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La nascita della fotografia: Wedgwood e Niépce

Figlio del grande ceramista Josiah Wedgood (1730-1795), l’inglese Thomas Wedgwood

Figlio del grande ceramista Josiah Wedgood (1730-1795), l’inglese Thomas Wedgwood (1771-1805) frequentò dapprima l’Università di Edimburgo alla fine degli anni Ottanta e poi per un breve periodo la fabbrica del padre, che però gli causò gravi malditesta.

A soli ventuno anni, nel 1792, ebbe il coraggio di presentare alla Royal Society un suo innovativo studio sul colore emesso da oggetti riscaldati ad altissime temperature, formulando la cosiddetta teoria della temperatura del colore: egli si rese conto che, riscaldando due oggetti alla stessa temperatura, essi assumono un identico colore, passando, con l’aumentare del calore, dal colore rosso intenso al bianco.
Nel 1802, con il collega Humphrey Davy, presentò ancora alla Royal Society un altro originale studio sulla possibilità di trasferire immagini fotografiche su supporti in vetro e in pelle per mezzo di una tecnica in grado di catturarle precedentemente con il nitrato d’argento. Le immagini ottenute con il nitrato d’argento, per lo più foglie o altri piccoli oggetti, mostravano però il non irrilevante problema che, se esposte alla luce naturale, perdevano contrasto tra chiari e scuri e tendevano a sfaldarsi in maniera irreversibile. È comunque dovuta con ogni probabilità a Wedgwood la prima impressione su carta di un’immagine scaturita da un processo chimico.

Nato nel 1765 a Chalon-sur-Saone e spentosi a Saint-Loup-de-Varennes nel 1833, il francese Joseph Nicéphore Niépce è stato soprattutto un grande chimico. Partecipe attivamente alle fasi salienti della rivoluzione francese, dopo la guerra, insieme con il fratello Claude, si dedicò a una brillante carriera di inventore e progettista, ideando ad esempio un motore a combustione interna.
Ma la sua vera passione, documentata sin da un viaggio in Italia nel 1797, era indubbiamente quella per la camera oscura, una sorta di antenato della fotografia. Il suo primo interesse concreto per la realizzazione di immagini senza l’intervento diretto dell’uomo si sviluppò sulla scia dei suoi esperimenti con la tecnica incisoria della litografia. Egli scoprì infatti che, trattando le lastre litografiche con bitume sminuzzato in polvere e disciolto in un’essenza di lavanda ed esponendole poi alla luce, nei punti colpiti dalla luce il bitume diventa insolubile in olio di lavanda: ottenne così la prima lastra fotografica, definita «eliografia».
Il grande limite di questo laborioso procedimento era quello che l’immagine tendeva a non fissarsi sulla lastra, ma al contrario a dissolversi o ad annerirsi a contatto con la luce. A mano a mano che egli incrementò le sue nozioni tecniche, l’eliografia divenne sempre più perfezionata, anche se va sottolineato che non raggiunse mai il livello delle prime fotografie di Daguerre – i cosiddetti dagherrotipi – e rimase ancorata a una tradizione artigianale che aveva forse più contatti con la pittura che con la fotografia.