini regionali: ad esempio acquaio per «lavandino», anello per «ditale», anno per «un anno fa», balocco per «giocattolo», bizze per «capricci», cacio per «formaggio», camiciola per «maglia», doddo per «stupido», far forca per «marinare la scuola», giubba per «giacca», granata per «scopa», levarsi per «alzarsi», midolla per «mollica», mota per «fango», nettezza per «immondizia», peso per «pesante», pizzicagnolo per «salumiere», rigovernare per «lavare i piatti», saetta per «fulmine», sciocco per «insipido», sortire per «uscire», rinnovare per «inaugurare», tocco per «le ore una», trasporto per «funerale», trombaio per «idraulico» ecc.
Tratti caratteristici dell’IR di area romana
Nel consonantismo uno dei tratti più caratteristici dell’IR di area romana è la realizzazione del fonema /b/ e del fonema /g/ in posizione intervocalica quasi fossero fonemi intensi: sì che sono del tutto normali realizzazioni del tipo [àbbile] per «abile», [tùbbo] per «tubo», [àggile] per «agile» ecc. Di contro /rr/ è realizzato con [r] semplice: per cui [tèra] per «terra».
Altro tratto tipico del consonantismo dell’IR di area romana è la tendenza a realizzare /č/ in posizione intervocalica come [sc]: per cui si sentono pronunce del tipo [pàsce] per «pace», [tàsce] per «tace», [piàsce] per «piace». Ancora, il fonema /s/ preceduto da nasale si realizza come [z]: per cui si hanno realizzazioni del tipo [pénzo] per «penso», [pólzo] per «polso»; il fonema /λ/ (gl) tende ad essere ridotto e sostituito da [j]: per cui si hanno pronunce del tipo [fìjo] per «figlio», [vòja] per «voglia» ecc.
Nel vocalismo, come nell’IR di area toscana, esiste opposizione fonologica tra /è/ ed /é/ e tra /ò/ e /ó/ in sillaba tonica: ma la selezione è incongruente con gli esiti fiorentini; così mentre a Firenze si dice [lèttera], a Roma domina la forma [léttera], e mentre a Firenze si dice [colónna], a Roma la forma dominante è [colònna].
Sul piano morfosintattico, tipica dell’IR di area romana è la sostituzione del futuro indicativo mediante il presente indicativo (vengo domani invece di «verrò domani»), e tipica è anche la regressione del congiuntivo (penso che tu hai ragione invece di «penso che tu abbia ragione»).
Il lessico e la fraseologia dell’IR di area romana presentano numerosi elementi peculiari: molti dei quali, grazie al ruolo egemone (attraverso cinema, radio e televisione, concentrati a Roma) della varietà romana, si sono diffusi ampiamente anche in altre aree geolinguistiche della penisola.
Forme tipicamente romane sono, ad esempio, abbacchio per «agnello da latte macellato», arena «cinema all’aperto», beccamorto «becchino», borgata «quartiere di periferia», botticella «carrozza a noleggio», brustolini «semi di zucca», bullo «sbruffone», burino «rozzo», caciara «chiasso», bustarella «somma di danaro data a scopo di corruzione», cafone «incivile», cocuzza «zucca», dritto «furbo», fanatico «vanaglorioso», fattaccio «fatto di cronaca nera», guanciale «parte del lardo», lagna «lamento», lenza «furbo», macello «disastro», menare «picchiare», malloppo «bottino», mondezza «immondizia», non ti impicciare «non ti intromettere», pallonaro «chi racconta menzogne», pappagallo «corteggiatore fastidioso», pappone «sfruttatore di donne», pizzardone «vigile urbano», pupo «bambino», racchio/racchia «persona di aspetto sgradevole», rimediare «ottenere», rione «quartiere», saperci fare «essere abile», scorfano «persona deforme», sganassoni «schiaffi sonori», sorci verdi «cose mai viste, incredibili», spupazzare «portare in giro», tardona «donna anziana», tombarolo «scavatore abusivo di antichità» (specialmente detto di chi infrange le tombe etrusche), zompare «saltare», zozzo «sudicio», scippo «furto» ecc.
Tratti caratteristici dell’IR di area meridionale
Tratti caratteristici degli IR meridionali, a livello di consonantismo sono la tendenza a realizzare le consonanti sorde (/t/, /k/, /p/) come sonore /d/, /g/, /b/ se si trovano in posizione intervocalica e dopo consonante nasale (talvolta anche dopo /l/): per cui si hanno forme del tipo [angóra] per «ancora», [indèrno] per «interno», [témbo] per «tempo», [àldo] per «alto» ecc.
I nessi consonantici c + j, praticamente semplificati negli IR centrosettentrionali (ove si sente [cèlo] per «cielo», [scènza] per «scienza») sono invece particolarmente realizzati nelle varietà di IR meridionale: per cui [cièlo], [sciènza], [cièco] ecc. con forte realizzazione della j.
La consonante /s/ seguita da altra consonante, tende ad essere realizzata con forte palatalizzazione (soprattutto nell’IR di area napoletana, ove si sente [višpo] per «vispo», [tašca] per «tasca», [štare] per «stare» ecc.; dopo consonante nasale, invece, il fonema /s/ si realizza come /z/: per cui [pénzo] per «penso».
Tipica della varietà dell’IR siciliano è la realizzazione dei fonemi dentali (esempio /dd/) mediante fonemi cosiddetti retroflessi: per cui si sente [cavaḍḍu] per «cavallo».
Nel vocalismo degli IR di area meridionale è tipica la tendenza a realizzare debolmente i fonemi vocalici delle sillabe finali, mediante una vocale dal timbro indistinto, simile alla e muta francese (e rappresentata mediante una e rovesciata [ə]): per cui si sentono forme del tipo [libbrə] «libro», [castellə] «castello» ecc.
Le vocali toniche, invece, sono articolate con maggior energia di quanto avvenga nell’IS; tranne che in area pugliese ove è diffusa la realizzazione di /a/ tonica come [e]: per cui [bèri] per «Bari», [chène] per «cane». Sul piano morfosintattico, caratteristica degli IR di area meridionale è l’inserzione della preposizione a in alcuni contesti: ad esempio, in unione con sostantivi del tipo amico, figlio, per cui si sentono forme del tipo amico a Michele per «amico di Michele», figlio a Salvatore per «figlio di Salvatore». La preposizione a introduce il complemento diretto di nomi animati, in molti IR di area meridionale, dopo verbi transitivi: per cui io ho visto a te in luogo di «io ti ho visto», Raffaele ha trovato a Marco in luogo di «Raffaele ha trovato Marco».
Nell’ambito del verbo, caratteristica di gran parte degli IR di area meridionale è la mancanza del futuro, sostituito dal presente e, ancora, la generalizzazione del passato remoto, anche nei casi in cui ci si attenderebbe il passato prossimo (in speculare divergenza rispetto a ciò che accade negli IR di area settentrionale).
Il congiuntivo è sostituito molto spesso dall’indicativo e, soprattutto ai livelli meno sorvegliati della comunicazione, congiuntivo e condizionale (se usati) presentano numerosi scambi fra loro: si hanno quindi i tipi se direi, farei; se direi, facessi; se dicessi, facessi; accanto ovviamente alla forma dell’IS «se dicessi, farei».
Nell’ambito del lessico e della fraseologia, numerosi sono, ovviamente, gli elementi peculiari e propri degli IR di area meridionale: da alzare il letto nel significato di «rivoltare i materassi», a buttare nel senso di «versare»; da cacciare nel senso di «cavar fuori, tirar fuori» a calare nel senso di «portar giù»; camorra è voce propria dell’IR di area campana e da lì si è diffusa a livello nazionale per indicare una «associazione a delinquere»; carnezzeria è il corrispondente, negli IR di area meridionale, del termine «macelleria»; catarro vale «raffreddore», cercare ha il significato particolare di «chiedere»; compare è il «padrino»; cosca indica «società di mafiosi» e dall’IR di area siciliana, assieme al termine mafia, si è diffusa a livello nazionale; far la cucina significa «rigovernare», fatica ha il valore molto pregnante di «lavoro» e il verbo corrispondente fatica’ significa, appunto, «lavorare»; fanatico, negli IR di area meridionale, ha il valore di «vanesio»; festa vale «vacanza»; fusilli è termine che indica un particolare tipo di pasta, diffusa dal Mezzogiorno in tutt’Italia; galantuomo è voce meridionale nel significato, ben noto, di «signore»; il verbo imparare significa «insegnare» (ti imparo la musica vale «ti insegno la musica»); incartamento, termine tipico della burocrazia, vale «fascicolo» ed è voce che ha fatto lunga strada, imponendosi anche negli altri IR; intrallazzo, altra voce meridionale che ha avuto grande fortuna a livello nazionale, significa «imbroglio»; il termine lenti vale «occhiali», mentre l’espressione levare la tavola significa «sparecchiare»; magari nell’IR di area siciliana significa «forse»; mettersi paura, vergogna sono espressioni che corrispondono alle forme dell’IS «impaurirsi, vergognarsi»; mola è «il dente»; omertà, esito meridionale perfettamente corrispondente al toscano umiltà – essendo entrambi derivati da una forma lat. volgare humilitate(m) – vale «assoggettamento, sottomissione alle leggi della camorra»: tale voce ha avuto un’ampia diffusione a livello nazionale nel significato, più generale, di «silenzio complice nei confronti di un fatto»; passaggio in alcuni IR di area meridionale vale «piccolo gesto audace nei confronti di una donna, avance»; paesano è, negli IR di area meridionale, il «concittadino»; quarto, quartiere, quartino significa «appartamento», salire e scendere sono usati nel significato transitivo di «portar su/giù»; scarafone è voce meridionale popolare e sta ad indicare lo «scarafaggio»; scassare, ormai ben diffuso anche al di fuori dell’area meridionale, significa «rompere»; sfizio, «divertimento, piacere» è voce di irradiazione napoletana e ben nota ormai a livello nazionale; stare sostituisce, in tutti gli IR di area meridionale, il verbo «essere» (sto a scuola per «sono a scuola»), così come tenere sostituisce pienamente il verbo «avere» (tengo moglie e figli per «ho moglie e figli»; tengo fame per «ho fame»); trafficato vale «affollato», mentre l’avverbio troppo è usato al posto di «molto»: è troppo simpatico vale «è molto simpatico»; uscire pazzo è espressione che vale «impazzire»; villa ha il significato primario di «giardino pubblico».