Scopri, impara e cresci

La disfatta della scuola moderna: istruzione o distruzione?

Saggio di redazione

Saggio di redazione 

La «manovra d’estate» 
«Sistemi d’istruzione e di formazione efficienti possono avere un notevole impatto positivo sulla nostra economia e società, ma le disuguaglianze nell’istruzione e nella formazione hanno consistenti costi occulti che raramente appaiono nei sistemi di contabilità pubblica. Se dimentichiamo la dimensione sociale dell’istruzione e della formazione, rischiamo di incorrere in seguito in notevoli spese riparative».
Questo ammonimento, pronunciato da Ján Fige (commissario europeo per l’Istruzione, la Formazione, la Cultura e il Multilinguismo), si adatta perfettamente all’attuale situazione dell’Italia nei confronti di una questione tanto delicata quanto sentita com’è quella del diritto all’istruzione. Nel tentativo di affrontare il problema, infatti, si sono cimentati molti ministri, approntando varie riforme che, purtroppo, hanno contribuito a volte ad aggravare la situazione. L’ultimo tentativo di riforma in ordine di tempo è quello approntato da Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca del IV governo Berlusconi. Il suo primo provvedimento in tal senso è stato il decreto legge 137/2008.

Riconvertito in legge il 29 ottobre (legge n. 169/2008), il provvedimento si propone di ridisegnare la scuola italiana dei prossimi anni; esso, tuttavia, è fortemente condizionato dalla necessità di rispettare i «paletti» predisposti dalla cosiddetta «manovra d’estate» (vale a dire la manovra finanziaria convertita in legge dal Parlamento nei primi di agosto).
Si tratta di vincoli non da poco: la manovra, infatti, predispone che debbano «derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009; a 1650 milioni di euro per il 2010; a 2538 milioni per il 2011 e a 3188 milioni a decorrere dal 2012». Ciò significa, in termini di tagli sulla scuola da effettuare nell’arco di tre anni, 87.400 cattedre in meno e 44.500 posti di lavoro soppressi per quanto riguarda il personale ATA (amministrativo, tecnico e ausiliario).

La «manovra d’estate», inoltre, prevede l’obbligo di dare la preferenza, nell’adozione dei libri di testo, a quelli disponibili su internet; l’eliminazione delle SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario); il blocco del turn over (nelle università) per i professori e i ricercatori; la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni.

La legge Gelmini sulla scuola
Su questa traccia, dunque, è costretta a muoversi la contestatissima «legge Gelmini». Il provvedimento introduce novità da attuarsi sin dall’anno scolastico 2008-2009: la reintroduzione (nelle medie e nelle superiori) dei voti in decimi al posto dei giudizi e del voto in condotta (destinato a «fare media»); l’adozione di sanzioni antibullismo; l’introduzione di una nuova materia (sorta di riedizione della vecchia «educazione civica») da inserire all’interno del monte ore previsto per l’insegnamento della storia; l’adozione (nella scuola secondaria) di tagli di spesa per l’acquisto dei libri di testo e di una «carta dello studente» che permetterà l’accesso a una serie di agevolazioni formative e culturali.

I dolorosi tagli previsti dal «decreto Tremonti» (insieme al blocco del turn over e alla norma sulle fondazioni) partiranno, invece, dall’anno scolastico 2009-2010; sempre da quell’anno, inoltre, entreranno in vigore i due espedienti escogitati dalla legge Gelmini per rispettare i vincoli economici imposti dalla manovra finanziaria: il ritorno del maestro unico e la «razionalizzazione» organizzativa (sia nella formazione delle classi sia nel dimensionamento degli istituti). Ciò comporterà la riduzione dell’orario scolastico, l’aumento dell’orario di lavoro per gli insegnanti, la riorganizzazione del tempo pieno e delle attività aggiuntive, l’abolizione del «modulo» (che, introdotto nel 1990, prevedeva l’assegnazione di un gruppo di due classi a tre insegnanti), l’aumento del numero di alunni in una singola classe.
A tale «razionalizzazione», inoltre, si aggiungerà la ferrea applicazione di quanto già previsto dal dpr 233 del 1998: vale a dire il principio che un istituto è tenuto a rispettare determinati tetti di popolazione scolastica se vuole vedersi riconosciute autonomia e personalità giuridica. A tale proposito merita ricordare due cose: che circa 3000 scuole italiane non rispettano (o sono vicine a non rispettare) i tetti previsti dal decreto del 1998; e che il non riconoscimento della personalità giuridica significa, in sostanza, la chiusura dell’istituto scolastico in questione.

C’è infine una terza fase della riforma Gelmini sulla scuola, per adesso ancora non tradotta in iniziative legislative. I punti previsti da queste «linee programmatiche» sono molteplici: la possibilità di conferire ai presidi la facoltà di nominare i docenti; la ridefinizione del canale di formazione per gli insegnanti, l’introduzione di un esame preliminare alla maturità per i privatisti; l’introduzione di test (prima dell’inizio dell’anno scolastico) per permettere il recupero di debiti formativi.

Il caso delle SSIS e le «classi ponte»
A proposito del canale di formazione degli insegnanti, vale la pena di ripercorrere la paradossale storia delle SSIS. Le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario nacquero nel 1990, in base al rispettabilissimo principio che, per insegnare, bisogna possedere una qualificazione adeguata. Le SSIS, di fatto, furono attivate solo nel 1998; con la Finanziaria 2007, tuttavia, si decise di escludere dall’accesso alle graduatorie tutti gli iscritti al ciclo delle SSIS iniziato nell’autunno 2007. Il motivo è presto detto: le graduatorie erano (e sono) talmente intasate da non permettere di accogliere chi, diligentemente, ha deciso di sottoporsi al percorso formativo richiesto. Del resto, in dieci anni di esistenza, le SSIS hanno prodotto ben 72.500 «sissini» di cui, però, solo il 3% è riuscito a ottenere una cattedra. Insomma: le liste di attesa sono veramente lunghe.
Resta il fatto, però, che i «sissini» del IX ciclo (quelli «presi di mira» dalla Finanziaria 2007) nel 2008 si sono trovati in una situazione paradossale: quella di frequentare il secondo anno di un corso che, dal giorno alla notte, non serviva più a niente. A questo paradosso, le va dato merito, ha posto rimedio la famigerata legge Gelmini, ripescando i «sissini» del IX ciclo e riammettendoli in extremis alle graduatorie in esaurimento. Si tratterà, però, dell’ultima deroga: d’ora in poi le SSIS cesseranno la loro avventurosa (e un po’ incredibile) esistenza.

Nonostante il pacchetto di innovazioni introdotto dalla legge Gelmini sia già particolarmente nutrito, non sono mancati contributi ulteriori: a cominciare da quello, contestatissimo, venuto dalla Lega nord e successivamente adottato da tutta la maggioranza governativa: l’idea è di sottoporre i bambini stranieri a un test d’ingresso in classe per verificarne lo stato di conoscenza della lingua italiana; per tutti coloro che non dimostreranno abilità linguistiche adeguate, la mozione chiede al governo di «istituire classi di inserimento che consentano agli stranieri che non superano prove e test di frequentare corsi di apprendimento della lingua italiana propedeutici all’ingresso delle classi».

Le «Disposizioni» per l’università
Come abbiamo visto, sia nella manovra finanziaria sia nella legge Gelmini sulla scuola viene toccato il tema dell’università. In quei due provvedimenti, tuttavia, manca un disegno organico di riforma dell’istruzione universitaria e il primo passo effettuato dal Ministero dell’Istruzione in tal senso è duplice: l’approvazione di un decreto legge (definito dalla stessa Gelmini «un provvedimento piccolo di tre articoli e un quarto di copertura») e il varo di una serie di linee guida volte alla realizzazione dei seguenti obiettivi: riforma del reclutamento dei docenti e dei ricercatori, riforma del dottorato di ricerca, forte impegno sulla valutazione e riforma della governance.

Per capire di cosa si tratta, partiamo dalle risorse: si tratta di 500 milioni di euro (pari al 5% del fondo per il finanziamento ordinario delle università) che verranno distribuiti alle università virtuose: in sostanza, verranno messi a disposizione degli atenei con i conti in regola, mentre quelli con i conti in rosso, semplicemente, non potranno assumere personale docente e amministrativo.
La distribuzione dei soldi, inoltre, seguirà un criterio meritocratico, «utilizzando parametri già a disposizione con il sistema di valutazione del CIVR». Ai fondi stanziati, inoltre, si aggiungeranno i fondi risparmiati: e qui rientrano in scena i tagli della manovra d’estate. Questi, a detta del ministro, saranno mitigati proprio dal loro essere strettamente connessi all’eliminazione degli sprechi: la «razionalizzazione dei corsi, l’eliminazione dei corsi con un solo studente, la diminuzione delle sedi decentrate» renderà infatti possibile «realizzare risparmi che renderanno quel taglio meno doloroso».

Insomma: i soldi per l’università e per la ricerca sono pochi (in Italia spendiamo 8206 euro a studente contro gli 11.152 della media OCSE) e continueranno a essere pochi. L’unica via per migliorare il sistema, quindi, sarà quello di cercare di sfruttare meglio le risorse a disposizione.
L’impresa, tuttavia, non sarà da poco: abbiamo troppi professori ordinari (18.000) e associati (18.000) di fronte a un numero insufficiente di ricercatori (21.000) e a un numero spropositato di contrattisti (87.985) su cui grava la maggior parte dell’insegnamento universitario; i concorsi per diventare docente o ricercatore non sono veri concorsi ma, piuttosto, procedure di cooptazione (che trasformano il titolare di una cattedra in un vero e proprio «barone»); durante i Ministeri Berlinguer e Moratti abbiamo assistito a una proliferazione di facoltà (attualmente 545) e di corsi di studio (attualmente 3264); abbiamo uno spiccato nepotismo generato dall’assenza leggi sul «conflitto di interessi» (a cominciare dalla mancanza una semplice legge che impedisca ai figli dei rettori di partecipare ai concorsi banditi dall’ateneo guidato dal papà).
C’è infine il problema più grosso, ulteriormente amplificato dalla cosiddetta riforma del «3+2»: non c’è alcun rapporto tra il valore legale di una laurea e il suo valore di mercato. Come osserva impietosamente l’economista Luigi Zingales, «lo Stato crea la domanda, riconoscendo valore legale ad un pezzo di carta conseguito secondo regole puramente formali, indipendentemente dal contenuto di sapere. Privi di alcun feedback dal mercato, i professori continuano ad insegnare quello che vogliono (o sanno) senza alcuna attenzione a quello di cui gli studenti avrebbero bisogno».

Ma non finisce qui: c’è, infatti, anche il problema inverso. Il nostro sistema imprenditoriale (strutturalmente sottocapitalizzato e poco interessato alla ricerca) ha un bisogno molto limitato di studiosi, anche qualora si tratti di studiosi di alto livello. Il risultato è che, come ricorda il giornalista Giovanni Floris, «esportiamo 30.000 studiosi l’anno e ne importiamo appena 3000. Se nel dopoguerra emigravamo per lavorare, ora emigriamo per studiare».

Il decreto legge sull’università
Quali sono, dunque, le idee del governo Berlusconi IV al riguardo? Stanziare 135 milioni di euro per coprire l’intera platea di 180.000 ragazzi ritenuti meritevoli di borse di studio; investire 65 milioni per dotare le residenze universitarie di 1700 posti letto in più; estrarre a sorte i membri delle commissioni d’esame; escludere gli enti di ricerca dal blocco del turnover; individuare le università (sono sette) che dedicano più del 90% del proprio bilancio alla spesa per gli stipendi e, per questo motivo, imporre ad esse il blocco delle assunzioni; offrire la possibilità alle università che rinunceranno a trattenere i professori ultrasettantenni di raddoppiare il numero di ricercatori; escludere i concorsi già banditi dal blocco del turn over.

Ciò che risulta evidente nel lavoro sul decreto dedicato all’università è l’attenzione a capovolgere la strategia comunicativa rispetto a quanto avvenuto per la legge sulla scuola: se per quest’ultima, infatti, il messaggio era volutamente di sfida (centrato tutto sulle parole d’ordine «tagli» e «maestro unico»), nel caso dell’università si cerca, al contrario, di far dimenticare gli aspetti più provocatori (la scelta di continuare a investire poco e la decisione di puntare tutto sull’«apertura» degli atenei al capitale privato) con l’abbondanza di misure improntate al buon senso. Lo stesso iter parlamentare del decreto, aperto a modifiche e a contributi dell’aula, dimostra il tentativo di costruire un’atmosfera di collaborazione in grado di evitare una contrapposizione muro contro muro con Partito Democratico, sindacati e società civile.
Se prima – di fronte alle manifestazioni dell’«Onda» – la Gelmini dichiarava candidamente di non capire i motivi della protesta, ora – di fronte alle accuse di non affrontare il problema dello strapotere dei «baroni» – il giovane ministro può permettersi di affermare trionfante: «Per la prima volta le carriere dei docenti non saranno legate a scatti automatici ma, come previsto dagli emendamenti approvati in commissione, al merito ed alla ricerca effettivamente svolta». accogliendo parzialmente le critiche, infatti, il decreto è stato emendato in modo da escludere i docenti universitari che non fanno ricerca dagli scatti biennali in busta paga, dalle ripartizioni dei fondi dedicati ai Progetti di Ricerca di Rilevanza Nazionale e dalla possibilità di far parte delle commissioni di concorso per il reclutamento dei docenti e dei ricercatori.

I docenti saranno inseriti in un’«anagrafe dei professori», con l’obbligo per tutti di pubblicare l’elenco delle proprie attività di ricerca scientifica e dovranno pubblicare una «relazione concernente i risultati delle attività di ricerca, di formazione e di trasferimento tecnologico nonché i finanziamenti ottenuti da soggetti pubblici e privati». Enfatizzando, insomma, la parola d’ordine «norme anti-baroni» si finisce per rendere più accettabile l’incentivazione a «ottenere finanziamenti da soggetti privati». E, soprattutto, si rende la vita più difficile all’opposizione.

Il ministro ombra del PD Mariapia Garavaglia, infatti, osserva: «L’esecutivo è riuscito con abilità mediatica a far prevalere l’idea di decreto innovativo e che, con lo strumento del sorteggio, si metta un forte argine al problema del reclutamento e dei concorsi per l’accesso alla docenza nell’università. Il ministro Gelmini si è speso in continuazione in un profluvio di interviste sul concetto di “merito”. Ma in che modo esso viene valorizzato, quando l’ANVUR, lo strumento attraverso il quale già adesso si potrebbero dare valutazioni fondate e, appunto, di merito, non è stato attivato dal ministro?».

Sta di fatto che il movimento di lotta contro la legge Gelmini sulla scuola appare più forte di quello contro il decreto Gelmini sull’università. Nel primo caso il governo viene accusato di voler sabotare la scuola primaria italiana che, notoriamente, è considerata tra le migliori del mondo; di non concentrarsi sulla «pecora nera» dell’istruzione italiana (vale a dire, la scuola media e superiore, nella quale spendiamo di più degli altri per ottenere risultati peggiori); di voler ritornare a una scuola cattedratica fatta esclusivamente di premi e punizioni. Di conseguenza, l’opposizione degli insegnanti (riunita nell’attivissima ReteScuole) si sta organizzando perché, sin da gennaio, tutti i genitori chiedano il tempo pieno e facciano così fallire la riforma del maestro unico.

Nel caso del decreto sull’università, invece, la principale critica che si può fare al governo è di essere «poco coraggioso» e di voler continuare a spendere poco per università e ricerca: critica che, purtroppo, accumuna l’attuale governo a tutti quelli che lo hanno preceduto. Il rischio, insomma, è che l’«Onda» universitaria non riesca a elaborare una piattaforma altrettanto «abile» rispetto a quella escogitata dal governo.

A titolo di esempio, riportiamo i punti dell’«autoriforma» partorita il 16 novembre 2008 dall’assemblea plenaria degli atenei in lotta: abolizione delle lauree del «3+2», del numero chiuso e della frequenza obbligatoria; agevolazione dell’accesso ai consumi intellettuali; elaborazione di un sistema di valutazione non più «legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni» ma calato «nei contesti territoriali in cui le università sono inserite»; aumento dei finanziamenti fino ai livelli indicati dal Trattato di Lisbona (dall’attuale 1% al 3% del PIL) e loro estensione anche ai ricercatori non strutturati e ai dottorandi (che dovranno entrare a pieno titolo negli organi decisionali); retribuzione del lavoro di ricerca con un salario adeguato e garantito dallo Statuto dei lavoratori; abolizione dei «dottorati senza borsa»; istituzione di un «contratto unico di lavoro subordinato una volta terminato il dottorato, di durata non inferiore ai due anni»; annuncio di «una grande inchiesta sul lavoro precario nell’università» concepita sul modello del censimento dei precari negli enti pubblici intrapreso dagli studiosi della cognizione del CNR.
Piattaforma senza dubbio «coraggiosa»: ma quanto realizzabile?