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L’America volta pagina: l’effetto Obama

Saggio di redazione

Saggio di redazione 

Da Martin Luther King a Rosa Parks, da Oscar Dunn a Colin Powell, da Sidney Poitier a Toni Morrison, passando per William Dehart Hubbard, Hattie McDaniel, Guion Stewart Bluford e Carole Gist: il ricordo di tutti i neri che hanno saputo infrangere le barriere nel corso della storia è vivo nella gioia di coloro che – tra abbracci, lacrime e urla di felicità – hanno esultato per l’elezione di Barack Obama, primo cittadino afro-americano a insediarsi alla Casa Bianca.
Ma al di là del fascino della «vittoria colorata» e della soddisfazione di veder incarnato nella massima carica dello Stato il sogno di un’America pienamente multietnica, l’«effetto Obama» sta soprattutto nella scoperta di una possibilità che si credeva dimenticata: quella di riscrivere l’America in chiave «liberal».

Si tratta di un’aspettativa probabilmente esagerata. C’è poco di liberal, infatti, in un candidato che promette di intensificare gli sforzi militari in Afghanistan, ma perché negarsi di sognare ascoltando Obama ammettere che l’invasione dell’Iraq è stata «ingiusta»? Uno sguardo anche superficiale alla squadra di governo che accompagnrà la sua presidenza non lascia molto spazio alla speranza in una discontinuità nei confronti di un’America che ha prodotto le crisi e le insicurezze che stiamo vivendo; ma perché cercare di reagire alla gioia che si prova sentendolo pronunciare il suo primo discorso da presidente?

«Questa sera abbiamo dimostrato che la vera forza della nostra nazione deriva non dalla potenza delle nostre armi o dalla nostra ricchezza ma dal potere sempiterno dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e incrollabile speranza. La nostra unione può essere migliorata. Ciò che abbiamo già realizzato ci dà la speranza per ciò che possiamo e dobbiamo realizzare domani. Non sono mai stato il candidato più probabile per questo incarico. Quando abbiamo cominciato avevamo pochi soldi e pochi appoggi.
La nostra campagna non è stata architettata nei corridoi di Washington: è partita dai cortili di Des Moines, dai salotti di Concord, dalle verande di Charleston. È stata costruita da lavoratori e lavoratrici che hanno attinto ai loro magri risparmi per versare 5, 10, 20 dollari per la causa. È diventata forte grazie ai giovani che hanno rigettato il mito dell’apatia della loro generazione, che hanno lasciato le loro case e le loro famiglie per fare lavori che promettevano pochi soldi e poche ore di sonno. Ha attinto forza da quelle persone non più così giovani che hanno sfidato il freddo pungente e il caldo soffocante per andare a bussare alla porta di perfetti estranei, e da quei milioni di americani che hanno lavorato come volontari e hanno coordinato, e che hanno dimostrato, più di due secoli dopo, che un governo del popolo, dal popolo e per il popolo è ancora possibile. Questa è la vostra vittoria». E poi, infine, la dedica speciale alla moglie, la sua «migliore amica, la donna senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile, la compagna della mia vita. Michelle, la nuova first lady».

Con un po’ d’invidia, molti italiani – abituati dai nostri politici a ben altri stili di comportamento – avranno apprezzato anche il discorso del candidato sconfitto John McCain, che così si è rivolto alla alla folla che lo attendeva a Phoenix:

«Amici miei, siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio. Il popolo americano ha parlato e ha parlato chiaramente. Abbiamo lottato duramente e non ce l’abbiamo fatta, il fallimento è mio, non vostro. Ora bisogna rimettere in pista questo Paese. Oggi ero candidato alla più alta carica nel Paese che amo così tanto. E stanotte resto suo servitore. Stanotte, più che ogni altra notte, il mio cuore non racchiude altro che amore per questo Paese e per tutti i suoi cittadini che abbiano sostenuto me o il senatore Obama. Auguro buona fortuna all’uomo che è stato il mio ex avversario e che sarà il mio presidente».

Festeggiamenti
Manca poco all’alba del 5 novembre 2008 quando la CNN rompe gli indugi e annuncia che «Obama è presidente». Subito, nelle strade americane, scoppia la festa: la zona della Casa Bianca, solitamente controllata in modo più che rigoroso dalla polizia, per una sera torna ad appartenere alla gente, tutta al grido di «Obama, Obama» e «Yes We Can», con cartelli, sciarpe, magliette, tra gli abbracci dei sconosciuti e applausi al cielo, il tutto nonostante la pioggia. Barack stravince così le elezioni contro il candidato del partito repubblicano John McCain e commosso pronuncia le sue prime parole in veste di leader: «Ora il cambiamento è arrivato. Non ci sono Stati blu e Stati rossi, ci sono gli Stati Uniti d’America».

Dichiarazioni
Un’«occasione storica» per il papa, un’«ineguagliabile prova di forza e vitalità della democrazia americana» per Napolitano, «la speranza di un’America aperta, solidale e forte» per il presidente francese Nicola Sarkozy, «un nuovo respiro nei rapporti bilaterali» secondo il premier Vladimir Putin, centinaia di frasi commosse e congratulazioni di rito espresse dalle personalità di spicco di tutto il mondo: l’America volta pagina, ma Obama sarà davvero l’uomo della svolta?

Crisi
Rispetto ai suoi quarantatre predecessori, il giovane presidente per la quantità e la complessità delle crisi che lo aspettano sarà forse secondo soltanto a Franklin Delano Roosevelt: la peggiore crisi economica dalla Grande Depressione, Iraq, Afghanistan, Medio Oriente, Russia, terrorismo, riscaldamento globale, e la capacità di guidare tutti i democratici.

«Effetto Obama»
Obama rappresenta la felice sintesi tra Africa e America, tra bianchi e neri; con la sua vittoria ha fatto riscoprire l’orgoglio e la dignità a ogni cittadino americano di origine africana. Ma chi è veramente Barack Obama? Nato il 4 agosto 1961 a Honolulu, negli Stati Uniti, da padre nero del Kenya e da madre bianca del Kansas, il neoeletto presidente si insedierà nello Studio Ovale della Casa Bianca tra settantasei giorni impugnando la palma dei record imbattuti: il primo presidente eletto con il maggior numero di voti nella storia americana da un ventaglio di comunità e con un sostegno internazionale oscillante fra il settanta e il novanta per cento.

È come se per un attimo l’America avesse dimenticato del peso che la opprime da mesi, esaltando il suo nuovo presidente che riflette l’immagine delle conquiste dei diritti civili di tutto il popolo americano, della vittoria della libertà sul razzismo: Obama ha vinto grazie ai bianchi che vivono nei sobborghi delle grandi città, grazie agli ispanici che si sono dimenticati decenni di rivalità, grazie ai giovani che hanno scommesso sul loro futuro, grazie ai cattolici che hanno scordato le aspettative di chiudersi davanti al cambiamento. Ancora una volta gli Stati Uniti hanno sorpreso tutti, hanno scompaginato la nostra quotidianità, il nostro modo tradizionale di pensare, la stessa realtà dentro la quale faticosamente operiamo ci appare d’incanto diversa. Per anni del mondo statunitense abbiamo colto soltanto gli aspetti meno nobili: gli affari da perseguire senza troppi scrupoli, il denaro comunque accumulato, la carriera in ogni modo realizzata. E poi il consumismo, il pragmatismo, il dogmatismo e l’esasperato individualismo.

D’altro canto, abbiamo ignorato che al fondo della società americana sottende la cultura calvinista, mai rinnegata dal popolo americano, cultura che al momento opportuno emerge per assumere prodigiosamente quel ruolo purificatorio che ogni volta salva la nazione e stupisce il mondo.
Nelle sue memorie Dreams from My Father, scritte nel 1995, Barack Obama ha raccontato al mondo della sua infanzia trascorsa alle Hawaii e in Indonesia, il viaggio in Kenya quando era già adulto sulle orme del padre, quando ha tracciato la sua identità ibrida di africano, di asiatico, di americano, di bianco e di nero. Un’identità animata da un profondo ottimismo americano, ma anche da un idealismo ricavato dalle esperienze più semplici della vita. E ci ha parlato anche della sua famiglia: ceto medio, indifferenza per il colore della pelle, genitori laureati, uso di droghe nel periodo dell’adolescenza, laurea in scienze politiche in relazioni internazionali, scelta di dedicarsi a un progetto no profit volto all’organizzazione di programmi di apprendistato nei quartieri periferici, studi di perfezionamento in giurisprudenza a Harvard.

Obama
Dopo il liceo, Obama studiò all’Occidental Collage, prima di spostarsi al Columbia College della Columbia University, dove ottenne la prima laurea in scienze politiche, con una specializzazione in relazioni internazionali.
Inizia quindi a lavorare per la Business International Corporation, agenzia fornitrice di notizie economiche di carattere internazionale.
Dopo tre anni passati ad aiutare i poveri del South Side, dove dirigeva un progetto no-profit assistendo le chiese locali nell’organizzare programmi di formazione, Obama partì per la prestigiosa Università di Harvard. È il 1988 quando Barack si trasferisce a Harvard: qui, non solo si laureò in legge, ma divenne il primo direttore nero della Law Review.
L’anno successivo incontra la sua futura moglie Michelle Robinson, avvocato associato nello studio dove Obama sta praticando uno stage estivo. Ottiene il dottorato magna cum laude nel 1991 e l’anno seguente sposa Michelle. In seguito anche lui divenne avvocato, senza però esercitare la professione.

Tornato a Chicago, dirige prima il movimento voter registration drive, per far registrare al voto quanti più elettori possibili, poi come avvocato associato lavorò per difendere organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti civili e del diritto di voto. Nel 1992 consegnò all’allora candidato alla Casa Bianca, Bill Clinton, almeno 100mila voti nella città di Chicago.

Nel 1993 inizia a insegnare Diritto costituzionale presso la Scuola di legge dell’Università di Chicago, attività che porta avanti fino al 2004, quando si candida per il Partito Democratico e viene eletto al Senato federale. 
Battuta d’arresto nel 2000, quando concorse nelle primarie democratiche dell’Illinois e perse contro un avversario più nero di lui, Bobby Rush. La prima circostanza che gli ha accordato vasta notorietà nazionale è stata la convention democratica del 2004, della quale ha pronunciato il discorso introduttivo: con la sua voce da baritono, si richiamò alla filosofia dell’amata madre che credeva nell’esistenza di un’umanità comune. 
Voci su una possibile candidatura alle presidenziali del 2008 si erano intensificate già dopo la sua vittoria al Senato Federale dell’Illinois, nonostante la smentita dell’interessato. È l’unico senatore afroamericano quando a Springfield il 10 febbraio 2007 annuncia ufficialmente la sua candidatura per le elezioni presidenziali del 2008.

Le elezioni
Membro del suo stesso partito e anche lei in corsa per la Casa Bianca è Hillary Clinton, l’ex first lady e senatrice dello stato di New York, la grande favorita della vigilia. Dopo una lunga cavalcata testa a testa, a fine giugno si chiudono le primarie del Partito Democratico con la vittoria «a sorpresa» di Obama.
È il 3 giugno 2008 quando Obama ottiene il quorum necessario per la nomination democratica, diventando così il primo nero a correre per la Casa Bianca per uno dei due maggiori partiti. L’incoronazione ufficiale di Obama come candidato Democratico è arrivata il 28 agosto a Denver.

«Effetto Obama»
E così Mister Obama ce l’ha fatta. Mentre mezzo mondo era impelagato nella palude del crack finanziario americano, il keniota ha preso la rincorsa e ha tagliato il traguardo. Ha conquistato la Casa Bianca nel segno del cambiamento leggendo il senso del diffuso disagio e dell’inquietudine che percorrono gli Stati Uniti, i ceti e i gruppi sociali, anche coloro che hanno votato per McCain. Un uomo che giunge alla soglia della Casa Bianca dove avevano regnato gli eletti dell’aristocrazia e della tradizione, e la varca oggi esaltando la vitalità della democrazia americana nel tempo più buio. Quello che è sicuramente cambiato e che ha contribuito alla vittoria di Obama, è il modo di vivere e sentire la questione razziale in America.

I più entusiasti sostenitori di Barack Obama dicono che portare il candidato democratico alla Casa Bianca significa trasformare l’America, ma a ben vedere il Paese si è già trasformato, perché la nomination di Obama vent’anni fa non sarebbe stata mai possibile. È invece possibile oggi perché le divisioni razziali, che da più di quarant’anni spingono verso destra la politica americana, hanno perso molto del loro «smalto», a conferma che in questi anni di «globalizzazione» il mondo ha cambiato l’America più di quanto l’America abbia cambiato il mondo.

Quanto alla figura del presidente eletto, in questi mesi torrenti d’inchiostro hanno colorato migliaia di pagine bianche sulla sua identità etnica. Il suo background mulatto, la sua appartenenza più o meno legittima alla famiglia afro-americana, la sua abilità di ricomprendere e superare le precedenti generazioni della negritudine a stelle e strisce. Tuttavia, se quasi tutti i neri lo sentono come il loro presidente, una buona quota di bianchi giunge alla stessa conclusione, partendo da altre premesse: Obama è nero per i neri, post-etnico per i bianchi.
Anche la «nostra» vecchia Europa, timorosa di cambiare e di sognare in proprio, si è perdutamente innamorata del nuovo presidente americano. Si è invaghita della sua capacità visionaria, della sua giovinezza, della sua voglia di novità. E questo innamoramento non è certo senza motivo. Il fattore immagine, che pur esisteva, è stato riempito di sostanza da Barack, con una abilità e una sottigliezza che sembrano smentire quanti gli rimproverano mancanza di esperienza e ingenuità nelle questioni internazionali.

Tutti i messaggi che ha lanciato, dalla necessità di abbattere i muri a quella di ricostruire una vera solidarietà atlantica, dalla richiesta di aiuto in Afghanistan all’apertura verso la Russia, dalla costruzione di una società aperta e globale all’impegno per combattere il riscaldamento del Pianeta, avevano sempre come interlocutori l’America e l’Europa, intesa come quell’unicum che dovrebbe e vorrebbe essere, e che non è. Obama presenta agli europei anche un atto di umiltà, riconoscendo esplicitamente gli «errori» del suo predecessore, George Bush. Con il coraggio e il carisma che lo contraddistinguono, è andato all’estero, cioè da noi, affermando: «So che il mio Paese non è perfetto.
Ci sono state occasioni in cui abbiamo dovuto lottare per i nostri diritti. Abbiamo fatto degli errori», e ammettendo che l’invasione dell’ Iraq è stata «ingiusta». Obama ha inoltre riconosciuto che la lotta al cambiamento climatico deve essere una priorità condivisa anche dagli Stati Uniti.
L’inizio del «divorzio» tra Bush e l’Europa avvenne proprio con il rifiuto americano di ratificare il protocollo di Kyoto, gesto che a molti parve l’atto di arroganza di una super-potenza che non vuole pagare il conto dei danni che produce, proprio mentre gli europei si sobbarcavano l’onere gravoso di tagliare le emissioni e di intraprendere in solitudine la strada in salita della terza rivoluzione industriale.
Obama è in grado di parlare al mondo, e intende farlo. Parlerà con l’Iran, parlerà con i palestinesi di Hamas, parlerà con la Russia di Putin e Medvedev, parlerà probabilmente, con la Siria, e si proporrà come interlocutore privilegiato dei Paesi africani.

La first lady
E poi Barack ha potuto contare sempre su sua moglie, Michelle Robinson, forse la candidata first lady più attiva della storia in campagna elettorale, un metro e ottanta di forza, decisione, bellezza ed eleganza. Nata il 17 gennaio 1964 nel South Side di Chicago, figlia di un impiegato dell’acquedotto di Chicago e di una segretaria, dal 1992 signora Obama, Michelle vanta ben due lauree prestigiose: una in sociologia conseguita a Princeton, l’altra in legge ottenuta a Harvard, entrambe conquistate con il massimo dei voti.
Colorata, sofisticata, vagamente aggressiva, stretta in tubini neri e rossi, o dall’improbabile turchese, lady Obama sa essere elegante nella sua essenzialità e c’è chi ha azzardato addirittura un paragone con Jacqueline Kennedy. Eppure le spine non sono mancate: è bastata una dichiarazione della nerissima Michelle a scatenare una serie di attacchi. All’inizio della campagna elettorale, quando giocava a fare la dura, quale probabilmente è, la signora Obama dichiarava di essere stata contraria alla candidatura del marito, e che solo quando Barack ha iniziato a vincere si è sentiva fiera di essere americana «per la prima volta» nella sua vita.
I repubblicani l’hanno così punzecchiatura per mesi per il suo presunto antipatriottismo e per l’odio contro l’America dei bianchi predicato nella chiesa di Obama, dal reverendo Jeremiah Wright. Perché il colore della pelle di Michelle è sempre stato un problema «in sé», e la percezione che gli americani hanno della «negritudine» di Barack Obama è ben diversa da quella che hanno di sua moglie. Barack non è il discendente di una famiglia che ha conosciuto la schiavitù, suo padre era un cittadino kenyota nato libero nella sua terra. Michelle, invece, porta il segno delle catene. E di quel segno gli americani hanno paura, e hanno paura perché è il segno della loro vergogna, del loro peccato, e da chi ha quel segno si aspettano e temono, pur senza confessarlo, una vendetta.
Toccava a Michelle esorcizzare la paura, e così nei mesi l’attivista dei diritti degli afroamericani, ha addolcito la sua immagine, ha levigato ogni asprezza, ha smesso di tenere comizi appassionati sulle ingiustizie della società a stelle e strisce, lasciando trapelare un’immagine di sé più delicata e materna. Michelle Obama, stile spigliato e colloquiale, è andata oltre, oltre i pregiudizi e il suo orgoglio, ed ora entra alla Casa Bianca da padrona portando le sue competenze di avvocato di diritto aziendale, anche se dice che la sua priorità sarà il suo ruolo di mamma per le due bambine della coppia, Malia di 10 anni e Sasha di 7. Seguendo l’arco della stellare carriera politica del marito, negli ultimi anni la Robinson è stata ripetutamente sotto i riflettori.
Nel maggio del 2007, tre mesi dopo la candidatura di Obama alle presidenziali, ha ridotto la sua attività professionale dell’ 80% per stare al fianco del coniuge. Nel mese di febbraio del 2008, uno dei momenti clou della corsa delle primarie, ha partecipato a ben trentatre eventi pubblici in soli otto giorni. Ha mostrato un carattere ironico, raccontando vari aneddoti, e ha parlato anche di un «accordo» stilato con il marito: il suo sostegno in cambio della promessa di smettere di fumare. E si, la carta vincente di Obama è stata proprio Michelle, lei che rifiutò inizialmente ogni corteggiamento, e poi fece cadere le difese solo quando lo sentì parlare in una chiesa nera ad un gruppo di disoccupati e rimase colpita «dal modo che lui aveva di rivolgersi a quella gente».

Il discorso
E la vittoria è arrivata. La sera tra il 4 e il 5 novembre una folla multirazziale ed entusiasta ha accolto sulle note di Sweet Home Chicago il presidente Obama sventolando bandiere a stelle e strisce, in un grande parco di Chicago, assediato all’esterno da un’altra folla che non è potuta entrare nello spazio da 70.000 posti preparato per l’evento. Questo il suo primo discorso:

«Questa sera abbiamo dimostrato che la vera forza della nostra nazione deriva non dalla potenza delle nostre armi o dalla nostra ricchezza ma dal potere sempiterno dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e incrollabile speranza. La nostra unione può essere migliorata. Ciò che abbiamo già realizzato ci dà la speranza per ciò che possiamo e dobbiamo realizzare domani».
Poi, lacrima sul viso, racconta del suo tragitto percorso per raggiungere la meta:

«Non sono mai stato il candidato più probabile per questo incarico. Quando abbiamo cominciato avevamo pochi soldi e pochi appoggi. La nostra campagna non è stata architettata nei corridoi di Washington: è partita dai cortili di Des Moines, dai salotti di Concord, dalle verande di Charleston. È stata costruita da lavoratori e lavoratrici che hanno attinto ai loro magri risparmi per versare 5, 10, 20 dollari per la causa. È diventata forte grazie ai giovani che hanno rigettato il mito dell’apatia della loro generazione, che hanno lasciato le loro case e le loro famiglie per fare lavori che promettevano pochi soldi e poche ore di sonno. Ha attinto forza da quelle persone non più così giovani che hanno sfidato il freddo pungente e il caldo soffocante per andare a bussare alla porta di perfetti estranei, e da quei milioni di americani che hanno lavorato come volontari e hanno coordinato, e che hanno dimostrato, più di due secoli dopo, che un governo del popolo, dal popolo e per il popolo è ancora possibile. Questa è la vostra vittoria».

E poi, infine, la dedica speciale alla moglie, la sua «migliore amica, la donna senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile, la compagna della mia vita. Michelle, la nuova first lady».

Il senatore e candidato repubblicano John McCain ha riconosciuto da parte sua la sconfitta di fronte alla folla che lo attendeva a Phoenix, parlando così:

«Amici miei, siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio. Il popolo americano ha parlato e ha parlato chiaramente. Abbiamo lottato duramente e non ce l’abbiamo fatta, il fallimento è mio, non vostro. Ora bisogna rimettere in pista questo Paese. Oggi ero candidato alla più alta carica nel Paese che amo così tanto. E stanotte resto suo servitore. Stanotte, più che ogni altra notte, il mio cuore non racchiude altro che amore per questo Paese e per tutti i suoi cittadini che abbiano sostenuto me o il senatore Obama. Auguro buona fortuna all’uomo che è stato il mio ex avversario e che sarà il mio presidente».

Il programma
Ambizioso il programma stilato da Barack Obama, seppur ancora sotto forma di bozza, che tenta di rinnovare radicalmente il sistema americano in ogni sua sfaccettatura. Tra le soluzioni più interessanti ci sono quelle che mirano a rendere accessibile a tutti gli americani l’assistenza sanitaria e l’accesso all’università, gli aiuti forniti ai piccoli proprietari che si sono indebitati per la casa, prevedendo l’introduzione di un credito universale del 10% per i mutui.
Obama intende poi combattere la discriminazione di sesso e di razza sul lavoro e porre maggiore attenzione ai problemi dei disabili; preparare un nuovo piano per l’energia; garantire maggiore sicurezza degli impianti; porre fine alla guerra in Iraq con successo ritirando le truppe in modo sicuro nel giro di 16 mesi, isolando in questo modo al-Qaida, che ha approfittato della guerra in Iraq per risorgere e riorganizzarsi in Afghanistan. Impegno anche per l’Africa: fermare il genocidio nel Darfur e porre fine al conflitto in Congo; coinvolgimento di tutti gli alleati per la sicurezza comune.

È stato nominato il «transition team» di Barack Obama, destinato ad assistere il neo-presidente statunitense fino al 20 gennaio (data in cui l’attuale presidente Bush cesserà di esercitare pieni poteri). Alla guida del team sarà posto John Podesta (ex chief of staff di Clinton), a sua volta affiancato da Valerie Jarrett e Pete Rouse.

Effetto Obama
Il saluto di Barack Obama e lo stesso commiato di John McCain, che riconosce pubblicamente la sconfitta, sono non solo segni di una ritrovata unità del popolo americano, dopo mesi di polemiche e di divisioni, ma anche la manifestazione di una politica alta che ritorna sulla scena e si candida a governare una società complessa e a raccogliere la sfida di un mondo attraversato da una profonda crisi che è al tempo stesso morale ed economica. Nel discorso al Lincoln Memorial durante la marcia per lavoro e libertà, Martin Luther King quarantacinque anni fa parlava con questi toni:

Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo. Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, ed oggi possiamo dire che Barack Obama ha tradotto in realtà un pezzo di quel sogno, portandosi sulle spalle le speranze e le aspettative del mondo intero. Non era il candidato più probabile per la Casa Bianca, ma Barack ha costruito la propria campagna sulle strade e con le persone per dimostrare che in America si può avere un governo del popolo e per il popolo. E ce l’ha fatta. «Yes, we can», perché come dice Mandela, «Nessuna persona deve aver paura di sognare».