La «ritirata» dell’italiano, come di molte altre lingue, di fronte alla lingua mondiale egemone, che è l’inglese, è oggi un fenomeno costante.
La «ritirata» dell’italiano, come di molte altre lingue, di fronte alla lingua mondiale egemone, che è l’inglese, è oggi un fenomeno costante. Ad esempio l’invasione del lessico inglese nella nostra lingua è ininterrotta, sia sotto forma di prestiti integrali (parole inglesi portate di peso nella nostra lingua), sia di calchi (parole italiane modellate su quelle inglesi) in diversi settori linguistici: giornalistico, televisivo, pubblicitario ecc. Vengono addirittura usate parole inglesi per designare oggetti – come smoking, golf (capi di vestiario) – che in inglese sono indicati con termini diversi. Si giunge perfino alla mutuazione, da parte di certa letteratura, di moduli di scrittura anglosassoni, periodi cortissimi, paratattici (coordinati).
C’è poco da fare di fronte all’immensa conquista mondiale dell’inglese, e meno da dire su chi inventa cose o idee nuove (software, hamburger, pop-art), le nomina e poi le esporta: quando i mercanti lombardi o fiorentini, nel medioevo, portarono in Inghilterra la tecnologia bancaria, vi portarono anche parole, come ad esempio compagnia; ciò che più dispiace è l’appiattimento dell’italiano sull’inglese: «disillusione» sta prendendo sempre più il posto di «delusione», «confrontare» di «affrontare», «supportare» di «sostenere» e così via.
Deve esserci qualche debolezza nel nostro idioma. Cercheremo d’individuarla in questa breve indagine allo specchio o contrastiva, che è il metodo più rapido per cogliere gli aspetti tipici d’una lingua (di salute e di malattia). Diceva Goethe: «Chi non conosce lingua straniera nulla sa nemmeno della propria».
Guardiamo un momento nei principi delle due lingue, nei quali è inscritto, come nei geni degli organismi viventi, buona parte del loro destino.
Caratteri originari dell’italiano
L’italiano come ognuno sa deriva dal latino. Del quale la caratteristica più notevole è il far lavorare molto la sintassi. La classe romana che scriveva era la classe al potere, che guardava alla realtà come a un ente da reggere e governare. Pertanto nel latino «gioca lo spirito giuridico-amministrativo, […] predomina la tendenza, perfino nelle lettere, a conservare la distanza dalle circostanze e a mettere invece tutta la forza e la sottigliezza della lingua nei legamenti sintattici, sicché lo stile acquista per così dire un carattere strategico. […] Si tratta non solo di congiunzioni e d’altri strumenti di subordinazione, ma anche l’uso dei tempi, la collocazione delle parole, l’antitesi e molte altre forme. […] Questa ricchezza d’articolazione […] rende possibile […] una sorprendente duttilità di ragionamento» (Auerbach).
Questo aspetto centrale della sintassi nella lingua latina passerà, anche se un po’ attenuato in virtù della lingua popolare, nella lingua italiana. Non si dà qui luogo d’accennare ai reciproci influssi tra la lingua parlata e scritta, ma il linguista Migliorini afferma che «la predominanza della lingua scritta sulla lingua parlata è molto forte» (almeno nell’influenza tra una lingua e un’altra).
Se tutti sanno che l’italiano è derivato dal latino, pochi sapranno che «la lingua italiana è la più greca tra le neolatine» (Giorgio Pasquali). Questo per dire con quale stigma aristocratico è nata la nostra lingua. E che tradizione nobiliare ha avuto e deve sostenere. La quale, però, rappresenta anche un peso.
Le origini dell’inglese
Le lontane origini dell’inglese sono da ritrovarsi in una commistione dei dialetti germanici anglo e sassone (IV e V sec.) di matrice indoeuropea, quindi flessivi; però ormai con desinenze non più molto specificanti. Ad esempio nei sostantivi che avevano le declinazioni in -n non si distingueva tra genitivo ed accusativo singolari e nominativo ed accusativo plurali.
Quando, poi, nel Nord dell’Inghilterra (VII-X sec.) si stabilirono popolazioni scandinave, per capirsi le varie etnie che abitavano l’isola smussarono le terminazioni delle declinazioni e delle coniugazioni. Analogamente anche la sintassi dovette ridursi ad essere molto semplice, di tipo coordinativo (paratattico).
Così si formò l’anglosassone dei secoli X e XI, accanto al quale prosperava, specialmente nella scrittura, il latino, la lingua della Chiesa, dei chierici e dei giuristi. Per curiosità notiamo che i tribunali inglesi abolirono il latino solo nel 1731.
La conquista normanna porterà nell’isola il francese, che per almeno due o tre secoli sarà insieme al latino la lingua delle classi alte. L’anglosassone, allora, cadde in letargo, parlato principalmente dal popolo, ma non più scritto.
Quando rinasce, nei secoli XIV e XV, è una nuova lingua: l’inglese. Il quale, quindi, è il risultato dell’ibridazione di almeno ben cinque lingue, se non vogliamo includervi la lingua celta.
Ma per risottolineare l’influenza della cultura e della scrittura, ricordiamo che l’inglese scritto ha, statisticamente, un lessico d’origine latina per oltre il 50%, tanto che da alcuni viene considerato come una lingua romanza. La sintassi rimarrà, però, sostanzialmente quella popolare originaria, di tipo paratattico, essendo la sintassi più al riparo dall’influsso delle altre lingue.
Le due lingue manterranno alquanto, attraverso tutte le vicissitudini storiche, il carattere originario: piuttosto sofisticato l’italiano, piuttosto popolare, analitico, pratico l’inglese. La forza dell’italiano sarà la sintassi, dell’inglese il lessico.
Le debolezze delle due lingue sono i risvolti di queste loro qualità. Prenderemo le misure delle forze e debolezze alle due lingue sul campo, su alcuni luoghi caratteristici (topici).
Il lessico
Il vocabolario inglese è più vasto di quello italiano. L’Oxford English Dictionary registra 500.000 entrate contro le 160.000 del Lessico universale italiano dell’Istituto enciclopedico italiano. C’è, però, da far notare che l’Oxford è un dizionario anche storico, registra tutte le parole inglesi fino dall’Old English. A ogni buon conto il vocabolario inglese è più ricco, per almeno i seguenti motivi:
- Le origini: popolari dell’inglese, più letterarie dell’italiano. In inglese ogni singolo nuovo oggetto o funzione o concetto veniva (e viene) battezzato con un nuovo sostantivo; in italiano spesso sfumando i significati di parole già esistenti, affidandosi al contesto. Per esempio, la parola italiana disegno in inglese è drawing (senso generale e generico o dell’azione del disegnare); design (nel senso di progetto); plan (in architettura ed urbanistica); cartoon (il disegno preliminare per un affresco, un arazzo ecc.); pattern (nel caso di motivi decorativi) ecc. Tutte queste accezioni vengono rese in italiano appunto da disegno collocato in diversi contesti; oppure con almeno due parole, ad esempio pattern = motivo ornamentale.
- La storia. Si è accennato all’origine mista dell’inglese, in particolare ai due grandi ceppi germanico e latino. In generale per una parola italiana esistono almeno due parole inglesi di semantica equivalente: ad esempio domandare = demand, ask.
Pronuncia, ritmo, intonazione
La pronuncia dell’inglese è piuttosto ostica non solo per noi italiani, ma anche per gli indigeni, tanto che la usano per la distinzione di classe. Il ritmo della dizione rende l’inglese quasi una lingua agglutinante: air e mail sono due parole con una loro precisa pronuncia, ma il composto air mail viene all’incirca pronunciato come èmel.
Infine esiste una particolare intonazione, per la quale in una frase vengono fortemente accentate solo alcune parole ritenute più importanti; le altre si sentono poco («mangiate»). I film inglesi o americani in lingua originale sono difficili da capire per noi, principalmente a causa dell’agglutinazione e dell’intonazione.
In italiano invece tutte le parole vengono pronunciate distintamente. A orecchi inglesi pertanto la dizione italiana viene avvertita come molto lenta, anche nel caso d’un italiano che parli molto velocemente. Se poi si mette in conto l’uso, tutto italiano, di ripetere la stessa idea con più sinonimi (ad esempio nelle previsioni del tempo in tv: «i venti soffieranno, spireranno, correranno…» ecc.), il rapporto dizione/tempo diminuisce ancora per l’italiano.
Infine, poiché l’accento sulle parole italiane cade quasi costantemente sulla penultima sillaba, la dizione italiana risulta per gli inglesi alquanto monotona.
La morfologia
La lingua inglese è stata paragonata per l’aspetto della morfologia a quella cinese, la parola essendo quasi un ideogramma che acquista la sua funzione dalla collocazione nella frase; dipendentemente da questa uno stesso vocabolo è sostantivo, verbo, aggettivo, avverbio.
La morfologia italiana è più ricca di quella inglese: coniugazione estesa dei verbi, peggiorativi, accrescitivi, diminutivi dei nomi e aggettivi ecc. Ci sembra inutile dare esempi.
Stile nominale e stile verbale
L’anima della lingua italiana sono i verbi, cardine della sintassi. L’inglese tende piuttosto allo stile nominale.
Stabilirono di incontrarsi = They arranged a meeting
Quanto si spende per entrare? = What is the price of admission?
Tuttavia anche in italiano prende sempre più piede lo stile nominale sotto l’influenza dell’inglese e dei nostri tempi tecnologici. Ora un aspetto tipico della tecnologia è l’assemblaggio d’un prodotto, per il quale si richiede la nomenclatura (nomi) dei pezzi e liste di questi con scarsi verbi («s’innesta con…»).
Sintassi e contesto
La sintassi inglese del periodo è semplice. Infatti i periodi inglesi constano spesso d’una sola proposizione. Nel caso di periodi formati da più proposizioni, le congiunzioni più ricorrenti sono le coordinative (e, ma ecc.)
Poiché il sole tramonta, fra poco farà buio
sarà in inglese
The sun’s setting and it will be dark in a short time
Gli inglesi guardano alla realtà per evidenze successive. La sintassi inglese della proposizione è basata su un modello assai stabile: soggetto – verbo – complemento oggetto – altri complementi e avverbi
Egli mi disse = He said that to me
Perché, come si diceva, le parole inglesi hanno perso ogni declinazione, la loro funzione dipende dalla loro posizione nella proposizione, che viene bloccata su un pattern fisso.
Ma qui sorge la domanda: ma anche l’italiano ha perso ogni declinazione; come mai allora nella nostra lingua non è avvenuto un tale blocco del discorso su modelli fissi? Una spiegazione completa sarebbe molto articolata. Qui schematizziamo una risposta col dire che la lingua italiana ha succhiato talmente lo spirito del latino che è costretta a lavorare molto di sintassi. Mentre un enunciato inglese (o francese ed anche tedesco) s’affida per la comprensione a paradigmi stabili e ripetitivi, un enunciato italiano contiene in se stesso (nella sua sintassi) le istruzioni per la sua interpretazione.
In italiano una parola si carica del suo significato anche (talvolta soprattutto) in rapporto alla sua posizione sintattica nel testo. Esempi molto semplici: un buon libro è diverso da un libro buono (occorre, in inglese, una perifrasi per questa seconda locuzione).
Magari non si può tradurre univocamente in inglese, ma a seconda del contesto potrà essere: even; even if; though, I do indeed; I wish to goodness; perhaps; if only ecc.
Anzi varrà indeed, in fact; or rather; on the contrary ecc. Quando la sintassi (il testo) si fa più complessa, la traduzione in inglese diventa oggettivamente assai difficile.
A motivo della sintassi più articolata, un periodo italiano in generale viene tradotto in inglese spezzandolo in più parti. Sembra inutile procedere ad esempi.
Verrebbe voglia di dire che mentre l’inglese (e anche il francese e il tedesco) è un adeguamento a modelli, l’italiano è una continua creazione. Come tale non è uno strumento facile da usare. Il grande filologo Giorgio Pasquali (studiò a Gottinga latino, greco, italiano e altre lingue), che aveva un dominio enorme della sintassi italiana, da lui usata in modo molto personale, fu bollato da giudici di docenza, sicuramente stantii, di scrivere male l’italiano. Questo per dire che, stante il carattere della nostra lingua, non esistono parametri sicuri per giudicare il buon italiano. Occorre infine annotare che gli atteggiamenti mentali che discendono da queste due diverse tipologie sintattiche, inglese e italiana, sono appunto diversi. Pratica e rasoterra è la mentalità inglese, che vede il mondo come tanti pezzi separati, al massimo da assemblare. Quella italiana è più generalizzante.
Rassegna delle forze e debolezze
Forze dell’inglese: la vastità del lessico, con la relativa precisione semantica, la morfologia pressoché inesistente, la sintassi secondo patterns ben stabiliti, l’uso della paratassi ecc. fanno sì che l’inglese possieda la capacità d’una notevolissima chiarezza descrittiva di cose e stati del mondo. Queste qualità della lingua inglese risplendono al meglio delle loro possibilità negli interventi ai dibattiti, ai convegni, in parlamento ecc. Un inglese che interviene a una riunione affronterà sempre un punto d’una questione. To call the attention to the point… si dice spesso in inglese al riguardo.
Un italiano, nella stessa situazione, svolgerà un tema accompagnato inevitabilmente da un finale, che dovrebbe inquadrare tutta la questione, concluderla e rendere superflui altri interventi. Svolgere un intervento si dice spesso in italiano al riguardo. L’idea che l’intervento stesso debba essere soltanto un contributo alla questione sembra troppo poco a un italiano.
Per l’italiano: la sua grande forza rimane la sintassi. Essa è così notevole che non mette conto di menzionarne altre (ad esempio il lessico sofisticato, colore ed espressività mediante accrescitivi, diminutivi ecc.). La capacità della sintassi italiana di originare o seguire agevolmente una dialettica stretta del pensiero non ha confronti con altre lingue
Debolezze e patologie
Ma quelle stesse marcate tipicità possono essere causa di deviazioni patologiche in ambedue le lingue.
Il carattere precipuo dell’italiano di lavorare molto di sintassi a scapito della precisione lessicale ha costituito il varco attraverso il quale il linguaggio dell’ideologia (intesa come un sistema di idee, che, al meglio, tiene conto di dati parziali o non sufficientemente criticati dell’esperienza e della cultura) ha dilagato in alcuni settori della nostra lingua.
Tra i nostri linguaggi settoriali patologici spicca in primis il linguaggio politico, che appare ai comuni parlanti italiani come lunare e strabiliante; sembra che parli sempre d’altro, ma non si capisce di che; in realtà è un linguaggio non diretto ai cittadini, ma un cifrato che la classe politica usa al suo interno. (Un ambasciatore d’un paese estero in Italia chiese a un consigliere di ridurgli all’essenziale le dichiarazioni d’un politico italiano. «Ma eccellenza, d’essenziale non c’è nulla», ribatté quest’ultimo.
Certi corrispondenti inglesi lo considerano un linguaggio da alienati, perché in Inghilterra tale modo di parlare non catturerebbe un voto. Ma i politici italiani non sono alienati, né lo sono i cittadini che li votano. Questo straordinario fenomeno linguistico, probabilmente unico al mondo, è stato rilevato fino alla noia, ma forse non ne sono state analizzate con precisione le cause, che non sono da rintracciare nel distacco tra la classe politica e i cittadini. Perché un tale distacco è comune a tutti i paesi sviluppati dove la politica è una professione come le altre; ad esempio, nei paesi anglosassoni è abbastanza frequente la frase: Questo riguarda loro, That’s up to them.
Probabilmente l’origine è nel contesto politico italiano, che è bloccato: non c’è una vera alternanza al potere tra sinistra e destra, come in Inghilterra. Perché «tra tipi d’enunciati e tipi di contesti si danno rapporti abbastanza stabili. Ogni enunciato “si porta dietro” il pezzo di realtà naturale e sociale che gli spetta e senza la quale non si sarebbe nemmeno formato» (Ferruccio Rossi-Landi). Senonché il tipo di realtà sociale, origine di enunciati, è a sua volta originata dal tipo di linguaggio.
Ora il linguaggio politico italiano è, a sua volta, bloccato su una commistione di diversi linguaggi ideologici, tra i quali spiccava, ma tuttora spicca, il gergo marxista, parlato non solo dalla sinistra, ma mutuato anche dalla destra perché sembra molto colto. L’aspetto saliente di questo linguaggio è che se i discorsi in cui s’esprime non riescono ad inquadrare la realtà, allora questa verrà forzata dentro quei discorsi.
Altro ingrediente di quella commistione è la cultura classica assorbita superficialmente come retorica e non come un dato (magari un pilastro) della cultura. Quella commistione si risolve in una miscela esplosiva, che genera vasti vuoti d’aria.
Analoghe osservazioni potrebbero essere fatte sul linguaggio giornalistico. La tendenza della nostra lingua a non essere troppo precisa lessicalmente o analiticamente – perché tanto il significato si desume dal contesto – ha condotto ad esempio alla moda di prelevare locuzioni da un universo linguistico settoriale per portarle di peso in un altro. Pertanto grande uso della metafora, dove il linguaggio giornalistico raggiunge il suo climax: lavorare ai fianchi, fumate nere ecc., oppure slittamento verso il basso di inquietudini e paure, obiettivi esigenziali, sovrazzoccolo ecc., come si legge in una relazione sociologica di un’importante società di ricerca. Questo linguaggio evasivo può anche far paura; come succedeva al linguista Pestelli, che si consolava con le parole d’un prete leale sotto la Convenzione: «Finché non verranno a prenderci a casa potremo stare allegri».
La patologia della lingua inglese si manifesta nell’esasperazione dei verbi frasali, per cui invece di dire I met him si dirà I met up with him (specialmente gli americani). Per comprendere questo vizio dei parlanti inglesi trascurati si può pensare a un parlante italiano che dica per esempio «Ho sognato a te» (invece di ti ho sognato) oppure «a Via Cavour» (invece di in Via Cavour).
Il linguaggio politico inglese appare, invece, in presa diretta sulle cose e privo dei disturbi che affliggono quello italiano, in presenza d’un contesto politico piuttosto mosso tra destra e sinistra che si alternano al potere. Invece è il linguaggio delle riviste e dei giornali inglesi a maggior tiratura che sembra molto scadente.
«Nella tradizione anglosassone il giornalista è per lo più un praticone empirico, anche notevolmente rozzo che non generalizza, né moralizza niente, è incapace di citazioni fini e si butta direttamente nelle situazioni per raccontare soltanto cose viste e toccate di prima mano […] e non scrive mai “patata bollente” se non ha visto, toccato quella patata lì e non delle altre patate (Alberto Arbasino).
Il periodare è generalmente poco legato e un periodo fisso, in genere, solo un pensiero alla volta. Anche la letteratura media è su questa linea stilistica. Lo storico inglese Lidell Hart criticò Churchill come leader durante la guerra perché si concentrava sempre su un solo problema e mancava di connettere questo ad altri e la parte al tutto, che è invece la caratteristica del buono stratega. Ora Churchill fu un buono scrittore inglese tipico (non inganni certa sua ampollosità): il legare quel suo modo di pensare con la sintassi inglese basata su una proposizione alla volta può essere eccessivo, ma qualche pensierino lo fa venire. I giornali di qualità («Times», «Manchester Guardian» ecc.) fanno eccezione a questo stile; si servono di più della sintassi; anzi semmai, a un osservatore medio italiano, cadono nel difetto opposto con il loro gusto dell’attenuazione, dell’understatement, del dire una cosa per un’altra allusivamente ecc.
Un’ultima debolezza della cultura inglese è paradossalmente originata dall’imperialismo della lingua nei confronti di tutte le altre lingue. Perché gli inglesi, non trovandosi nella necessità d’impararne altre, finiscono per sentirsi isolati nella propria. «Alla fine io resto», dice un personaggio di Anthony Burgess, «un inglese monoglotta, inadatto a partecipare alle culture diverse dei vari popoli, legato a una sola lingua come a una sola cucina e a un complesso insulare di miti».
Consigli
Volendo proprio provocare un confronto tra le due lingue, due buoni parametri sui quali prender loro le misure sono l’economicità e l’espressività, cioè l’andare facile a bersaglio, al cuore e alla testa delle questioni (linguisticamente, appunto). Ora l’economicità espressiva dell’inglese appare notevole.
«Su di una scatola di biscotti leggo questo brano: Occasionally, the package may appear not to be full, due to settling in handling. When packed, the carton was as full as practical. La traduzione è la seguente: A volte la scatola [impreciso] può presentarsi non completamente piena [ridondante] a causa dell’assestamento dei biscotti [e di che altro?] quando le scatole vengono maneggiate (!). All’atto della confezione la scatola [impreciso] è stata riempita [non esatto] al massimo praticamente possibile [grossa ridondanza]. Sono trentatré parole italiane contro ventitré inglesi. Penso sia possibile far di meglio, ma non molto: basti provare con due to settling in handling e con as full as practical». (Ferruccio Rossi-Landi).
È a questa grande economicità espressiva che si deve, in primo luogo, attribuire la grande breccia aperta dall’inglese nella nostra lingua. «Rimane un dato: qualunque versione possibile di highbrow, ready-made, software, happening, cast, gag, spleen, midcult ecc. risulta inevitabilmente velleitaria, imprecisa, complicata e troppo goffa; altrimenti si possono sempre buttar lì delle stupidate: “società di caffè” al posto di café society, “ragazzo da gioco” invece di playboy… E certamente passenger’s seat è su ogni automobile, anche Fiat e Lancia, il posto accanto a chi guida, ma “posto del passeggero” rischia di sembrare un albergo diurno, mentre “sedile del passeggero” suona come l’Eneide tradotta dal Monti… I tratti davvero caratteristici dell’inglese paiono piuttosto l’attitudine ad inventare (e battezzare) quasi tutti i concetti relativi alla vita contemporanea e un’insolente facilità nella produzione inesauribile di vocaboli monosillabici di una funzionalità incomparabile, plot, pop, gap, off…» (Alberto Arbasino).
Le testimonianze di questi autori parlano forte a favore dell’inglese. Dobbiamo quindi metterci a mutuare meccanicamente l’inglese? No. Se anche fosse del tutto possibile, ciò significherebbe suicidio. Bisogna puntare su ciò che nella nostra lingua è più tipico, la sintassi, come abbiamo più volte sottolineato. Insolenza per insolenza c’è qualcuno qui da noi che usa con padronanza insolente la sintassi? Se ce n’è uno, questi è sicuramente il Segretario fiorentino, Machiavelli (Cesare Balbo, antimachiavellico come altri mai: «Purtroppo la sua prosa è la meglio scritta nella nostra lingua»).
E valga il vero. Prendiamo Il Principe e vediamo com’è scritto in italiano e tradotto in inglese. Ad apertura di libro leggiamo:
«Dico, adunque, che nelli stati ereditarii e assuefatti al sangue del loro principe sono assai minori difficultà a mantenerli che ne’ nuovi; perché basta solo non preterire l’ordine de’ sua antenati e, di poi, temporeggiare con gli accidenti; in modo che, se tale principe è di ordinaria industria, sempre si manterrà nel suo stato, se non è una estraordinaria ed eccessiva forza che lo privi; e, privato che ne fia, quantunque di sinistro abbi lo occupatore, lo riacquista».
In inglese questo periodo suona
«I say, then, that hereditary states, accustomed to the family of their prince, may be maintained with much less difficulty than new ones, for it is enough not to depart from the practice of one’s ancestors, and then to deal according to circumstances with the situations that may arise. Thus, if such a prince be of average industry, he will always maintain himself in his state, unless there be some extraordinary and irresistible force to deprive him of it; and even if he be deprived of it, he will regain it, should the usurper but suffer any adversity».
Sono 81 parole italiane contro 99 inglesi: il rapporto di economicità presentato dagli autori citati di sopra è rovesciato. Viene confermato quanto detto: in inglese il periodo viene spezzato e sono usate perifrasi per rendere le sottigliezze di significato, e non sempre con successo. Ad esempio temporeggiare con gli accidenti non è lo stesso che to deal according to circumstances with the situations that may arise, anzi potrebbe anche significare l’opposto.
La tecnica del pensiero
Ma allora, per superare l’economia e l’espressività dell’inglese, bisogna scrivere o parlare come Machiavelli? La risposta è sì. Certo, certo, non useremo più il lessico, la morfologia e neppure (sempre che ci riuscissimo) la sintassi incalzante del nostro. Anche la lingua italiana è cambiata. Nel XVIII secolo è avvenuta una silenziosa rivoluzione nella nostra lingua: è cresciuto il lessico, il periodare è divenuto meno complesso. Espressioni come Provvedimenti di urgenza a fronte di pericoli emergenti, che si potevano leggere nella prosa di inizio Novecento, sono oggi diventate Provvedimenti d’emergenza, con una inevitabile ellissi.
Ma la tecnica sintattica profonda del Segretario, quella sì, certamente, dovremmo continuare a usare. Ove per tecnica sintattica profonda machiavelliana intendiamo né più né meno che la tecnica del pensiero. La quale consiste nel portare alla luce tutti i dati d’una situazione, collegarli reciprocamente, organizzarli gerarchicamente.
La rappresentazione più adeguata del pensiero del Segretario dovrebbe avvenire in un grafico, che consterebbe di molti cerchi (i dati concettualizzati, le idee) collegati tutti tra loro con linee, talvolta molto marcate talaltra meno. Infatti la sintassi della lingua scritta, che è lineare, sempre non ce la fa a presentare tutti quei rapporti, tanto è vero che Machiavelli, non poche volte, la fa saltare (ellissi, costruzioni a senso, accordi arbitrari). A ogni modo tutta la ricca dialettica mentale del nostro costringe i periodi a correre a cascata l’uno sull’altro. Il che dovrebbe essere la norma o il classico nella nostra lingua.
Uno dei fascini della scrittura machiavelliana è la suspense che prende all’inizio di un suo passo, perché non si riesce a intravedere dove andrà a parare, anche se si sa che, per il martellante ritmo sintattico, da qualche parte a parare ci va sicuramente.
Quanto meno, con questa «cura Machiavelli» eviteremo di cadere vittime:
- della patologia della lingua inglese, vale a dire dello scrivere con periodi ballonzolanti, senza, cioè, quella specie di «granchio» (il pensiero) che, dal profondo, tiene insieme la superficie della scrittura;
- della patologia della lingua italiana, cioè della consuetudine delle parole altisonanti (non pensate). Perché il pensiero ha anche questo di bello: che più uno pensa una questione, più il pensiero aumenta di temperatura e brucia le parole retoriche (non pensate) a favore dell’uso delle parole più comuni, che sono quelle che più penetrano nell’anima del lettore, assicurandolo che il tema è divenuto familiare allo scrivente o parlante.
Come conclusione vorremmo formulare l’augurio che questo rapido esame, allo «specchio inglese», della nostra lingua, non induca alla sua cosmesi English style, ma al riconoscimento di (almeno) qualche suo tratto originale e caratterizzante.
Può essere che il timore (albergante in alcuni) d’una creolizzazione dell’italiano da parte dell’inglese sia esagerato, ma la conservazione della nostra identità linguistica (e quindi, forse, nazionale e personale) non può, ci sembra, che partire da agnizioni dalle nostre tipicità (linguistiche e culturali).
Potrebbe essere, infatti, che uno dei motivi del successo, in tutto il mondo, de Il nome della rosa (un romanzo, per la media dei lettori, alquanto greve) sia dovuto alla nessuna concessione agli stili attuali dello scrivere (in particolare anglosassoni), ma al rimanere sulla linea tipica della nostra sintassi. Ad esempio l’autore spara, senza batter ciglio, già nella prima pagina del prologo, un periodo con ben diciassette verbi (o proposizioni).
Il contributo di Eco alla considerazione della nostra lingua nel mondo può essere paragonato a quello d’una media industria che esporti una buona tecnologia.