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La Psicologia Politica Liberale

Saggio di Luigi De Marchi

Saggio di Luigi De Marchi 

La psicologia politica
Già Aristotele, negli otto volumi della sua Politica, esprime a più riprese valutazioni della politica e delle sue finalità che sottintendono una concreta visione delle inclinazioni psicologiche popolari e delle forme politiche a loro più rispondenti. Così, ad esempio, quando egli afferma che non esistono popoli adatti per natura alla tirannia poiché quest’ultima è «contro natura», egli ci rivela implicitamente, ma chiaramente, di considerare l’essere umano, come farà anche la psicologia umanistica 2500 anni dopo, più incline alla libertà e alla responsabilità che non alla dipendenza e al servilismo acritico.

E, simmetricamente, quando Machiavelli descrive con crudo realismo le «virtù» ben poco virtuose del suo Principe, egli ci dice tanto chiaramente quali, a suo parere, debbano essere i tratti salienti della personalità del leader politico da poter essere considerato il precursore dell’altro grande filone della psicologia politica: quello, fondato negli anni Trenta da Harold Lasswell, che cercherà d’individuare e valutare la struttura psicologica dei vari tipi di leader politici.

Ma se sorvoliamo su questi accenni più o meno espliciti alle convinzioni dei vari autori circa le caratteristiche psicologiche innate o socialmente indotte della persona umana in genere e del leader politico in particolare, è solo alla fine del XIX secolo che comincia a emergere, in alcuni autori, un interesse chiaro e specifico per l’analisi psicologica dei comportamenti politici delle dirigenze e delle masse.

Comunque, anche quando questo interesse per la psicologia politica comincia a emergere, esso non assumerà per oltre un secolo, e fino ai nostri giorni, una scala e una diffusione lontanamente paragonabili all’interesse e alla partecipazione che hanno suscitato tante altre branche della psicologia: dalla ricerca clinica a quella psicoterapeutica, da quella sui processi conoscitivi, affettivi o creativi a quella sociologica o criminologica, da quella psico-fisiologica a quella psico-farmacologica. Perché questa lentezza e marginalità della psicologia politica rispetto a tante altre discipline psicologiche?

Una ricerca marginalizzata…
A fil di logica il fenomeno appare ben poco comprensibile perché, proprio in quanto ricerca sui fattori profondi dei comportamenti delle dirigenze e delle masse in un campo cruciale com’è quello politico, era evidente che la psicologia politica poteva e può dare un contributo prezioso alla comprensione e alla gestione di quei comportamenti e, quindi, al benessere individuale e sociale.

Proprio questo ritardo e questa marginalità della psicologia politica rispetto ad altri orientamenti della ricerca psicologica sono probabilmente un sintomo delle molte resistenze opposte dalle dirigenze politiche e religiose (con le loro appendici accademiche) e, in genere, dai cosiddetti poteri forti, all’analisi scientifica delle dinamiche psichiche profonde dei capi e delle masse.

Non si è trattato di resistenze immediate. Al contrario, le opere degli iniziatori della psicologia politica furono accolte con grande favore dai politici del primo Novecento. Così, per esempio, è noto che Mussolini, Hitler e lo stesso Lenin lessero e rilessero con ammirazione e passione le opere di Gustave Le Bon e, soprattutto, la sua Psicologia delle folle (Psychologie des foules, 1895). Fu solo quando Lasswell, Reich e gli esponenti della Scuola di Francoforte cercarono di applicare alla politica alcune scoperte cruciali della psicoanalisi che il mondo politico, e soprattutto quello d’indirizzo totalitario, cominciò a guardare alla psicologia in genere, e a quella politica in particolare, con estrema diffidenza o aperta ostilità. Il motivo di questo strano voltafaccia mi sembra evidente.

Gustave Le Bon, Gabriel de Tarde (L’opinion et la foule, 1901), Scipio Sighele (La folla delinquente, 1891) e gli altri pionieri della psicologia politica – a eccezione del nostro Pasquale Rossi (L’animo della folla, 1898; Psicologia e sociologia collettiva, 1904) che si distinse per una concezione non machiavellica ma educativa ed embrionalmente umanistica della psicologia politica – studiarono sempre il comportamento delle masse sia per sottolinearne gli aspetti irrazionali, primitivi, brutali e suggestionabili, sia per evidenziare i criteri e gli strumenti con cui il leader politico poteva controllarle e manovrarle: e ciò ovviamente non poteva che riuscire gradito alla personalità manipolativa di molti politici, specie di quelli più inclini, come gli aspiranti dittatori, a rafforzare al massimo il loro potere personale.
Tutto ciò spiega ottimamente perché, in perfetta armonia con le loro profonde affinità psicologiche di politici violenti e a dispetto dei loro estremi antagonismi ideologici, Mussolini, Hitler e Lenin abbiano avuto un’analoga ammirazione per l’opera di Le Bon, confermando inconsapevolmente quello che sarà, nella seconda metà del Novecento, un assunto centrale della mia «Psicologia Politica Liberale»: e cioè il primato della psicologia, rispetto all’economia e all’ideologia, nell’analisi e nella comprensione dei comportamenti politici.

…e poi osteggiata
Quest’iniziale apertura delle dirigenze per la psicologia politica si trasformò tuttavia rapidamente in freddezza e poi in aperta ostilità quando, a partire da Freud, la psicologia cominciò, da un lato, a svelare i tratti infantili e nevrotici della personalità dei leader e dall’altro a rivendicare, a partire da Reich, l’importanza cruciale dei fattori psicologici nelle vicende storiche, che invece le dirigenze politiche volevano continuare a considerare determinate dai fattori ideologici o economici privilegiati dalle rispettive dottrine storiciste di stampo idealistico o marxistico. La psicoanalisi, inoltre, aveva il torto di sottolineare l’importanza della sessualità nella dinamica sociale: un torto imperdonabile per le dirigenze totalitarie di destra e di sinistra che avevano nella sessuofobia, come già quelle delle religioni dogmatiche, uno strumento essenziale del loro dominio.

Ciò spiega la sistematica cancellazione della psicoanalisi a opera non solo della dittatura nazista, che la definiva «un prodotto dell’abiezione morale ebraica», ma anche di quella stalinista, che la considerò «un prodotto dell’abiezione morale borghese». E spiega anche perché, negli anni del fanatismo stalinista, Cesare Musatti trovò un’accoglienza gelida e un tagliente rifiuto in Unione Sovietica quando, negli anni Cinquanta, propose ingenuamente la pubblicazione dell’opera omnia di Freud e perché, negli ultimi anni Sessanta, Goffredo Parise scoprì che non solo la psicoanalisi ma il nome stesso e il ricordo della psicologia erano stati talmente cancellati dalla rivoluzione delle Guardie Rosse che, all’Università di Pechino, non trovò né un corso di psicologia né un qualsiasi docente capace di capire la parola «psicologia» e di indirizzarlo a un qualche esperto della materia.

È comunque dal pensiero di Freud che prende le mosse la psicologia politica nel senso più sistematico e profondo del termine, imboccando subito due strade distinte e distanti: la prima, il cui iniziatore fu Harold Lasswell, tentò di utilizzare la psicoanalisi per comprendere la personalità e i comportamenti dei vari tipi di leader politico; la seconda, il cui iniziatore fu indubbiamente Wilhelm Reich, un allievo brillante e ribelle di Freud, tentò d’integrare la psicoanalisi col marxismo per meglio comprendere le sconfitte delle sinistre storiche e le vittorie dei movimenti fascisti negli anni Venti, Trenta e Quaranta e per offrire così alle forze progressiste uno strumento d’analisi e azione sociale più efficace di quelli ancorati alle teorie pan-economiste del marxismo classico.

Lasswell e la psicoanalisi dei leaders
Vediamo anzitutto la strada aperta da Harold Lasswell. Nel 1930, a soli 28 anni, Lasswell pubblicò l’opera più importante e innovativa della sua vita, Psycophatology and Politics (1930), nella quale, ispirandosi agli assunti freudiani circa l’evoluzione infantile della sessualità e le radici infantili della psicopatologia, tentava un’interpretazione psicoanalitica sia di alcuni tipi di personalità dei leader politici, sia del comune denominatore nevrotico dei loro comportamenti.
Lasswell aveva buon gioco a criticare, in quest’ottica, le pompose biografie degli statisti che quasi sempre nulla dicono delle loro vicende infantili. «Noi invece – continuava – vogliamo scoprire quali esperienze infantili o adolescenziali sono determinanti per lo sviluppo dei tratti e degli interessi specifici dell’uomo politico». Gli impulsi e i bisogni connessi a quelle esperienze sopravvivono, secondo Lasswell, in alcune «strutture psicologiche primitive» che continuano a controllare il comportamento del politico «in forma più o meno mascherata».

Lasswell presentava poi, per dimostrare la sua tesi, le vicende infantili di una ventina di personaggi politici che rivelavano, tutte, una qualche forma di fissazione o devianza sessuale negli anni adolescenziali o infantili e che contribuivano a spiegare le carriere politiche di ciascun personaggio come una sorta di gratificazione compensatoria delle frustrazioni libidinali subite nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Lasswell arrivava così a definire i «tre tempi» della formazione della personalità di molti politici.
Il «primo tempo» era costituito dai traumi o dalle frustrazioni dell’infanzia. Il «secondo tempo» era costituito dal trasferimento delle reazioni emozionali a quei traumi e quelle frustrazioni dall’ambiente familiare alla società in generale. Così, per esempio, l’odio represso per il padre può trasformarsi in odio per i potenti della politica e dell’economia. Infine, il «terzo tempo» è costituito dal travestimento di queste pulsioni aggressive in termini di pubblico interesse.

Utilizzando infine gli assunti freudiani del Complesso Edipico, Lasswell cercò di definire una tipologia caratteriale dell’Homo politicus. Egli distingue così i politici in 1) agitatori, 2) amministratori e 3) teorici. A ciascun tipo politico corrisponde, secondo Lasswell, una diversa articolazione dell’evoluzione sessuale infantile. Negli agitatori si riscontrerà dunque un disturbo nel processo di svezzamento, negli amministratori un disturbo dell’educazione escretoria e nei teorici un divieto delle manipolazioni genitali.

Lasswell, a partire dagli anni Quaranta, tentò anch’egli una qualche integrazione del suo approccio psicoanalitico con gli assunti marxisti portati in America dagli immigrati francofortesi in fuga dalla violenza nazista. Così, nel 1945 egli pubblicava presso la Yale University, di cui era divenuto docente, un saggio significativamente intitolato (sulle orme di Reich, come sempre sottaciuto), La psicologia dell’hitlerismo come risposta della piccola borghesia all’insicurezza prolungata (The Psychology of Hitlerism as a response of the lower middle classes to continuing insecurity, 1933). In un altro saggio (The Mral Vocation of the Middle-Income Skill Group), dall’intonazione stranamente analoga al «Manifesto dei Comunisti», Lasswell aveva tentato, già nel 1941, di collegare l’involuzione fascista alla crisi della piccola borghesia.

La psicologia di massa di stampo marxista
Del resto, questo collegamento tra psicoanalisi e marxismo era stato sostenuto in modo molto più sistematico dai fautori della seconda «linea di sviluppo» del pensiero freudiano ora menzionata: quella percorsa da Reich e dai francofortesi.

Già nel 1927 Reich lesse nel salotto di Freud a Vienna un rapporto significativamente intitolato La prevenzione sociale delle nevrosi (The Social Prevention of Neurosis) ove, partendo dalla tesi centrale della psicoanalisi secondo cui la repressione della sessualità naturale nel bambino e nell’adulto sarebbe il fattore primario delle nevrosi, coerentemente sosteneva che un risanamento radicale e stabile dei rapporti sociali si poteva realizzare solo abbattendo gli istituti fondamentali della morale repressiva (dalla famiglia alla gerarchia ecclesiastica alla proprietà privata) e concludendo che la psicoanalisi doveva avvicinarsi alle forze della sinistra rivoluzionaria.
Freud fu molto colpito da quel rapporto, cui tentò di reagire col suo famoso saggio del 1928 Il disagio nella civiltà ove, pur ribadendo la sua tesi basilare circa la matrice sessuofobica del malessere psichico umano, affermò anche che la repressione della sessualità era necessaria per produrre, mediante i processi di sublimazione, le opere più alte della civiltà (dall’arte alla morale, dalla scienza all’idealismo politico e religioso). In altre parole, secondo Freud, la difesa e l’evoluzione della civiltà erano affidati proprio a quei tabù sessuali che stavano alla base delle nevrosi e delle psicosi: una trappola fatale e insormontabile.

Ma Reich non si arrese e, nel 1929, pubblicò un saggio più ampio, intitolato esplicitamente Materialismo dialettico e psicoanalisi in cui, gettando le basi del pensiero che sarà poi definito «freudo-marxista», presentava la psicoanalisi come un’integrazione e un’alleata naturale del marxismo e ribadiva l’urgenza di una sempre più stretta collaborazione del movimento psicoanalitico con le forze comuniste.

Quelle idee erano ormai nell’aria e, nel 1931, il filosofo e sociologo tedesco Max Horkheimer, divenuto direttore dell’Istituto di Ricerca Sociale dell’Università di Francoforte, creò con vari psicologi e sociologi (da F. Pollock a L. Lowenthal, a T.W. Adorno a E. Fromm a H. Marcuse) un gruppo di ricerca, la famosa «Scuola di Francoforte», interamente dedicato al tentativo di utilizzare il grande potenziale della psicoanalisi per la comprensione del comportamento umano nel quadro delle analisi economiche e sociologiche della tradizione marxista. Purtroppo, come spesso accade nel mondo intellettuale, un deprimente denominatore comune di quegli studiosi, per altri versi davvero affascinanti, fu la sistematica rimozione del nome e dell’opera pionieristica di Wilhelm Reich.
Questi, a sua volta, proseguendo impavido nella sua strada di militante comunista, mentre costituiva in Germania un movimento giovanile (che, denominato Sex-Pol e finalizzato a sviluppare la rivoluzione sessuale nel partito comunista e nella società in generale, ebbe un successo travolgente nella gioventù tedesca e arrivò in breve a contare oltre 60.000 iscritti), dava alle stampe il famoso Psicologia di massa del fascismo (1933), vero e proprio pilastro nella storia della psicologia politica.

Ma proprio questo imponente successo politico era destinato a scatenare contro Reich i timori e gli odii delle dirigenze dei due movimenti nei quali tanto aveva creduto e tanto si era impegnato in quegli anni: la psicoanalisi e il partito comunista. Freud e gli altri massimi esponenti della psicoanalisi vedevano in Reich un pericoloso fanatico agitatore comunista che poteva mettere in serio pericolo il loro disperato tentativo di trovare un qualche modus vivendi col fascismo montante, mentre il partito comunista vedeva in Reich un pericoloso eretico o, peggio, oppositore, impegnato a sabotare il dogmatismo staliniano, di cui la sessuofobia era ormai parte integrante.

Così, con sintomatica simultaneità, nel 1934 Reich fu espulso dal movimento psicoanalitico come «agente comunista» e dal movimento comunista come «agente borghese»: una tragicomica, duplice scomunica che bene simboleggia la condizione di molti pensatori indipendenti nella cultura politica e scientifica dominante.

A loro volta i francofortesi, trasferitisi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste, pubblicarono nel 1948 uno studio monumentale, La personalità autoritaria, nel quale cercavano di dimostrare (sulle orme di Reich ma, come sempre, senza mai nominarlo) che alla base del fascismo stava un tipo di personalità sessuofobica, razzista, gregaria e conservatrice egemone nella piccola borghesia. Tale personalità era suscettibile di reagire ai processi di pauperizzazione ed emarginazione che le erano inflitti dalle crisi economiche capitaliste con una estremizzazione dei suoi orientamenti conservatori e intolleranti: insomma con una adesione massiccia ai movimenti di stampo nazi-fascista. Tale analisi, tuttavia, non era in grado a render conto né dell’acritica adesione di immense moltitudini allo stalinismo, né degli orrori che le dittature comuniste avevano prodotto e stavano producendo.

Comunque, tanto Reich quanto i francofortesi restavano ancorati alle teorie marxiste della società e della lotta di classe e cercavano solo di dimostrare il prezioso apporto che il pensiero psicoanalitico poteva dare all’affinamento e allo sviluppo delle analisi marxiste e dell’azione politica ad esse ispirata.

La Psicologia Politica Liberale
È sullo sfondo di queste impostazioni e conclusioni dei «padri-fondatori» della psicologia politica che emergono con chiarezza le profonde innovazioni che, in questa disciplina tanto essenziale per le scienze politiche e sociali, sono state introdotte dalla Psicologia Politica Liberale da me elaborata nella seconda metà del Novecento.
Si tratta d’innovazioni che si propongono di assicurare alla psicologia politica non solo un ruolo primario nell’analisi e nell’azione sociale e politica ma anche strumenti capaci di affrontare e risolvere le molte contraddizioni trascurate o addirittura create dai precedenti approcci di stampo sia psicoanalitico che marxista: e a questo superamento di Marx e Freud allude difatti il sottotitolo scherzoso di una mia recente opera (Il nuovo pensiero forte. Marx è morto, Freud è morto e io mi sento molto meglio, 2007), ispirato a una celebre battuta di Woody Allen.

Vediamo anzitutto le innovazioni introdotte dalla mia Psicologia Politica Liberale nelle impostazioni teoriche di fondo della disciplina. Come s’è visto, gli iniziatori ottocenteschi della psicologia politica furono assorbiti quasi soltanto dallo studio della psicologia delle folle, viste essenzialmente come una forza tanto potente quanto minacciosa che il leader politico avveduto doveva, appunto coll’aiuto dello psicologo della politica, imparare a controllare e a manovrare, mentre la psicologia politica di Lasswell tentò di analizzare in chiave freudiana la personalità del leader politico e la psicologia politica di Reich e dei francofortesi cercò di spiegare i comportamenti delle masse europee negli anni Venti e Trenta, così inconciliabili con gli assunti marxisti, suggerendo un’integrazione del marxismo con alcune scoperte e ipotesi della psicoanalisi freudiana, che restava comunque una scienza ancillare, subordinata alla visione generale della storia e della realtà proposta (e spesso imposta) dal marxismo.

La Psicologia Politica Liberale, invece, abbandona totalmente gli assunti marxisti e storicisti e pone al centro della dinamica storica, politica e socio-culturale i fattori psicologici delle masse e dei vertici, candidandosi con la psicologia d’indirizzo umanistico esistenziale a un ruolo di protagonista nella moderna politologia e nella ricerca sociale in genere. La novità dell’approccio mi sembra bene sintetizzato da un motto emblematico della Psicologia Politica Liberale: «Le ideologie sono maschere, le economie sono macchine. Ciò che veramente sta alla base delle vicende socio-politiche e storiche è la struttura psicologica, la mentalità delle persone e dei gruppi che stanno dietro alle maschere e dentro alle macchine».

Questo nuovo approccio, come si è detto, ha consentito di risolvere molti cruciali problemi che le scienze politiche ispirate allo storicismo marxista o idealiste hanno lasciato insoluti, svelando l’inutilizzabilità (e quindi il fallimento) dei loro stessi strumenti d’analisi. Basteranno un paio di esempi tratti dalla storia del Novecento: il totalitarismo di destra e di sinistra e l’esplosione demografica.

Tanto in base agli assunti centrali dello storicismo idealista (che vede nelle idee e nelle ideologie le forze dominanti della storia e della società) quanto in base agli assunti dello storicismo marxista (che vede tali forze dominanti nei processi economici e produttivi), i regimi nazi-fascisti e comunisti – che avrebbero dovuto comportarsi in modo totalmente diverso, in quanto totalmente antagonisti sotto il profilo ideologico (nazionalisti, individualisti e razzisti quelli nazi-fascisti, internazionalisti, collettivisti e antirazzisti quelli comunisti) e sotto il profilo economico (capitalisti quelli nazi-fascisti, anticapitalisti quelli comunisti) – si sono poi comportati in modo del tutto indistinguibile nell’organizzazione e nella gestione del potere.
Questo paradosso, che le scienze politiche di stampo idealista e marxista non sono riuscite a spiegare, appare non solo comprensibile ma inevitabile se, in conformità degli assunti della Psicologia Politica Liberale, consideriamo fattore centrale di ogni dinamica politica e sociale la struttura psicologica delle dirigenze e scopriamo la sostanziale indistinguibilità della personalità e della mentalità di quei dirigenti: gli uni e gli altri caratterizzati da una personalità autoritario-gregaristica (cioè arrogante coi dominati e succube coi superiori) e da una mentalità ugualmente dogmatica, sopraffattoria, intollerante e pronta allo sterminio degli oppositori e dei dissenzienti.

Anche un’altra grande tragedia del nostro tempo, l’esplosione demografica, non è spiegabile in alcun modo con gli approcci critici tradizionali. Questa esplosione, che in un secolo ha quadruplicato i numeri raggiunti dalla popolazione umana in due milioni di anni di evoluzione e che io definisco da quarant’anni «la madre di tutte le tragedie» (perché tutti i più gravi problemi del nostro tempo – dalla fame alle guerre territoriali, dalla disoccupazione di massa alle migrazioni disperate, dalla desertificazione all’inquinamento del pianeta – sono a essa correlati), non era affatto inevitabile, né lo erano i suoi micidiali corollari, come dimostrano i pochi Paesi (Cina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) i cui governi hanno saputo applicare una seria politica denatalista.
Ma, al di fuori di queste rare eccezioni, la questione demografica è stata unanimemente negata o ignorata da quasi tutte le dirigenze politiche e religiose degli ultimi cent’anni: dai leader nazi-fascisti come da quelli stalinisti, dagli economisti marxisti come da quelli liberisti, dai demografi di destra come da quelli di sinistra, dagli integralisti cattolici come da quelli islamici. Questa strana unanimità, ancora una volta, non è spiegabile con i soliti criteri ideologici o economici delle nostre scienze politiche tradizionali perché si tratta di dirigenze che si dicevano e si credevano, si dicono e si credono arcinemiche e che, su ogni altro problema, hanno avuto e hanno posizioni molto diverse o addirittura contrastanti.

Ma se invece analizziamo la questione da un punto di vista psicologico o, come io preferisco dire, psicopolitico, scopriamo agevolmente che il problema della natalità è strettamente legato a quelli della procreazione e della sessualità, e quindi ai tabù sessuali, e che la rimozione dei problemi sessuali dalla discussione pubblica ha accomunato e accomuna, confermando alcune tesi cruciali della psicopolitica, le più diverse correnti del pensiero politico e religioso tradizionale. Certo, le gerarchie più intransigenti, nella rimozione della questione demografica, sono state quelle dogmatiche (fasciste e comuniste, cattoliche e islamiche), ma anche le forze laiche e liberal-democratiche si sono spesso allineate al mondo clericale nella tacita cancellazione del problema.

Così oggi, mentre l’assalto convergente di popolazioni in crescita esplosiva alle risorse del pianeta sta preparando la terza guerra mondiale e, con essa, la crisi terminale della civiltà, l’umanità rischia, in sostanza, di morire sterminata dalla sessuofobia, cioè da un fattore psicologico che le nostre scienze politiche e sociali hanno sempre ignorato nelle loro dottissime analisi e valutazioni. Ma vediamo anche le altri basilari differenze tra la psicologia politica tradizionale e la mia Psicologia Politica Liberale.

La prima si è sempre limitata al tentativo di analizzare un singolo problema della realtà politica: con Le Bon, de Tarde o Sighele le pulsioni primitive della folla e il modo di gestirle; con Lasswell le dinamiche psichiche del leader politico; con Reich e i francofortesi le radici psico-sociologiche dei movimenti fascisti e nazisti.
La Psicologia Politica Liberale tenta invece, come vedremo, una interpretazione globale della realtà storica e politica e delle sue apparenti contraddizioni. Proprio per la priorità assegnata alle dinamiche psicologiche, essa ha potuto pertanto analizzare non solo il nazi-fascismo ma anche il comunismo, non solo il fanatismo politico ma anche quello religioso, non solo i problemi politici in senso stretto ma anche quelli economici, demografici, ecologici e culturali del mondo contemporaneo, non solo la fragilità dei dogmatismi marxisti e liberisti, ma anche la validità dell’approccio psicopolitico liberale e della teoria liberale della lotta di classe che esso ha generato.

La psicologia politica precedente, inoltre, aveva visto le radici della distruttività e della conflittualità umana o, con Lasswell, nei disturbi della evoluzione sessuale infantile, oppure, con Reich e i francofortesi, nelle patologie individuali e sociali prodotte dai metodi educativi tradizionali o dalle dinamiche economiche capitaliste: insomma in fattori eliminabili con drastiche riforme socio-politiche.

Le ricerche psico-antropologiche della Psicologia Umanistica Esistenziale (cui la Psicologia Politica Liberale si collega) hanno consentito, infine, di scoprire che la conflittualità umana ha le sue prime radici in fattori psicologici pre-culturali che hanno essi stessi condizionato la nascita e gli sviluppi delle varie culture e che sono connessi all’emergere della coscienza nell’evoluzione psichica umana e, con essa, dell’angoscia di morte e della sua elaborazione paranoidea in credenze dogmatiche di salvazione dalle quali scaturisce il fanatismo religioso e politico, con i suoi orrori millenari.

E questa nuova analisi ha consentito di rispondere a un quesito rimasto irrisolto dalle teorie puramente socio-gene della distruttività umana proposta da neo-freudiani e marxisti di buon accordo: se l’uomo delle origini era tanto sano, buono, felice e pacifico come Rousseau e i suoi nipotini sostengono da duecento anni, come ha potuto creare, quasi sempre e quasi dovunque, solo società malate e patogene?

Insomma, l’approccio psicologico costituito dalla Psicologia Umanistica Esistenziale (che qui di seguito sintetizzerò), non ha prodotto solo una nuova teoria della nevrosi e della cultura, con ricadute rilevanti su tutte le scienze umane ma, con la sua filiazione sociale, cioè la Psicologia Politica Liberale, ha proposto anche una nuova visione unitaria della realtà e della storia.
Nasce così quel «nuovo pensiero forte» che Gianni Vattimo, da bravo marxista deluso, aveva definito ormai impossibile, dopo il crollo del marxismo, nel suo famoso saggio Il pensiero debole. Ma vediamo per sommi capi i contenuti essenziali della Psicologia Umanistica Esistenziale e, soprattutto, della Psicologia Politica Liberale che qui vogliamo presentare.

L’indirizzo umanistico esistenziale
Consapevole della sovrabbondanza di scuole psicologiche già esistenti ho molto esitato prima di fondare un nuovo indirizzo psicoterapeutico. Per molti anni, anzi, ho preferito lavorare nell’ambito di indirizzi già affermati (almeno all’estero) che sentivo congeniali e creativi. Così oltre quarant’anni fa fondai la scuola di Wilhelm Reich in Italia, vent’anni fa fondai l’Istituto di Bioenergetica, per vari anni fui presidente delle Scuole di Carl Rogers e Alexander Lowen nel nostro Paese e tuttora sono direttore della Società Europea di Psicologia Umanistica.

Negli ultimi anni Settanta, però, le mie esperienze personali e professionali hanno imposto alla mia attenzione l’importanza dell’angoscia di morte nelle dinamica psichica dei singoli e dei gruppi e la sistematica negazione di tale angoscia da parte dei principali indirizzi psicologici esistenti.

È nata da qui una ricerca psicoantropologica approdata a una nuova teoria esistenziale della cultura e della nevrosi. Durante quella ricerca ho scoperto il pensiero di Otto Rank, che per primo aveva proposto lo sviluppo in chiave esistenziale dell’approccio psicodinamico, e ho intitolato a lui sia il mio Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale, fondato nel 1986, sia la mia opera Otto Rank, pioniere misconosciuto (Melusina, 1992).Vediamo dunque le linee essenziali di quella ricerca, pubblicata in volume nel 1984 col titolo Scimmietta ti amo (Longanesi) e ripubblicata nel 2002 in edizione ampliata col titolo Lo Shock Primario (RAI-ERI).

La nuova teoria esistenziale della cultura…
In alcune delle sepolture più antiche del paleolitico medio, a volte databili a centomila anni fa, sono state trovate armi da caccia e cibo fossilizzato. I primi documenti di cultura umana nel senso tecnologico del termine sono notoriamente più antichi.
Ma se, conforme alla famosa definizione di E.B. Taylor, adottata sostanzialmente dalla maggior parte degli antropologi, consideriamo la cultura umana come «l’insieme delle credenze, dei riti e dei costumi condivisi da un gruppo», quelle sepolture dell’era neandertaliana possono essere considerate la più antica espressione culturale della nostra specie. Esse ci sono state lasciate da una razza, quella appunto neandertaliana, ancora ricca di tratti scimmieschi, e precedono di oltre 70.000 anni le successive, più antiche tracce di attività culturale umana: le pitture delle caverne di Dordogna.

Per parte mia sono giunto alla conclusione che quelle sepolture costituiscono una valida prova del fatto che la cultura umana è stata fin dai suoi primordi (e resta tutt’oggi) soprattutto una formazione reattivo-difensiva contro un trauma primario della nostra specie che definisco shock esistenziale: l’improvvisa e ricorrente ondata di panico e disperazione scatenata dalla morte nella mente umana, quando questa divenne così tipicamente capace d’intuire il suo destino di morte, d’immaginare e attendere il proprio annientamento, di partecipare così dolorosamente all’angoscia e alla morte dei suoi simili e di ripetere quotidianamente questo tormento nella memoria, nel lutto e nell’anticipazione.

L’uomo reagì a questo trauma primario e ricorrente negando la morte, rimuovendone l’angoscia e sviluppando fantasie e profezie di una vita d’oltretomba. Queste fantasie e promesse d’immortalità costituiscono quindi, non a caso, il comune denominatore di tutte le religioni conosciute: dalle più primitive alle più elaborate, dalle più antiche alle contemporanee.

…e della distruttività umana
Ben presto la morte fu percepita dall’uomo come una punizione per una colpa antica – la brama umana di amare e di conoscere – che aveva spinto l’uomo a infrangere il divieto divino di cogliere il frutto dell’Albero della Conoscenza e dell’Amore Carnale: il mito biblico del Genesi è solo la più famosa di queste elaborazioni.
Se il Paradiso era stato perduto a causa di questa brama, l’uomo poteva riconquistarlo e ricevere così la felicità e l’immortalità perdute solo reprimendo la libertà d’amare e di conoscere e sottomettendosi alla castità e ai dogmi della gerarchia religiosa.

Qui dunque, secondo me, stanno le radici della tragica persecuzione che ha così spesso colpito l’amore sessuale e il pensiero indipendente nella storia della cristianità e di tante altre civiltà. Ma l’interpretazione della morte in termini di colpa e punizione ebbe molti altri rovinosi effetti sui comportamenti dei gruppi umani.

Il divorante bisogno umano di placare il proprio ossessivo senso di colpa e la propria tormentosa angoscia di morte, di propiziarsi le Divinità Offese e di conquistare il passaporto per la Salvezza, la Felicità e l’Immortalità è stato e resta il fattore primario di quella diffusa inclinazione delle masse umane a comportamenti sado-masochisti (rituali espiatori, sacrifici per la Chiesa, lo Stato o il Partito, passiva soggezione all’autorità) che le scienze sociali hanno spesso rilevato e denunciato ma non hanno mai saputo spiegare in modo persuasivo.

L’essere umano, tuttavia, tentò ben presto di liberarsi da questo senso di colpa primario, ricorrente ed intollerabile, anche con modalità più atroci di quelle puramente espiatorie. Attraverso il ben noto meccanismo della proiezione paranoidea, l’uomo proiettò la sua colpa su altri uomini: sui miscredenti, sui nemici della vera Fede e della vera Chiesa. Ma poiché ogni gruppo umano aveva il suo Vero Dio da placare e propiziare, questo meccanismo diede luogo a una conflittualità cronica e universale tra le culture, le società e le Chiese che ha insanguinato tutta la storia umana.
Sterminare, sottomettere o convertire i miscredenti, percepiti come agenti del Demonio in lotta contro il Vero Dio e la Vera Fede, non fu più un optional ma un tassativo dovere morale per il fanatico delle varie religioni dogmatiche. E qui va cercata la prima radice del terrorismo religioso che ancor oggi ci delizia e che solo un pensiero politico e strategico antiquato e pre-psicologico può considerare debellabile con la minaccia o la forza militare: per i fanatici, infatti, la minaccia o l’azione militare non ha alcun potere deterrente né repressivo ma, al contrario, li moltiplica e li esalta (come l’infinita guerriglia afgana e irachena dimostrano) per il semplice motivo che la morte in battaglia è per loro il viatico più sicuro per guadagnarsi nel Paradiso dei Martiri la Vita Eterna, allietata dalle dolci attenzioni di 72 vergini.

Due vistosi e finora inesplicati fenomeni della nostra specie – il suo diffuso masochismo e la sua tremenda aggressività intraspecifica – possono dunque essere finalmente spiegati, alla luce di quest’analisi, come inevitabili sottoprodotti della elaborazione espiatoria e persecutoria dell’angoscia di morte nella psiche umana.
E parimenti l’annosa, inconcludente diatriba tra innatisti e storicisti sulla distruttività umana e sulle origini della guerra può trovare qui una nuova soluzione: questa tragica distruttività, che ha prodotto tante stragi e sofferenze attraverso i millenni non è né innata né socialmente indotta, ma è essenzialmente un effetto della elaborazione distorta e paranoidea dell’angoscia di morte da parte della psiche umana.

Comunque, per alto che ne fosse stato il prezzo di sangue e di dolore, questa difesa religiosa, con le sue splendide promesse paradisiache ai seguaci della Vera Fede, aveva efficacemente protetto l’essere umano dalle sue angosce di morte per migliaia di anni. Verso la fine del XIV secolo, tuttavia, questa barriera millenaria contro l’angoscia esistenziale cominciò a franare, per fattori sia interni che esterni.
Il massimo fattore interno e soggettivo di erosione della difesa religiosa fu la paura della dannazione, terroristicamente diffusa dai predicatori degli Ordini mendicanti, e la conseguente micidiale «escalation» di prescrizioni espiatorie e punitive. Poco a poco il terrore della dannazione eterna finì per superare quello della morte.
In altre parole, la difesa religiosa eretta dalla psiche umana per esorcizzare l’angoscia della morte finì per scatenare più angoscia della morte stessa, cosicché la prospettiva del proprio totale annientamento cominciò a sembrare preferibile a un destino di eterna tortura nell’aldilà.

I fattori esterni che scossero le credenze religiose scaturirono dalla diffusione del pensiero razionale e scientifico durante e dopo il Rinascimento. Questa progressiva erosione continuò durante i secoli XVI, XVII e XVIII finché, coll’Illuminismo, le certezze religiose furono apertamente attaccate e corrose.

Tuttavia il meccanismo psicologico che era stato alla loro base – cioè la rimozione della morte e l’elaborazione dell’angoscia di morte e dei relativi sensi di colpa in termini di passività gregaria e servile e di deliri paranoidei, di Millenni paradisiaci e di Guerre Sante per realizzarli – quel meccanismo psicologico, insomma, che aveva prodotto il fanatismo religioso in tutta la storia umana, cominciò a produrre nuovo gregarismo masochista e nuova distruttività sadica e paranoidea sotto forma di nuovi movimenti fanatici: appunto i totalitarismi politici del Novecento, sia fascisti che comunisti, che significativamente si sono sviluppati in parallelo con l’estesa laicizzazione delle culture europee. In altre regioni, come ad esempio nel mondo islamico, il fanatismo religioso si è, invece, direttamente politicizzato dando luogo a movimenti e regimi teocratici sempre più aggressivi e sanguinari.
A mio parere, due grandi enigmi della storia e della cultura contemporanea – e cioè il denominatore comune di angoscia e distruttività di quasi tutte le avanguardie artistiche del Novecento e il forte fascino esercitato dall’estremismo di destra e di sinistra su tanti intellettuali del nostro tempo – possono essere agevolmente spiegati se si tiene presente che gli intellettuali in quanto tali (cioè in quanto persone più colte della media) furono il primo gruppo sociale investito dal crollo delle certezze e delle difese religiose contro l’angoscia della morte.

La difesa politica
Proprio come, nell’ottica religiosa, l’uomo viveva in un Paradiso Terrestre, aveva attraversato un’odissea di sofferenza e poteva riconquistare il Paradiso perduto solo combattendo per la Vera Fede e per la Vera Chiesa, così, nell’ottica rivoluzionaria delle moderne ideologie totalitarie, il Paradiso delle origini (cioè il comunismo, per i marxisti, o l’antica purezza e potenza della Razza Eletta per i nazisti) poteva essere riconquistato e trasformato in una realtà politica («Regno della Libertà» di Marx o il «Nuovo Ordine» di Hitler) solo sacrificandosi totalmente per la Rivoluzione ed i suoi Giusti Profeti (da Marx a Mao, da Fichte a Hitler) e combattendone i nemici fino all’ultimo sangue.

Le Guerre Sante cristiane e islamiche e l’ossessiva persecuzione degli eretici e dei miscredenti furono così inconsciamente trasformate, dai movimenti totalitari e fanatici contemporanei (fascisti, comunisti e, oggi, islamisti e terzomondisti) nelle loro guerre rivoluzionarie e nella loro ossessiva persecuzione dei dissenzienti.

Le moderne versioni politiche e materialistiche del fanatismo religioso, tuttavia hanno ben presto rivelato la loro intrinseca debolezza e precarietà. Anzitutto, esse non potevano rinnovare la promessa più seducente delle profezie religiose, cioè l’immortalità dei seguaci della Vera Fede.

Inoltre, mentre le promesse religiose assicuravano una felicità ultraterrena che nessuno poteva controllare o verificare, le promesse dei movimenti totalitari del Novecento erano verificabili dall’esperienza individuale e dall’analisi storica. Perciò, dopo oltre sessant’anni di fallimenti sanguinosi, i Millenni politici (sia di destra che di sinistra ) hanno perduto ogni fascino, almeno nelle loro culla storica (l’Europa e i paesi industrializzati) e sopravvivono solo in alcune aree di sottosviluppo come i paesi islamici, ove hanno potuto saldarsi con fanatismi religiosi ancora virulenti.

L’attuale crisi mi appare perciò, in questa prospettiva, non semplicemente come l’ultima della lunga serie di crisi che ha costellato il corso della storia umana, ma come la prova più drammatica che l’uomo abbia dovuto fronteggiare dai tempi dei suoi primordi neandertaliani: questa crisi, infatti, minaccia il modello basilare della cultura umana quale si è strutturato e perpetuato da 100.000 anni a oggi, attraverso la rimozione della morte e l’elaborazione espiatoria e persecutoria dell’angoscia di morte.

La Psicologia Politica Liberale nella politica internazionale…
Con le considerazioni sul fanatismo testè riassunte siamo già entrati nelle problematiche politiche che la mia Psicologia Politica Liberale si propone di affrontare.
Vorrei accennare anzitutto alle radicali innovazioni che questa psicologia può portare nell’analisi e nella soluzione delle grandi questioni internazionali sul tappeto. Possiamo partire dalla minaccia terroristica.
In questi mesi abbiamo assistito al totale fallimento delle tre strategie finora applicate dai leader dell’occidente liberale per vincere o almeno fermare il terrorismo (l’intervento militare, la prevenzione e la repressione con le risorse dell’intelligence, l’introduzione di elezioni democratiche nel mondo islamico) e alla generale invocazione di nuovi strumenti di lotta.
L’intervento militare ha già dimostrato ampiamente, in Iraq come in Afghanistan, di moltiplicare anziché annientare o decimare le file dei terroristi. Ciò era pienamente prevedibile e, per parte mia, l’avevo previsto già in un’intervista a RaiUno pochi giorni dopo la strage delle Torri Gemelle. Sono forse dotato di facoltà divinatorie ? No, purtroppo. Avevo semplicemente applicato al terrorismo gli strumenti dell’analisi psicopolitica che spiegano chiaramente perché il terrorismo non sia domabile con la minaccia o l’uso della forza militare: infatti il terrorista (e il fanatico in genere) non solo non teme ma desidera ardentemente la morte in battaglia, che considera il viatico più sicuro per l’immortalità e la felicità eterna.
L’efficacia della deterrenza, del controllo e della rappresaglia militare è quindi sostanzialmente vanificata nei confronti dei terroristi.

Gli avversari dell’intervento militare hanno sempre esaltato la presunta, ben maggiore efficacia dell’arma dell’intelligence, ma gli attentati di Londra, preparati e attuati sotto il naso dei più stimati servizi d’intelligence del mondo intero, e anche quelli reiterati due giorni dopo e falliti solo per i guasti tecnici degli ordigni, hanno ampiamente dimostrato l’inefficacia dell’intelligence: un’inefficacia determinata anch’essa dalla personalità e dall’ideologia fanatica del terrorista che ha reso indifendibili i suoi bersagli estendendoli all’intera popolazione civile.

La terza arma messa in campo dalla classe politica tradizionale dell’occidente, e cioè la democratizzazione dei paesi islamici attraverso elezioni a suffragio universale da svolgere dopo campagne elettorali pluraliste con leader e liste contrapposte, è anch’essa clamorosamente fallita per ben tre volte, cioè in Afghanistan, in Iraq e in Iran. In Afghanistan, il popolo (comprese le donne ingabbiate nel burka) ha pacificamente e plebiscitariamente eletto al Parlamento e al Governo i vecchi capi-clan e capi-tribù maschilisti, misogini e dogmatici legati a doppio filo col clero fondamentalista.
In Iraq, il popolo ha democraticamente e plebiscitariamente eletto gli stessi capi-clan maschilisti, misogini e dogmatici legati a doppio filo con gli ayatollah sciiti, a loro volta legati a doppio filo con quelli iraniani, primatisti mondiali dell’assassinio politico e della tortura. In Iran, infine, potendo scegliere tra un leader fanatico e uno pragmatico, il popolo ha unanimemente eletto il fanatico prediletto dagli ayatollah più fanatici e accusato da molti testimoni d’essere stato egli stesso torturatore e assassino.

Dinanzi a questo triplice clamoroso fiasco, molte voci (compresa quella di Carlo Azeglio Ciampi) si sono levate recentemente per invocare tanto l’ideazione quanto l’applicazione di nuove e più efficaci armi nella lotta al terrorismo. Ma finora nessuna proposta innovativa è stata avanzata.
Per parte mia, invece, già all’indomani della strage alle Torri Gemelle avevo segnalato l’inutilità degli strumenti convenzionali nella lotta al terrorismo e sostenuto la necessità di bonificare la cultura islamica (e, del resto, ogni altra cultura dogmatica) dai suoi tratti fanatici perché, ovviamente, è nel fanatismo che nasce e prospera la pianta velenosa del terrorismo, e avevo indicato l’arma vincente nella psicologia politica. Ma quali sono, dunque, gli strumenti operativi che la psicologia politica può mettere in campo?

Anzitutto, una gigantesca cintura mediatica, cioè una collana di emittenti radiotelesivive che, 24 ore al giorno, offra a ogni popolazione soggetta a regimi tirannici le immagini, le musiche e i messaggi di libertà non solo politica ma femminile, giovanile, amorosa, educativa, culturale e religiosa.
L’arma vincente dell’occidente liberale, infatti, sta proprio nella sua carica di libertà personale e culturale, perché il bisogno di libertà è un’esigenza insopprimibile dell’essere umano, che nessuna tirannia, né politica né religiosa, è mai riuscita o mai riuscirà a spegnere. I programmi di questa cintura mediatica, beninteso, non dovrebbero essere concepiti in maniera di dare dell’occidente, come già avviene nelle nostre TV nazionali, un’immagine vuota, fatua e plasticata, ma dovrebbero essere calibrati psicologicamente sui bisogni profondi e concreti delle popolazioni destinatarie.

L’opposizione dei regimi tirannici a questi programmi sarebbe forte, ma si tratterebbe di programmi in grado (soprattutto quelli radiofonici) di raggiungere direttamente le popolazioni senza nessun bisogno del consenso dei governi locali. L’influenza di queste campagne mediatiche permanenti sarebbe molto più rapido e radicale di quanto i nostri cosiddetti esperti non pensino: basterà ricordare che una piccola emittente della CNN in lingua persiana ha avuto un influsso non secondario sulle grandi rivolte studentesche di Teheran. L’approccio psicopolitico alla lotta antiterroristica, inoltre, ci offre la capacità di leggere la realtà psicopatologica del terrorismo, acquisendo strumenti analitici da contrapporre alle nobilitazioni politiche e religiose troppo spesso proposte o imposte nei suoi confronti.

Un altro esempio dell’innovazione che la Psicologia Politica Liberale può portare nella definizione della nostra politica estera consiste nel promuovere un’idea di globalizzazione molto più lenta e graduale, che liberalizzi in un primo tempo gli scambi solo nelle aree socio-economicamente più omogenee (l’euroamericana, l’africana, l’asiatica e la sudamericana), rinviando a un secondo tempo la globalizzazione totale, cioè la liberalizzazione planetaria degli scambi. Attingendo alla sua dimensione liberale, la Psicologia Politica Liberale può offrire ai governanti occidentali gli strumenti per rendere le popolazioni dei paesi liberal-democratici più consapevoli dell’esigenza di assicurare dovunque la diffusione di una cultura non dogmatica.

… in campo socio-economico…
Ma è soprattutto nel campo delle dinamiche sociali interne ai vari Paesi e alle varie aree culturali che la Psicologia Politica Liberale ha dato un contributo innovativo in termini di analisi e di azione politica.
Com’è noto, tutta la politica del mondo occidentale si è strutturata negli ultimi cent’anni intorno a due principali blocchi politici che sono stati chiamati volta a volta destra e sinistra, repubblicani e democratici, conservatori e laburisti ma che sempre si sono proclamati paladini d’un ideale, rispettivamente, di conservazione e tradizione oppure d’innovazione e di progresso. Purtroppo, però, questi due blocchi risultavano intrinsecamente ibridi e contradditori, se analizzati con gli strumenti della Psicologia Politica Liberale.

Il «Popolo dei Produttori», per i processi di polarizzazione psicologica prodotti dalle caratteristiche del lavoro privato, è costituito in maggioranza di personalità indipendenti, fiduciose in se stesse, amanti del rischio e dell’avventura, aperte all’innovazione e quindi (in contrasto con i pregiudizi tradizionali) progressiste.
La classe burocratica, per le caratteristiche del lavoro pubblico (stabilità, sicurezza del reddito, autorità delegata dall’alto, protezione dai rischi del mercato, carriera garantita, scarsa o nulla responsabilità decisionale, controllo e dominio del cittadino e del popolo minuto) è composta in maggioranza, viceversa, di personalità insicure, bramose di autorità e carriera garantite, ligie all’ordine e al potere costituito: insomma di personalità conservatrici.

La Psicologia Politica Liberale, con la sua teoria liberale della lotta di classe, ribalta la teoria classica marxista-leninista della lotta di classe, che vede nei lavoratori indipendenti del privato (imprenditori, commercianti, liberi professionisti e lavoratori autonomi) la classe sfruttatrice, nei lavoratori dipendenti del privato la classe sfruttata e nella classe politico-burocratico lo strumento della giustizia sociale e di una più equa distribuzione della ricchezza. La teoria liberale della lotta di classe, viceversa, indica nei lavoratori dipendenti e indipendenti del privato la vera classe produttiva e sfruttata e nella classe politico-burocratica la vera classe parassitaria e sfruttatrice.

Per tornare al problema della natura intrinsecamente ibrida e contraddittoria dei due blocchi apparentemente contrapposti, va segnalato che:

a) sia la destra che la sinistra, nonostante le loro promesse di sburocratizzazione, hanno di fatto dilatato la classe parassitaria e sfruttatrice e migliorato le sue retribuzioni a spese, come sempre, del Popolo dei Produttori;
b) la destra ha attratto i lavoratori del privato, soprattutto quelli indipendenti, con promesse di alleggerimento fiscale e burocratico, ma poi ha deluso le loro speranze di modernizzazione culturale e sessuale (tipiche delle personalità progressiste e innovative e del loro ambiente di lavoro) rinchiudendoli nei valori muffiti e asfissianti della tradizione conservatrice;
c) la sinistra ha attratto i lavoratori dipendenti del pubblico e del privato e gli intellettuali anticonformisti con promesse di modernizzazione culturale e di giustizia fiscale, ma poi li ha delusi sia con la sua estrema pavidità dinanzi all’invadenza ecclesiastica e burocratica, sia con l’ulteriore inasprimento della pressione fiscale.

Questa situazione ha prodotto due paradossi: una sinistra (sempre più votata dalla burocrazia parassitaria e conservatrice) che ripete promesse di rivoluzione progressista; e una destra (votata per disperazione dal Popolo modernista e progressista dei Produttori del privato) che ripete stancamente i suoi vuoti slogan di benpensantismo screditato. E tutto ciò sta approdando a una sterile alternanza tra una destra e una sinistra sempre più indistinguibili.

…nell’Università e nella Scuola…
Resta ora da accennare alle innovazioni che la Psicologia Politica Liberale può proporre nei settori cruciali della vita sociale e culturale.

Una prima, basilare riforma riguarda la scuola e l’università: poiché produrre nei giovani – come oggi si fa – disgusto e fastidio per la cultura e per la ricerca, significa distruggere la loro creatività e, con essa, l’avvenire del Paese. Ma essa è anche la sola riforma che nessun ministro di destra, di sinistra o di centro ha mai realizzato o, almeno, capito ed avviato.

A nostro parere, la ragione principale del magro bilancio delle tante riforme finora tentate sta nel fatto che esse hanno sempre e solo rimescolato o aggiornato il bagaglio nozionistico scaricato sulle spalle dei docenti e degli studenti.

Ma un rinnovamento vero della scuola italiana è impossibile senza un miglioramento del rapporto tra docenti e studenti (e anche tra docenti e docenti). Questo miglioramento promuoverà infatti un obiettivo al tempo stesso più semplice e più ambizioso di quelli finora perseguiti: sviluppare e valorizzare nei giovani la passione per la cultura e la ricerca come strumenti preziosi per l’autorealizzazione della persona e una maggiore umanizzazione della società.

Ma come si può realizzare quest’obiettivo cruciale ? È la nostra stessa esperienza personale a indicarcelo, in significativa sintonia con i suggerimenti della Psicologia Politica Liberale. Tutti conserviamo nei nostri ricordi scolastici, insieme ad una galleria di volti anonimi, una o due figure d’insegnanti cordiali e affascinanti che hanno saputo farci sentire, nelle loro magiche ore di lezione, la gioia di apprendere, di esprimerci e di essere ascoltati davvero. Quali erano le qualità specifiche di questi insegnanti?

Non certo l’erudizione nozionistica, che molti altri insegnanti noiosissimi possedevano magari in misura molto maggiore. Erano le qualità che la Psicologia Umanistica insegna da sempre a individuare e sviluppare: l’autenticità, l’intelligenza emotiva, l’ascolto empatico, la creatività, l’indipendenza intellettuale, la disponibilità verso gli altri. Tra i compiti d’un valido rinnovamento scolastico a lungo termine riteniamo dunque essenziale quello di assicurare in futuro ai nostri giovani, mediante nuovi metodi di selezione anche attitudinale, insegnanti ricchi d’intuizione, di creatività e di empatia e pertanto capaci di sviluppare queste stesse doti nei loro allievi, nell’interesse di questi ultimi e della società in generale.

Certo, finora la selezione del personale docente è avvenuta secondo i vecchi criteri nozionistici, ma ciò non vieta sicuramente di adottare in futuro nuove procedure di selezione secondo i criteri psico-attitudinali testé evidenziati, né di avviare corsi o seminari di aggiornamento finalizzati a sviluppare nel personale esistente i principi e i metodi umanistici di insegnamento, tutti basati sull’ascolto e sul dialogo empatico con gli allievi, nonché sull’incoraggiamento alla loro creatività e indipendenza intellettuale.

Con questa riforma ben poco costosa, il Paese potrebbe passare «dalla scuola dell’obbligo alla scuola dell’entusiasmo», come raccomanda uno slogan della Psicologia Politica Liberale. E le ricadute positive sarebbero immense per tutta la società: la scuola, infatti, potrebbe finalmente diventare fucina di talenti, di passione culturale e scientifica, di maturazione personale e amorosa dei giovani.

…nella Sanità…
Un altro esempio delle riforme decisive che la Psicologia Politica Liberale, applicando i principi della Psicologia Umanistica Esistenziale, potrebbe assicurare alla società non solo italiana ma umana in generale, riguarda il mondo sanitario.
Il Tribunale per i Diritti del Malato ha pubblicato nel 2007 i risultati di una imponente ricerca condotta su quasi 20.000 segnalazioni raccolte dal Tribunale nel 2006. Ebbene, da questi risultati viene una drammatica conferma della disumanità dei nostri servizi sanitari e dell’urgenza altrettanto drammatica (ma purtroppo sistematicamente ignorata) di quella umanizzazione dell’assistenza sanitaria che vado auspicando invano da anni in nome della Psicologia Politica Liberale.

Scrive ad esempio il «Messaggero» di Roma, commentando la ricerca: «Troppo spesso – protestano i pazienti – medici e infermieri sono maleducati e arroganti. Dalle corsie e dagli ambulatori si leva un solo grido: Ci trattano male! Troppe volte siamo considerati semplici “pacchi postali” e, per giunta, rompiscatole. Nelle segnalazioni del Tribunale si può trovare il racconto di chi, durante il ricovero, chiede invano, per ore, l’intervento urgente di un infermiere; di chi è stato “dimenticato” sulla barella in corsia; di chi è stato, completamente nudo, lasciato per ore, da solo, sul lettino ad aspettare l’esito di un esame. Sono dieci anni che il Tribunale presenta il suo rapporto ma mai, come quest’anno, gli infermieri e gli operatori sanitari sono stati messi sotto accusa per mancanza di tolleranza, di garbo e di educazione».

La mia lotta per un superamento, perfettamente possibile, di questa situazione intollerabile dura ormai da molti, molti, anni, e si collega da un lato al contributo decisivo che la Psicologia Umanistica, portata in Italia da me e da pochi altri colleghi, può assicurare al miglioramento del rapporto tra paziente e operatore sanitario, sia al mio tentativo di dare contenuti concreti alla Rivoluzione Liberale tante volte invocata e proclamata a parole ma mai definita sul piano programmatico e tanto meno attuata. Già nel 2001, nel mio libro Produttori contro Burocrati, ecco la vera lotta di classe della Rivoluzione Liberale (pubblicato dall’editrice Bietti di Milano), in un Capitolo intitolato La Rivoluzione Liberale nella Sanità: da Araba Fenice a progetto concreto indicavo nell’umanizzazione dell’assistenza sanitaria un compito prioritario. E la stessa esigenza veniva sottolineata nell’opera Il nuovo pensiero forte del 2007.

«Anche in campo medico – scrivevo in quell’opera – le riforme cartacee continueranno a moltiplicarsi senza effetti apprezzabili per la nostra Assistenza Sanitaria, se non riusciremo a cambiare il clima e lo spirito dei nostri servizi sanitari. È un clima burocratico e meccanicista che accentua l’angoscia e la solitudine del malato, lo espone all’arroganza o all’indifferenza di troppi medici e paramedici e lo passivizza, ignorando il grande potenziale di guarigione intrinseco ad una valida alleanza e ad una relazione empatica tra paziente e operatore sanitario.
Questo clima alienante deriva indubbiamente anche dalla massificazione burocratica dell’assistenza, ma è soprattutto dovuto al fatto che il personale medico e paramedico non riceve un’adeguata formazione in campo psicologico e relazionale, per il semplice motivo che la medicina tradizionale è da secoli concepita e strutturata secondo criteri meccanicisti ed è quindi priva di conoscenze psicologiche e di capacità comunicativa. Questo grande divorzio tra medicina e psicologia risale, come noto, a Cartesio, fondatore della medicina occidentale».

Cartesio ebbe una visione dualistica dell’uomo, concepito come temporanea associazione di materia (res extensa) e anima (res cogitans): la prima affidata al medico, la seconda al sacerdote. Così, per secoli, l’essere umano è stato concepito da questa medicina come una macchina e la formazione del medico è stata di natura puramente meccanicista, tanto che fino a pochi anni fa il corso di laurea in medicina non contemplava neppure un esame obbligatorio in psicologia. Ciò a prodotto una classe medica e paramedica gravemente impreparata a capire e a gestire le connessioni profonde che legano sofferenza psichica e sofferenza fisica e a creare un ambiente ospedaliero e ambulatoriale accogliente ed empatico per i pazienti. Al contrario, basta entrare in un ospedale per sentirsi attanagliare dall’angoscia, dal senso di solitudine, dalla freddezza o addirittura dall’arroganza del personale medico e paramedico, cioè da quella che gli inglesi chiamano contactlessness: mancanza di contatto umano. E la mancanza di contatto umano è appunto il problema denunciato ora, con particolare indignazione, dai 20.000 partecipanti al Rapporto del Tribunale del malato.

Il danno inflitto a tutti i pazienti è gravissimo in termini di capacità di resistenza e recupero dell’organismo, se non altro perché è stato inconfutabilmente dimostrato che l’angoscia abbatte le difese immunitarie e organiche. Ma non meno grave è il danno inflitto in particolare ai malati terminali, non solo perché la loro già scarsa aspettativa di vita ne viene ulteriormente ridotta, ma soprattutto perchè viene ridotta la qualità di questo loro estremo scampolo di vita e perché essi sono privati, dall’ambiente sanitario freddo e ostile, della possibilità di affrontare la propria morte in un clima di affetto e di solidarietà umana. Già nel 2001 avevo offerto all’allora ministro della Sanità Girolamo Sirchia di porre mano a questa basilare riforma attraverso programmi di umanizzazione della medicina. Ma naturalmente alla mia offerta rispose il solito silenzio assordante.

Psicologia Politica Liberale e coscienza di classe
Non è questa la sede appropriata per esporre le proposte della Psicologia Politica Liberale per avviare la Rivoluzione Liberale tante volte promessa e mai minimamente attuata. Ma possiamo concludere almeno con alcune indicazioni generali e con alcune proposte di pronto intervento.

Anzitutto, vorrei sottolineare che i consensi necessari alla realizzazione delle riforme strutturali suggerite dalla Psicologia Politica Liberale e dalla Teoria Liberale della Lotta di Classe sono aggregabili abbastanza agevolmente perché il Popolo sfruttato dei Produttori (cioè i lavoratori dipendenti e indipendenti del settore privato) costituisce oltre l’80% della forza di lavoro e, con le famiglie, dell’elettorato e della popolazione. Purtroppo finora questa classe sfruttata e produttiva fortemente maggioritaria è stata divisa e fiaccata, attizzandone la conflittualità interna e occultando la convergenza d’interessi esistente tra dipendenti e piccoli imprenditori del privato.

Compito prioritario d’una politica liberale vincente, secondo la Psicologia Politica Liberale, sarà dunque di sviluppare nel Popolo dei Produttori una nuova coscienza unitaria di classe e una nuova volontà unitaria di lotta contro il comune nemico: la classe burocratica con i suoi padrini politici, i partiti statalisti ed i sindacati di regime.
Se, coll’ausilio della Psicologia Politica Liberale, sarà possibile sviluppare questa nuova coscienza e unità della classe sfruttata, tutte le odierne defatiganti diatribe sulla legge elettorale ottimale (che ciascuna cricca politica progetta in conformità dei propri squallidi e presunti vantaggi) diverranno completamente inutili, perché la nuova psicopolitica liberale potrà contare su una maggioranza ampia, stabile, crescente e capace di superare, come il Popolo dei Produttori, l’80% dell’elettorato, sempre che il leader liberale autentico sappia mobilitare nella lotta comune contro il nemico comune il risentimento comune di tutti i lavoratori dipendenti e indipendenti del privato verso la classe parassitaria politico-burocratica.

Beninteso, questa maggioranza massiccia sarà realizzabile solo nella prima fase della trasformazione liberale della società, cui tutte le componenti del Popolo dei Produttori hanno interesse a concorrere: cioè la fase dello smantellamento dell’apparato burocratico parassitario e della liberazione economica, culturale e politica dei Produttori. Una volta realizzata questa prima fase, invece, le due grandi tendenze che da sempre dominano la vita politica, e cioè l’innovazione e la conservazione, produrranno una nuova, sana polarizzazione dell’elettorato e una nuova, sana alternanza tra forze conservatrici e innovatrici.

Credo infine necessario chiarire che la Psicologia Politica Liberale non vede affatto, nella burocrazia, una classe intrinsecamente inutile e parassitaria. Al contrario, qualsiasi persona di buon senso capisce che ogni società ha sempre avuto e sempre avrà bisogno d’una classe di validi amministratori. Se oggi la classe burocratica è tanto pletorica e inefficiente ciò è dovuto solo al fatto che le caratteristiche divenute pressoché universali dell’impiego pubblico – illicenziabilità, carriere sicure, poteri garantiti nei rapporti coll’utenza, deresponsabilizzazione degli addetti – ne hanno fatto il ricettacolo delle personalità più pavide dinanzi ai rischi della vita, più affamate di autorità delegata dall’alto, più pignole e più conformiste.
Per rinnovare e migliorare rapidamente la classe burocratica sarà sufficiente introdurre nella burocrazia i criteri selettivi delle migliori imprese private: assunzione a tempo determinato e carriera subordinata al rendimento, alla riduzione dei costi produttivi, allo snellimento delle procedure, alle capacità innovative dimostrate e al gradimento dell’utenza. Sono misure drastiche che, ovviamente, potranno essere attuate solo quando il Popolo dei Produttori avrà conquistato una maggioranza robusta. Ma, con questi semplici criteri, sarà possibile creare in tempi relativamente brevi una classe di amministratori finalmente capaci, responsabili, rispettosi ed empatici con l’utenza.

In attesa delle pre-condizioni parlamentari necessarie a queste riforme strutturali di medio periodo, la Psicologia Politica Liberale può tuttavia proporre alcuni interventi immediati:

  1. drastica riduzione della pressione fiscale mediante un graduale ma deciso ridimensionamento della classe burocratica, che consentirà un’altrettanto drastica riduzione della spesa pubblica. Questa misura, se onestamente prospettata, otterrà agevolmente il consenso d’una forte maggioranza di lavoratori dipendenti e indipendenti del privato e, quindi, dell’elettorato.
  2. drastica eliminazione delle pastoie burocratiche, ben oltre le timide e inapplicate disposizioni di alcune leggi dei passati governi.
  3. profonda vitalizzazione dell’università e della cultura attraverso l’apertura delle istituzioni universitarie e culturali agli esponenti più creativi e innovativi del mondo imprenditoriale, libero-professionale, scientifico e artistico e la loro valorizzazione nella formazione dei giovani.
  4. sburocratizzazione della Sanità. La Sanità pubblica gratuita sarà riservata solo alle persone al di sotto della soglia di povertà. Agli altri sarà distribuito un bonus che potranno spendere come preferiscono nel privato o nel pubblico, in caso di malattia.
  5. creazione di un nuovo sindacato che sappia risvegliare nei dipendenti e negli imprenditori una coscienza unitaria di classe e una volontà unitaria di lotta per il ridimensionamento simultaneo della pressione fiscale e della classe burocratica parassitaria.

Ovviamente non è qui possibile, per ragioni di spazio, presentare in modo articolato le varie, profonde riforme necessarie per l’auspicata Rivoluzione Liberale. Qui basti dunque aver accennato alle principali ed aver evidenziato la loro profondità e vastità nonché il contributo che, alla loro individuazione e attuazione, ha potuto e potrà dare la Psicologia Politica Liberale. Questa psicologia, infine, potrà sormontare le diffidenze di molti politici chiarendo che non è sua intenzione minarne la credibilità ma, al contrario, accrescerla, proponendo un abbandono delle vecchie e improbabili maschere di perbenismo o miracolismo, un ritorno di ogni singolo politico alla sua autenticità umana, infinitamente più attraente di tutti i vari stereotipi tradizionali, e un impegno appassionato nella lotta antiburocratica.