Fondendosi con le altre lingue che venivano parlate nella penisola prima della conquista romana…
Fondendosi con le altre lingue che venivano parlate nella penisola prima della conquista romana, il latino, come sappiamo, ha dato luogo, attraverso i secoli, ai cosiddetti volgari, forme neolatine da cui discendono direttamente gli attuali dialetti.
È da uno di questi volgari, quello fiorentino, che deriva l’italiano che noi parliamo oggi. Il fiorentino divenne infatti la lingua letteraria, da quando la scuola poetica del dolce stil novo e Dante decisero di abbandonare l’uso del latino, fino ad allora l’unica lingua scritta, e usare, almeno per la produzione poetica, la lingua parlata nella Firenze di allora. A Dante seguirono Petrarca e Boccaccio, che consacrarono con i loro capolavori l’uso del volgare fiorentino come lingua letteraria.
Attraverso i secoli il fiorentino rimase il modello per la lingua scritta, ma non si impose come lingua parlata da tutti a livello nazionale. Si parlava qualcosa di molto vicino alla lingua scritta solo in Toscana e un po’ a Roma alla corte papale, linguisticamente fiorentinizzata dai papi Medici. Nel resto del paese, fino all’unificazione nel 1860 e anche oltre, nelle diverse regioni quasi tutti, con rare eccezioni, parlavano il dialetto locale, in una forma più o meno stretta, più o meno cittadina o campagnola. Cavour e Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, parlavano francese come lingua di cultura e piemontese come lingua quotidiana, ma non l’italiano. Il primo parlamento italiano nel 1860 aveva due lingue ufficiali: il francese e l’italiano, ed era la prima che tutti avevano in comune.
Dal momento dell’unificazione, soprattutto a partire dalla prima guerra mondiale, assistiamo alla lenta e inarrestabile diffusione dell’italiano a scapito dei dialetti. Ma questo italiano non è più uguale al fiorentino da cui deriva. Italiano e fiorentino sono naturalmente parenti stretti ma, dopo secoli, non sono più la stessa cosa, come all’epoca di Dante.
Il fiorentino si è trasformato come tutte le lingue parlate, che in bocca alla gente cambiano abbastanza rapidamente. L’italiano scritto invece, divenuto un modello cui riferirsi per l’uso letterario, come tutte le lingue scritte è rimasto in parte cristallizzato.
L’evoluzione delle lingue scritte è molto più lenta di quelle parlate; per questo si parla di deriva linguistica della forma parlata rispetto a quella scritta, come se quest’ultima fosse ancorata e quella orale tirasse in avanti, più aperta com’è alle trasformazioni.
Italiano, dialetti, aree alloglotte
Come abbiamo visto nella lunga carrellata dedicata alla storia della nostra lingua, l’italiano nazionale, o standard (IS), convive oggi con i dialetti, i diretti discendenti dei volgari regionali, le altre lingue neolatine che non hanno avuto la fortuna letteraria del volgare toscano. La particolare posizione di quest’ultimo è la conseguenza di una serie di fatti storici che lo hanno fatto emergere sugli altri volgari, prima come lingua letteraria, poi come lingua nazionale, dopo l’unificazione del paese, nella seconda metà dell’Ottocento. La differenza tra lingua e dialetti non è strutturale, ma di status sociale. I dialetti non sono varietà di lingua inferiori allo standard nazionale. La lingua nazionale anzi non è altro che un dialetto che, per ragioni extralinguistiche cioè storiche, ha assunto una particolare posizione sociale. È stato addirittura detto che una lingua non è nient’altro che un dialetto con un esercito e uno stato. Riandando ai fatti della storia d’Italia, la prima lingua letteraria del nostro paese è stata il volgare siciliano usato dai poeti della corte di Federico II di Svevia a Palermo, nella prima metà del XIII secolo. Se Federico II e la sua dinastia avessero avuto fortuna politica, noi forse oggi parleremmo una lingua nazionale di origine siciliana, invece che toscana. Accanto ai dialetti italiani vengono parlate nel nostro paese anche delle varietà cosiddette alloglotte: forme di albanese e di greco nel meridione, di dialetti francesi in Piemonte, tedeschi in Trentino e Veneto, slavi nella Venezia Giulia, di catalano ad Alghero in Sardegna, il cosiddetto ladino, una lingua neolatina vicino all’italiano, in Val Gardena e in altre valli dell’Alto Adige.
Quando parliamo di italiano nazionale o standard in contrapposizione ai dialetti dobbiamo fare attenzione a non cadere, però, nell’errore di immaginare che ci sia una divisione netta tra italiano e dialetto.
In realtà l’italiano e il dialetto sono forme di lingua contigue che, a certi livelli sociali, sfumano l’una nell’altra. L’insieme delle parlate di una regione si distribuisce lungo un continuo che va dal dialetto alle forme locali di italiano con un decrescere di forme locali dialettali via via che si sale. È difficile tracciare una linea netta ideale di demarcazione tra i due sistemi: è più corretto pensare a una zona di transizione tra dialetto e lingua, in cui abbiamo forme di italiano dialettale e di dialetto italianizzato.
Varietà di italiano
Anche ad alto livello di classe sociale, e perciò di istruzione, abbiamo sempre forti differenze nel modo in cui l’italiano viene parlato in luoghi diversi e da persone diverse.
Nella tradizione anche recente degli studi linguistici si è sempre concepita una lingua come un sistema monolitico, a sé stante e compatto. In realtà, anche a parte le differenze dialettali che abbiamo descritto sopra, quello che noi tutti chiamiamo l’italiano, cioè la versione orale della lingua scritta, non è un sistema linguistico unico e immutabile, ma piuttosto un insieme di sottosistemi molto vicini tra di loro. Questi sottosistemi, il cui insieme costituisce la lingua italiana, secondo le concezioni della linguistica più moderna, differiscono tra di loro abbastanza da essere sentiti come parzialmente diversi, ma non tanto da compromettere la comprensione reciproca, e da essere considerati sistemi linguistici separati. Queste sottodivisioni dipendono da vari fattori: innanzitutto quelli geografico-regionali e socio-educativi, e inoltre l’età, il sesso e la formalità in cui i singoli parlanti si trovano a dover usare la lingua.
Variazioni geografiche
Delle varianti regionali abbiamo parlato ampiamente in precedenza; vi sono però anche delle variazioni geografiche all’interno della stessa regione, variazioni dovute alla differenza tra centro e periferia. L’irradiazione della lingua standard avviene dai centri verso l’esterno. Un fattore importante è la scuola, che è più frequentata quanto maggiore è un centro. Nei centri urbani, inoltre, parlanti di forme di lingua leggermente diverse cercano di italianizzarsi e perdere le loro caratteristiche del più piccolo centro di origine, quando vengono in contatto con gli abitanti dei centri maggiori per ragioni di scambi commerciali o professionali. I mercati, per esempio, sono stati centri di standardizzazione linguistica, poiché erano luoghi di incontro che, con la loro intensa interazione, creavano la necessità di ricorrere a forme meno strettamente locali possibile, incoraggiando la convergenza verso forme di parlato sovraregionale.
Variazioni dovute alla classe socio-educativa: socioletti
Nello stesso luogo parlanti diversi sono più o meno in grado di usare forme di parlato vicino all’italiano normativo, a seconda della loro condizione sociale. In certi casi i parlanti di livello socio-educativo più alto possiedono una forma relativamente meno marcata (cioè d’uso piuttosto ampio) come unico sistema linguistico, in altri casi l’italiano meno marcato, più estensivo, coesisterà nello stesso parlante con forme marcate o addirittura col dialetto più o meno italianizzato. Parlanti di diversi livelli socio-educativi avranno cioè un repertorio linguistico più o meno ampio, a seconda delle loro vicende biografiche, fino a raggiungere a volte il bilinguismo. Ciò varia a seconda dei singoli individui, e anche a seconda delle diverse regioni. Varia strettamente col variare del prestigio di cui gode il dialetto locale. Laddove esso è colpito da condanna sociale, l’appartenenza alle classi socio-educative più alte significherà il suo abbandono. Questa è la tendenza dell’italianizzazione nel Sud, per esempio, dove raggiungere la conoscenza dell’italiano, generalmente un italiano regionale marcato, è visto spesso come una conquista che va accompagnata dalla negazione del dialetto. Questa è stata certamente la tendenza per quanto riguarda i dialetti meridionali nei grandi centri urbani industriali del Nord dove il dialetto d’origine è stato completamente abbandonato, sia perché visto come inferiore dagli emigrati stessi, sia perché privato della funzione sociale al di fuori dello stretto cerchio familiare, che poteva avere al paese di origine.
L’atteggiamento verso il dialetto locale negli stessi centri industriali del Nord da parte della popolazione non immigrata è invece piuttosto complicato e cambia a seconda della classe sociale. Nelle classi più elevate, come l’aristocrazia e gli strati più alti della borghesia, il dialetto coesiste con l’italiano in un pieno bilinguismo. Si tratta di una forma «alta» di dialetto, diverso da quello di livello popolare, generalmente conservatore e più arcaico. La borghesia medio-piccola tende all’italianizzazione e vive il dialetto come un segno di appartenenza alle classi popolari. Tra gli operai si è assistito durante e dopo le grandi immigrazioni all’uso del dialetto tra locali per segnare la differenza con gli operai immigrati. Nella parte nord-est del paese i dialetti sono meno colpiti da discriminazione in termini di prestigio che nella parte occidentale. Forse anche per il prestigio del dialetto veneziano, assunto attraverso Goldoni al rango di lingua letteraria, i dialetti non hanno risentito come nel resto del paese della condanna a forme inferiori rispetto alla lingua nazionale.
Il modo con cui l’appartenenza a una classe influenza la formazione linguistica di un individuo è di natura composita. Il fattore fondamentale rimane tuttavia l’accesso all’istruzione. Infatti, un reddito maggiore offre maggiori opportunità di viaggiare e la mobilità geografica è molto importante, ma essa è possibile entro certi limiti anche alle classi meno abbienti almeno dei centri urbani. È soprattutto l’istruzione, che espone ad anni di studio normativo della lingua, che forma la fisionomia linguistica dell’individuo. Più che il reddito direttamente, perciò, ciò che importa è la quantità di istruzione che il reddito può comprare. Per questa ragione si preferisce parlare di classe socio-educativa più che di classe sociale.
L’insieme dei sottosistemi di italiano usati dai membri dello stesso gruppo sociale si chiama socioletto.
Variazioni dovute all’età
L’età è innanzitutto il fattore di variazione legato all’innovazione linguistica: forme nuove (tra cui in certa misura alcune anche non necessariamente destinate ad aver successo e sopravvivere) entrano a far parte del sistema linguistico dei parlanti più giovani, mentre sono assenti o rifiutate come non buone o sbagliate in quello dei più anziani.
Nel caso particolare dell’Italia, inoltre, tra le generazioni ci sono state differenze particolarmente vaste legate ai profondi cambiamenti sociali avvenuti dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, specialmente negli anni del cosiddetto miracolo economico, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta.
L’aumentata urbanizzazione ha portato all’abbandono di forme strettamente locali in favore di forme più diffuse, sia di dialetto come di lingua. Soprattutto, dato l’incremento di istruzione senza precedenti nella storia del paese, l’esposizione all’italiano che le generazioni più giovani hanno avuto negli ultimi quarant’anni è di ordine completamente diverso, nelle classi meno abbienti, di quella dei loro genitori. Nel caso dell’italiano sessant’anni, perciò, la differenza d’età è anche una differenza di momenti storici e i parlanti di due generazioni diverse rispecchiano due stadi di una lingua in forte evoluzione.
Differenza tra generazioni significa in molte famiglie essere parlanti nativi di lingue diverse: i nonni del dialetto, i genitori spesso sia del dialetto come dell’italiano più o meno regionale, i nipoti solamente dell’italiano, meno regionale di quello dei genitori.
Secondo due inchieste condotte dalla Doxa, si è passati dal 28,9% di persone che parlavano sempre in dialetto nel 1974 a solo il 23% nel 1982. E dall’altra parte nel 1974 il 22,8% parlava solamente l’italiano, mentre nel 1982 avevamo il 26,7%.
Differenze di sesso
La differenza dei ruoli e dello status sociale dei due sessi si può rispecchiare direttamente sulle differenze di lingua disponibili ai due gruppi e nell’uso che essi ne fanno. Basti pensare all’esteso uso che viene fatto dalle donne dei diminutivi, che stonerebbero in bocca agli uomini, ai diversi eufemismi e all’uso diverso delle parole che sono connotate come volgari.
Anche rispetto all’uso del dialetto e della lingua, i due sessi si pongono in maniera piuttosto differente. Le donne nella maggioranza sono più sensibili a pressioni sociali indirizzate a dare un’immagine di sé cui meno si adatta l’uso del dialetto. Il dialetto, di solito, viene considerato come qualcosa di rustico, se non addirittura più rozzo della lingua ed è quindi sentito come più adatto all’immagine maschile.
È stato dimostrato, non solo per l’italiano, che nei paesi avanzati le donne usano di più la lingua standard e la usano in una forma più pura di quanto non facciano gli uomini.
Occorre però chiarire qui che non si possono generalizzare i dati relativi alle civiltà industriali. Non è che essere donna significhi di per sé propensione a usare forme vicine allo standard, ed essere uomo il suo contrario. Appartenere all’uno o all’altro sesso significa, in molte società, avere ruoli diversi che pongono gli individui singoli in posizioni diverse rispetto alle forme di lingua che coesistono nella società data.
Si prenda il caso, nella storia del nostro paese, delle donne che vivonevano nelle piccole comunità contadine, pochi decenni fa relativamente isolate, per esempio nel Sud. In quel contesto la donna aveva ancora generalmente come unico ruolo quello di occuparsi della famiglia, oltre che del lavoro nei campi. L’uomo invece aveva a volte un altro lavoro, oltre a quello della campagna e, anche qualora si fosse occupato solo della coltivazione dei campi, era il membro della famiglia che aveva rapporti maggiori con l’esterno, si recava ai mercati e nella città vicina più spesso della moglie, doveva fare il servizio militare, si occupava dei rapporti con la burocrazia e, in molti casi, faceva lui gli acquisti dei generi di consumo necessari. Era lui quindi, in questo caso, a venire in contatto con forme meno strettamente locali di dialetto o addirittura con forme di italiano regionale. La donna invece era parlante di dialetto per eccellenza. Nelle generazioni che non furono toccate dall’istruzione, le donne spesso non conoscevano che il dialetto locale e si doveva ricorrere al tramite degli uomini della famiglia o dei figli scolarizzati, per comunicare con loro. In questo caso dunque l’asse di variazione centro-periferia ha capovolto il ruolo dei due sessi rispetto all’opposizione tra forme locali e forme meno locali.
Variazioni nello stesso parlante: idioletto
Il repertorio linguistico di uno stesso parlante, come abbiamo visto, può innanzi tutto abbracciare più di un sistema linguistico. Non sono pochi i parlanti italiani che possiedono la conoscenza del dialetto accanto a quella dell’italiano. Altri parlanti possono avere diverse misture di dialetto e lingua, variamente distribuite ad abbracciare posizioni diverse dell’asse dialetto-lingua. Esistono ormai, soprattutto tra i giovani dei grandi centri, dei parlanti che possiedono solamente l’italiano, e gli individui monolingui sono in aumento. Tuttavia, anche i parlanti di una sola lingua non possederanno un comportamento monolitico e uguale a se stesso in occasioni diverse, ma avranno una serie di sottosistemi diversi a seconda dei diversi tipi di situazioni in cui useranno la lingua.
I fattori che fanno cambiare il comportamento linguistico sono di tipo extralinguistico e definiscono il grado di formalità di una situazione. Essi saranno perciò fattori di tipo sociale come il ruolo dei parlanti: se si tratta di un’interazione tra sconosciuti o persone note, tra pari, da superiore a inferiore o viceversa; l’emotività dell’interazione; l’occasione e il luogo (una casa privata, un’aula accademica, un tribunale eccetera); l’argomento (quotidiano, pratico, scientifico, aulico), e così via. Un fattore di variazione molto potente è quello della differenza tra lingua scritta o parlata. L’attività dello scrivere è di per sé più formale e risponde a caratteristiche di maggiore precisione linguistica, poiché i parlanti non possono ricorrere al contesto fisico visivo dell’interazione. Ciò che nel parlato è implicito deve essere esplicitato nello scritto. La dimensione del parlato tende ad essere meno informale, anche se vi possono essere occasioni di interazione orale ad alto livello di formalità. Un altro fattore importante all’interno della comunicazione orale è se sia o meno ammessa la reazione da parte dell’interlocutore. Una lezione formale senza possibilità di interruzioni è forse l’occasione più vicina, nell’attività del parlato, alla formalità dello scritto. Come conseguenza del grado di formalità che la situazione extralinguistica seleziona per una data interazione, il tipo di comportamento linguistico varierà in tutti i livelli di articolazione del sistema linguistico: dal lessico alla grammatica e morfologia, fino alla pronuncia. Per quanto riguarda quest’ultima, cambia l’accuratezza della dizione e perciò si tende ad avere una dizione più veloce e meno accurata nelle situazioni informali. Accanto a questo, il variare del grado di formalità lascerà penetrare un numero maggiore o minore di caratteristiche locali di tipo regionale.
Chiameremo idioletto l’insieme dei sottosistemi di un parlante. Per il concetto di idioletto, dobbiamo considerare il diverso aspetto che questa dimensione di variazione assume, se l’applichiamo a parlanti monolingui, bilingui o mistilingui, intendendo parlanti la cui competenza invade ma ricopre parzialmente le due fasce lingua e dialetto: i parlanti cioè che si trovano sulla fascia mediana del continuo. Nel caso dei monolingui abbiamo sottosistemi di uno stesso sistema: nel caso dei bilingui il gioco degli effetti linguistici è molto ampio, poiché essi giocano scelte tra sottosistemi di due sistemi: nel caso dei mistilingui, abbiamo due insiemi parziali di sottosistemi di due sistemi diversi. A volte quindi cambiamento di situazione può significare cambiamento di sistema, lingua o dialetto, mentre per i parlanti monolingui può essere solo cambiamento di sottosistema, forme diverse di lingua, più o meno dialettali.
Per ricapitolare possiamo cercare di fare entrare tutte le forme di lingua o sistemi esaminati in un modello che li inglobi in maniera organica. Tra i vari che sono stati proposti quello che forse rende di più la pluralità e al tempo stesso la strutturazione, è quello del cubo. Le tre dimensioni che racchiudono lo spazio sono l’asse temporale o diacronico, l’asse sociale o diastratico e l’asse di variazione geografica nello spazio o asse diatopico.