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La strada maestra della letteratura

Saggio di redazione

Saggio di redazione

Una testimonianza autorevole per dirigersi verso “la strada maestra” della letteratura arriva da una personalità della cultura di profilo internazionale: Tzvetan Todorov, nel libello, edito in traduzione italiana da Garzanti, 2008, La letteratura in pericolo.
Si trova in queste pagine non tanto una critica al sistema, quanto l’appassionato ribadire i valori della letteratura di ogni tempo come non estranei alla normale esistenza di ciascun uomo nella società del terzo millennio. Todorov inizia  raccontando la propria esperienza di studente universitario, nell’attraversamento est ovest, di culture diverse, dallo spietato storicismo e integralismo ideologico nella Bulgaria comunista alla fervente cultura parigina, dove arriva per una borsa di studio a termine e dove invece rimane per “una vita di studi”.
A partire dalla memoria sempre presente dell’esaltante esperienza di allievo di grandi Maestri, tra cui Roland Barthes, Todorov contesta la riduzione della letteratura e dell’insegnamento a regole, strutture, nozioni: «La conoscenza della letteratura non è fine a sé stessa, ma rappresenta una delle vie maestre che conducono alla realizzazione di ciascuno. Il cammino che ha intrapreso oggi l’insegnamento letterario, voltando le spalle a questo orizzonte (“questa settimana abbiamo studiato la metonimia, la prossima ci occuperemo della personificazione”), rischia di condurci in un vicolo cieco – per non parlare del fatto che difficilmente farà innamorare della letteratura».

Se l’immagine dominante dell’arte è attualmente, dopo l’invasione dell’ideologia prima e dello strutturalismo poi, quella di un mondo tendente alla bellezza, ma assolutamente privo di possibilità di incidere nella società, Todorov rovescia il punto visuale, affermando, al contrario, che la letteratura deve sì ritrovare il suo precipuo compito di conoscenza ma che in molte forme di narrazioni in testi non letterati (reportage, sceneggiature, libri di viaggio, romanzi di avventure o per ragazzi), si trova la letteratura stessa.
Bisogna intendere la letteratura nel suo significato più ampio, senza rendere nulla dogmatico e soprattutto riconoscere di nuovo: «oggetto della letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano. Quale migliore introduzione alla comprensione dei comportamenti e dei sentimenti umani, se non l’immergersi nell’opera dei grandi scrittori che si dedicano a questo compito da millenni? Se si intende così la letteratura e si orienta in tal modo il suo insegnamento, quale aiuto più prezioso potrebbe trovare il futuro studente di diritto, o di scienze politiche, il futuro operatore sociale o chi si occupa di psicoterapia, lo storico o il sociologo? Avere come maestri Shakespeare e Sofocle, Dostoevskij e Proust, non sarebbe come approfittare di un insegnamento eccezionale?»

Il valore attuale dei classici come conoscenza del mondo contemporaneo (senza escludere letture di più facile “consumo” che portino comunque l’amore per la parola scritta): fattore decisivo per la società contemporanea. Continua Todorov:
«Se si accetta questa finalità dell’insegnamento letterario, che non avrebbe più soltanto lo scopo di creare nuove schiere di insegnanti di lettere, si può facilmente concordare su quale spirito deve guidarlo: bisogna includere le opere nel grande dialogo tra gli uomini, iniziato nella notte dei tempi e a cui, ciascuno di noi, per quanto insignificante sia, prende ancora parte. “È in questa comunicazione inesauribile, vittoriosa sui luoghi e suoi tempi, che si afferma la portata universale della letteratura”, scriveva Paul Bénichou. A noi, adulti, spetta il compito di trasmettere alle nuove generazioni questa fragile eredità, queste parole che aiutano a vivere meglio».

Oltre alla riduzione delle letteratura a regole e formule, Todorov avverte un pericolo contemporaneo nella corrente nichilista (formalismo e nichilismo per lui non sono così distanti nell’evidenziare l’impossibilità della letteratura di contribuire alla conoscenza del mondo). Secondo questa “corrente” di pensiero: «gli uomini sono stupidi e cattivi, le distruzioni e le violenze svelano la verità della condizione e la vità è l’avvento di un disastro».
Senza scadere, dalla parte opposta, in facili ottimismi, condivido, in linea con Todorov, l’invito di Mariangela Gualtieri, tra le poetesse più interessanti del panorama odierno (si veda tra i numerosi volumi Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Einaudi, 2003) rivolto in uno spettacolo della Compagnia teatrale Valdoca, la trilogia Paesaggio con fratello rotto, ora anche libro con DVD allegato per Luca Sossella editore : «Ringrazio chiunque mi porti una parola luminosa […] Sono stanca di vedere fotografata l’ira, la nostra faccia lurida, la nostra miseria umana sempre sbattuta in primo piano».
Sempre di più appare necessario mostrare gratitudine verso la spontanea e profonda creatività artistica, quando si rende capace di destare meraviglia e stupore, attraverso una parola luminosa: ci ritroviamo con il cuore aperto, gonfio di attesa, tenerezza, speranza, riguadagnando al mondo lo sguardo dei bambini. Questo atteggiamento deve essere difeso, innanzitutto proprio nei bambini, negli adolescenti, nei ragazzi, affinché sia possibile ammirarlo, ritrovarsi, accedere a quella spontaneità creaturale capace di immettere dentro grandi verità nascoste all’uomo impegnato nelle sue seriose attività, troppo spesso corrotte da avidità o ambizioni “sbagliate” di ogni genere. Questo è uno dei fuochi (centrali) della letteratura, per cui il suo insegnamento, come per Todorov, contribuisce a migliorare la persona, o per lo meno ad accompagnarla nella conoscenza del mondo.

Tale difesa considero, simbolicamente, il nucleo centrale di uno dei romanzi più intensi degli ultimi anni, tanto da meritare il Premio Pulitzer 2006, La strada, di Cormac McCarthy.
Un padre e un bambino attraversano “le rovine di un mondo ridotto a cenere” dalle guerre fratricide, cercando il sud, la luce, il calore. Portano l’unico bene prezioso, da difendere ad ogni costo «se stessi e il loro reciproco amore». È il fuoco. È l’avvio del libro duro e poetico insieme: «Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del giorno e giorno uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro […] Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano. Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide piene di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito […]Stese a terra il piccolo telo impermeabile che usavano come tavolo e apparecchiò, si sfilò la pistola dalla cintura, la posò sul telo e restò a guardare il bambino che dormiva. […] Posò lo sguardo sul bambino e poi lo lasciò vagare fra gli alberi, verso la strada. Quello non era un posto sicuro. Adesso che era giorno dalla strada li si poteva vedere. Il bambino si rigirò nelle coperte. Poi aprì gli occhi. Ciao papà, disse. Sono qui. Lo so.».

Sembra che in nessuna parte di questo mondo in rovina esista un posto sicuro per l’infanzia, per la poesia spontanea che da questa scaturisce, dono continuo per gli uomini in ricerca. Eppure quel padre sarà capace, sacrificandosi fino alla morte, di trovare un rifugio, dentro il cuore stesso della terra, in mezzo a persone le quali, anche nel perdurare delle guerre distruttive, in quel deserto del futuro, avevano continuato a vivere nel rispetto delle leggi naturali. McCarthy, classe 1933, si afferma in questo ultimo decennio come uno degli scrittori di punta degli Stati Uniti, con la trilogia della “frontiera” Cavalli selvaggi, dentro quell’odore di terra e sangue, scavato in una tradizione giovane che vuole ritrovare se stessa attraverso un eroismo non banale, e Città della pianura. Quasi contemporaneamente a La strada, McCarthy, ha scritto un piccolo capolavoro, Sunset limited, con una procedura drammaturgica capace, nella sua semplicità, di arrivare al cuore delle questioni esistenziali interpretate con il volto e le storie di due soli personaggi, un Bianco e un Nero, senza altra specifica se non l’iniziale distanza di cultura e di esperienza. A tema, ancora, la domanda elementare e ultima, radicale: per cosa vale la pena vivere? Per l’uno vale solamente la fede, acquisita dopo esperienze terribili, come la prigione per omicidio, per l’altro non vale più nulla se non la tentazione al suicidio, perché ha dovuto assistere «a una graduale perdita delle illusioni». È il Bianco che disegna un amaro e doloroso scetticismo: «Gli sforzi che fa la gente per migliorare il mondo invariabilmente lo peggiorano». Si può intravedere in queste frasi il contrasto dialettico tra un grado di civiltà emancipata ma corrotta e le idee che qualcuno potrebbe giudicare superstiziose, di una gradino iniziale della piramide sociale.
La visione del Bianco ha come ultimo approdo le guerre fratricide che, ne La strada, hanno reso il mondo un deserto, e da cui il papà, mettendo a repentaglio la sua vita, porta in salvo il suo bambino, trovando un luogo in cui vive intatto l’equilibrio tra il creato e le azioni umane. Se proprio Cormac McCarthy ha scritto: «Ho visto tanta cattiveria fra gli uomini che non so perché Dio non ha ancora spento il sole e non se n’è andato», il finale de La strada riporta un segno di speranza per la ricomparsa delle lucciole, per la trasmissione, di padre in figlio, dei valori della creatività, della pace, della bellezza, della tradizione religiosa o legata ai ritmi naturali delle stagioni e dei raccolti. La comunità di uomini buoni, al servizio dell’ordine della natura, accoglie il bambino: «Quando la donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh gli disse, come sono contenta di vederti. Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno.
Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiavano piano nella corrente. Li prendevi in mano e sapevano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero».

Per esemplificare quanto la letteratura possa ambire ad una conoscenza profonda e a volte profetica della società, dal “classico” al romanzo contemporaneo di un futuro non specificato, non mi sottraggo ad un doloroso paragone con le notizie che arrivano da Londra, ma in modo non dissimile da altre grandi metropoli, in questa estate 2008. Leggo dalla “Stampa” del 5 luglio 2008 descrizioni che assomigliano a quel mondo in cerca di rovina, organizzato in bande, descritto da McCarthy: «”Non voglio morire, voglio la mamma”, ha mormorato prima di spegnersi la diciottesima vittima dall’inizio dell’anno delle gang di coltello di Londra, un’altra lapide di un adolescente da aggiungere alla storia di questa epidemia di ferocia giovanile che non ha precedenti,e che nessuno sembra riuscire a fermare». Solo qualche giorno dopo le vittime sono salite a 22. Le strade delle città britanniche, aggiunge il giornalista Vittorio Sabadin, ripetendo le frasi di un noto cantante, «sono ormai sotto il controllo di spregevoli bande di delinquenti».
Di fronte a queste visioni contrapposte, conservo questa espressione di Eraldo Affinati, nella raccolta saggistica dedicata a “scrittori internazionali” Compagni segreti,  Fandango, 2006 p.124:

«Se l’uomo contemporaneo ha smarrito le certezze che illuminarono i sentieri di quello antico, allora dobbiamo riservare alla letteratura il compito che affideremo al faro nella notte. Tuttavia chi scrive formula le domande; chi legge è chiamato a dare le risposte».

Libri da ardere, libri da masticare, libri da conservare
Il professore “delle tenebre” di Sunset limited, come lui stesso si definisce, rappresenta almeno una parte dell’Occidente in declino di ideali, realista o scettico, a cui si oppone, magari in ambiti meno progrediti tecnologicamente, il magma incandescente di una letteratura immaginifica, penso al grande peso della letteratura dell’America Latina sulla scia del Premio Nobel Gabriel Garcia Marquez (Isabella Allende, Mario Vargas Llosa, Derek Walcott, Osvaldo Soriano, Ignacio Taibo, Antonio Skàrmeta, Marcela Serrano a cui si può aggiungere il portoghese Josè Saramago), in progressiva ascesa negli ultimi decenni.
Non è un caso che i libri dei grandi maestri statunitensi, “figli” o nipoti del Nobel Saul Bellow, in particolare Don De Lillo (Americana, Underwordl, Libra), Paul Auster (Trilogia di New York), Chuck Palahniuk (Fight club, Cavie), Bret Easton Ellis (American Psyco) e soprattutto Philip Roth, (dopo il magistrale Pastorale americana, Premio Pulizter 1997, l’atmosfera di consumazione de L’animale morente e di Evryman) ricalchi in gran parte la filosofia del Bianco di McCarthy, tra scetticismo e riflessione amara di una festa crassa di cui si vive il crepuscolo, il capolinea.

In una linea di descrizione tagliente, ossessionante, aggressiva del mondo contemporaneo, giovanile e non, si pongono gli inglesi Ian McEwan (Il giardino di cemento, Espiazione, Sabato, il paradigmatico libello su come l’uomo ha pensato alla sua fine, cercando di ritrarla, o fermarla, nell’impossibilità di descriverla realisticamente, in Blues della fine, in Italia pubblicato da Einaudi), lo spagnolo Javier Marìas, con il caratteristico stile martellante fino alla spasimo (L’uomo sentimentale, Prima della battaglia pensa a me), il londinese Nick Hornby (Altà fedeltà, Come diventare buoni e altri romanzi tutti per la Guanda, tra cui la raccolta di piaceri letterari in Una vita da lettore, 2006), la scrittrice Joyce Carol Oates (Bestie, Acqua nera).

Un mondo devastato in Libri da ardere (1994), di Amélie Nothomb (Sabotaggio d’amore, Igiene dell’assassino e molti altri), scrittrice di culto franco belga (in Italia i suoi romanzi sono editi dalla Voland e da Guanda), di lingua francese, ma con una esperienza infantile in Giappone. Tre personaggi si muovono in un appartamento mentre fuori infuria un non precisato conflitto. “Il freddo è l’inferno”, dice la ragazza, Marina, fidanzata di un giovane assistente, Daniel. Entrambi sono ospiti del “professore”, divenuto, all’apice della carriera e, forse, a causa della guerra, cinico e disilluso, con punte di sadismo violento, almeno nei pensieri, se non nelle azioni.
È giusto bruciare i libri per scaldarsi? Dopo l’auto da fè, i roghi medievali, il futuro di Fahrenheit 451, la domanda rimbalza in quella stanza: cosa offre la letteratura perché non possa essere bruciata per necessità materiali? E se, basta un minuto! una bomba più potente delle altre uccidesse i tre, che senso avrebbe aver conservato quella enorme libreria? Ad uno ad uno, secondo una classifica di qualità, il professore accetta di bruciare i libri, prima di tutti quelli che gli erano serviti, con i suoi commenti elogiativi, a avanzare al massimo livello nella carriera universitaria.
Mischiati con i complicati, rabbiosi di rancore, rapporti tra i tre, le discussioni sulla letteratura e sui cattivi libri denunciano le utopie di Daniel, l’apparente cattiveria di Marina, dominata, fino alla diabolicità, dall’unica necessità materiale di scaldarsi, dalla profonda ipocrisia nichilista del professore, che non aspetta altro che i due ragazzi accettino la totale scomparsa di ogni valore oggettivata nella guerra. Getta nel fuoco anche l’ultimo libro, quello pubblicamente criticato molti anni prima: una storia d’amore, intensa, semplice, odiata da Daniel e amata da Marina. L’ultimo sentimento possibile, l’unica speranza, brucia con quel libro, diventato per la ragazza un simbolo, la tenue possibilità di una timida resistenza al veleno del male: quando “brucia” anche questo, non resta a Marina che la strada  del suicidio, seguita da Daniel disperato, impotente e alfine anche dal professore, raggiunto il suo ultimo scopo di aver raso al suolo ogni sentimento nei suoi ospiti.
Pur nella amarezza, declinata in una durezza profonda negli altri romanzi della Nothomb, della constatazione che nella guerra tutto è permesso (come non ricordare Dostoievskij, se Dio non c’è tutto è permesso), rimangono le invocazioni dei due ragazzi, Marina che chiede «che esista qualcosa di bello sulla terra» e Daniel, un tempo affascinato dalle lezione del professore, per cui i libri, come aveva appreso da lui, siano «un detonatore che serva a far reagire la gente». Libri da ardere, allora, se non appoggiati all’umanità di chi ne fa uso.

Affinità e differenze con la Nothomb, in un libricino di successo, uscito in prima redazione da un editore sconosciuto e poi sbarcato in tutto il pianeta, in Italia da Einaudi: si tratta del topolino intelligente e malinconico di Sam Savage, autore statunitense avanti con gli anni, misterioso e solitario, al suo esordio con Firmino. Il topino, nato in una libreria, mastica i libri, comincia il suo itinerario di “formazione” accorgendosi di notevoli differenze di sapore tra l’uno e l’altro, poi li divora solo simbolicamente, avendo avuto in dono il privilegio di saperli leggere (e così resta il problema di dover mangiare, di cui però, intento a poderose letture, quasi si dimentica).
Una metafora inizialmente opposta a quella di Libri da ardere, congiunta presto nella comune necessità dell’amore passionale per la libertà innescata dai libri di fronte alla demolizione fisica e ideale del mondo circostante, evidenziata con un incendio di un antico Teatro. Scrive la giovane napoletana Valeria Parrella, abile autrice di racconti: «Firmino racconta di tutti noi il giorno in cui abbiamo scoperto  che con un libro potevamo inventare la nostra vita».
In questa favola, i libri sono anche la cognizione del dolore, con la consapevolezza di una dimensione di inappartenenza alla società contemporanea: attraverso brevi racconti nel racconto, (i libri dello scrittore con cui il topino vive la seconda parte delle sue avventure) anche Savage oppone ad una società capace di avviarsi all’ autodistruzione il mondo dei libri, apparentemente sconfitto, da cui emana un profondo sapore nostalgico di verità, che potrebbe, prima o poi, indurre alla riscossa “umanistica”.

Tra le massime scrittrici inglesi, anche Antonia S. Byatt racconta una storia legata ai libri, sulle tracce di un poeta vittoriano da parte di due giovani, così infatuati da riviverle, da esserne, appunto, posseduti, come recita il titolo Possessione, in Italia per Einaudi. L’unica possibilità di compravendita di altre esistenze poggia nello scrivere storie, vere o di fantasie, afferma con autorevolezza un giovanissimo scrittore italiano, Paolo Di Paolo, noto “conversatore” (dialoghi con Antonio Debenedetti, con Dacia Maraini, con 18 scrittori sul tema del viaggio in tre volumi pubblicati da Laterza), autore di racconti e di due romanzi (entrambi con Perrone editore), Come un’isola e Raccontami la notte in cui sono nato, che trae spunto dalla notizia autentica di un uomo che mette in vendita su internet la sua vita, per  concludere come si diceva: la vita di ognuno è imparagonabile e insostituibile: l’unico scambio possibile è raccontarsi, ad un amico o a un pubblico, lontano o vicino, abbracciando i propri limiti, amandoli nelle vicende di altri.

Da segnalare tra le scrittrici, la canadese Alice Munro, per la interpretazione perfetta della forma racconto, breve o lungo. Tra le raccolte migliori, in Italia per Einaudi: In fuga (2004) e Nemico, amico, amante, (2003). Bastino queste parole di Eraldo Affinati, che con precisione sintetica indica il fascino e il talento stilistico della Munro, ancora in Compagni segreti, 2006 p.114:

«L’occhio della scrittrice resta fermo sulle cose qualche secondo in più di quanto sarebbe necessario per farcele vedere in modo realistico, ma non troppo, o almeno non così tanto da giustificare una riflessione filosofica sul loro senso. Questo accade semmai a libro chiuso, nel momento in cui ci rendiamo conto di aver osservato alcune radiografie dell’animo umano. La diagnosi dobbiamo farla noi. La letteratura insegna a vedere, non è una medicina. Se sai guardare, sembra volerci suggerire la scrittrice, hai capito la sostanza. Con la malattia, quale essa sia, devi imparare a convivere, che tu lo voglia o no: sono i figli che perdi, i genitori che non capisci, le incomprensioni che scorrono nel tuo stesso sangue».

Tra i casi letterari di scrittori più giovani l’americano e, all’epoca del fortunato esordio, studente di letteratura italiana, Matthew Pearl, con l’interessante filone che unisce storie letterarie a indagine poliziesca. Il primo romanzo, enorme successo editoriale, Il circolo Dante (Rizzoli, 2003) ricostruisce le fasi della prima traduzione in inglese della Divina Commedia, imbastendo una trama formidabile di sangue, il secondo i misteri attorno alla morte di Poe, L’ombra di Edgar, Rizzoli, 2006;  Jonathan Safran Foer, statunitense, (Ogni cosa è illuminata, Molto forte, incredibilmente vicino), gli inglesi Mark Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, (Einaudi, 2003), Michel Faber, Il petalo cremisi e il bianco, Einaudi 2003.
Del vivace giallo letterario europeo Manuel Vasquez Montalban, con il suo ispettore buongustaio, Pepe Carvalho, con I mari del sud (con l’apparizione di Cesare Pavese), Il centravanti è stato assassinato verso sera (in Italia per Feltrinelli) . Dalla Spagna ancora, Alice Gimènez Bartlet, con la saga di Petra Delicato, indagatrice al femminile, e per l’Italia il successo della serie del commissario Montalbano di Andrea Camilleri, e gli altri interessanti noir scrittori tra attualità e fantasia tra cui Carlo Lucarelli, il lirico Marcello Fois, Loriano Machiavelli. Rilevante, in Italia per Einaudi, l’opera di un noir esistenzialista del francese Fred Vargas.

La letteratura e la città dei ragazzi
«Il poeta è per sua natura un protrattore d’infanzia», suggerisce Marco Baliani, attore, drammaturgo, scrittore che ama circondarsi nei suoi spettacoli, penso a Pinocchio nero, favola di Collodi ripensata in Africa (il cui “diario” è pubblicato da Rizzoli), con attori adolescenti, e al recente La notte delle lucciole, dove interpreta Leonardo Sciascia, circondato dai suo scolari, sempre pronti a porre domande, a portare esperienze, con vivacità, trasporto, convinzione, se adeguatamente stimolati dal docente.
Il profilo del Maestro-scrittore nel testo di Roberto Andò rimane esemplare, tratta dai libri di Leonardo Sciascia, in particolare da Le parrocchie di Regalpetra e L’Affaire Moro, disegnando una lucida immagine della società del secondo Novecento, a partire dalla celebre espressione di Pier Paolo Pasolini sulla scomparsa delle lucciole, che a sua volta accennava alla disastrosa distruzione, in pochissimi anni, di una secolare civiltà. Il maestro appare in grado di insegnare tramite l’esempio della sua personale e autorevole visione del mondo, attraversando, con la letteratura, i nodi centrali e problematici della società civile e dell’esistenza. Altresì si mostra proteso ad imparare dai ragazzi, a capire la loro condizione, i loro drammi, a porsi autorevolmente come guida e compagno.
Rispetto al furore poetico e radicale di Pasolini, il Maestro Sciascia interpretato da Baliani, introduce una nota di commovente e tangibile speranza: le lucciole sono tornate, a tratti hanno abbellito le notti di quei ragazzi, diffondendo, come nei versi citati della Gualtieri, un desiderio di cambiamento subentrato ad un senso atavico di rassegnazione.

Un cacciatore di storie ama definirsi Marco Baliani, per i suoi romanzi e racconti (si veda, per Rizzoli, La meta di Sophia, 2008) e per il suo teatro, interpretando perfettamente la figura antica, ora tornata agli onori dello spettacolo e della letteratura, dell’attore narratore, insieme, in Italia, sull’esempio del Nobel Dario Fo, a Ascanio Celestini, Emma Dante, a Marco Paolini (ricordo il lavoro Il Sergente, sulla narrativa di Mario Rigoni Stern) e altri. Alessandro Baricco, dopo un inizio di carriera folgorante con Castelli di rabbia e Oceano mare e libri successivi più di maniera, ama portare in scena spettacoli tratti da libri o con letture sceneggiate di testi, in operazione suggestive.
Tra i tanti scrittori insegnanti o particolarmente sensibili a queste problematiche (ma quanto, viceversa, in questi anni, l’adolescenza è stato oggetto di violenza, di mercato, di vero e proprio stupro esecrabile!!!) un posto di rilievo, unanimemente riconosciuto dagli addetti ai lavori, spetta al già citato Eraldo Affinati, e in particolare al suo ultimo libro: La Città dei Ragazzi, edito da Mondadori, nel 2008.

Le maiuscole del titolo indicano che si tratta di una istituzione, creata, nel Secondo Dopoguerra, dal Monsignore irlandese John Patrick Caroll-Abbing, per accogliere ragazzi in difficoltà, soprattutto orfani, con l’idea, appunto, di creare una città governata, con tanto di cariche istituzionali, dal sindaco in giù, dagli stessi ragazzi. In questo libro straordinario, si intrecciano tre livelli di racconto, l’esperienza dell’insegnamento, il viaggio commovente con il quale Affinati accompagna due allievi in Marocco, al paese natale, la memoria, tra conflitto e amore, del padre recentemente scomparso, con pagine di una umanità così vera da strappare lacrime di solidarietà, di risarcimento, di immedesimazione, rese con una scrittura mai retorica, sempre pronta, ad insegnare, con umiltà, a convocare compagni di strada nei libri e nei poeti sempre “viventi”.

Il tema dell’orfanità, dall’individuo alla collettività, rimane quello centrale: così come la difesa del valore poetico dell’infanzia e dell’adolescenza. Eraldo Affinati si riconosce nell’infanzia difficile di questi ragazzi e, con successo, li trascina, attraverso la letteratura e la storia, verso una visione diversa della realtà, maieuticamente estraendo la loro stessa poeticità, intesa come visione stupita del mondo e della natura.
Vorrei sottolineare due passaggi di questo testo e, più in generale, dell’opera narrativa e morale di Affinati. Il primo si racchiude nella frase di Teilhard de Chardin posta in esergo a La Città dei Ragazzi, in cui pensiero e azione devono ritrovarsi, nella quale insegnamento e accompagnamento (nel viaggio di ritorno dei ragazzi verso la loro origine, verso la poesia) : «C’è un’opera umana da compiere».
Il secondo passaggio è una espressione su cui Affinati insiste spesso nei suoi incontri con gli studenti, tratta dal grande teologo, Dietrich Bonhoeffer, perseguitato e ucciso da Hitler, di cui lo scrittore, appassionatamente, ha scritto una biografia, con il solito suo metodo di pellegrinaggio nei luoghi e tra le persone che lo avevano conosciuto : «la libertà non è nel superamento del limite, ma nella sua accettazione».
Mi sembra una delle chiavi d’accesso del lungo itinerario di questo scrittore, classe 1956, romano: agli inizi della sua carriera, in Soldati del ’56, dedicato, attraverso la metafora bellica, al mondo degli insegnanti, esplode la rabbia per l’inadeguatezza della società rispetto ai desideri e ai valori di libertà, e si manifesta la volontà, onnipotente, sia pur in larga parte sconfitta, di porsi a capo di una pacifica, ma radicale, rivolta.  Sia pur con modalità diverse, la stessa immagine figurale di porsi alla testa di una ribellione, si propone nella prima parte di Bandiera bianca (1995), (dedicato all’esperienza di insegnamento nei manicomi),  nei racconti di Uomini pericolosi (1998), in il Nemico negli occhi (2001).
Il capovolgimento avviene nella seconda parte di Bandiera bianca, nell’esperienza capitale del viaggio a piedi ad Auschwitz, nello splendido Campo del sangue (1997) e poi, compiutamente, in La Città dei Ragazzi e precedentemente in Secoli di gioventù (2004) racconto del rapporto di un professore con un ragazzo difficile della periferia romana, Matteo Saluzzo detto Rosetta: esperienza sfociata, nel singolare viaggio in Germania e poi in India alla ricerca di un altro adolescente, tedesco, Helmut, nel segno della pace tra i popoli protagonisti della Seconda Guerra Mondiale.
In questi testi autobiografici, Affinati si pone nella prospettiva indicata dalla frase di Bonhoeffer: il capo, il più dotato, il più sensibile, sfilandosi i pesanti scarponi di miliziano della rabbia, si piega per riprendere il cammino a piedi nudi, chinandosi, con un gesto di grande umiltà, a lavare quegli degli altri. Si pone a chiudere la fila di un pellegrinaggio verso l’altro, si rende compagno di esperienze diverse, per capire, conoscere, apprezzare, donare. Letteralmente accompagna i più giovani in un viaggio di ritrovamento di loro stessi, non imponendo nulla, ma seguendoli, imparando da loro. Con questo comportamento, e i risultati si vedono, nei gesti, nelle azioni, riesce protrattore di infanzia, ottenendo un risarcimento verso se stesso e suo padre di quello che nella propria gioventù gli era stato sottratto.
Da un altro punto di vista, l’editoria italiana e internazionale cerca da qualche anno di lanciare giovani scrittori, non sempre vigilando sull’attenzione che si diceva, ma su storie d’amore di facile presa, rosa o “rosso infuocato”, che in fin dei conti, sia pur in certi casi autentici, ritraggono fragilità, ossessioni, mancanze degli adolescenti, più che indicarne la sensibilità e l’alto valore. Su questa scia, ma in un versante, in fin dei conti, non negativo, il successo francese de L’eleganza del Riccio, di Muriel Barbery, pubblicata in Italia da E/O, 2007.
Fedele ad un tema centrale della sua ispirazione, Stefano Benni, dopo gli entusiasmanti libri sulla poeticità dei bambini-adolescenti in lotta contro il potere, La compagnia dei Celestini, Elianto, disegna ancora figure significative di questo tipo in Saltatempo (2001) e Margherita Dolcevita (2005). Tra gli scrittori italiani di livello internazionale si deve almeno ricordare Antonio Tabucchi (Sostiene Pereira e molti altri testi pubblicati da Feltrinelli, sul tema del doppio, del viaggio, del raccontare) e Vincenzo Consolo, siciliano trapiantato a Nord (Nottetempo casa per casa, 1992, L’olivo e l’olivastro, 1994, Lo spasimo di Palermo, 1998 tutti per Mondadori).
Tra le scrittrici solidamente affermatesi in Italia in questo decennio (da accostare a quelle di sicura fama, come Dacia Maraini,Francesca Sanvitale, Clara Sereni) si deve certamente ricordare Melania Mazzucco, e il suo romanzo, ad oggi, migliore Vita, Rizzoli, 2004, dedicato alla memoria della propria famiglia nel grande movimento di emigrazione del secolo scorso, Margareth Mazzantini (Non ti muovere, Mondadori), Silvia Ballestra (sul tema della nascita Nina, Rizzoli, ), Simona Vinci, Dei bambini non si sa nulla, tra le scrittrici più interessanti di quel fenomeno Pulp, dal film sanguinolento di Quentin Tarantino del 1994, di una effimera durata, da cui sono partiti scrittori diversi quali Aldo Nove, Niccolò Ammaniti (approdato a romanzi più tradizionali, con al centro l’infanzia: Non ho paura, Einaudi, Ti prendo e ti porto via, Mondadori), Tiziano Scarpa (Occhi sulla graticola, Einaudi, 1994), poi dedito ad una scrittura da recitare con grande presa emotiva in tomi grotteschi.
Un sempre toccante e non scontato o ossessivo rapporto tra ragazzi e adulti (insegnanti e genitori) si legge nei romanzi di Paola Mastrocola tra i quali spiccano La gallina volante e lo struggente La barca nel bosco, Premio Campiello 2004, sempre per la Guanda editore.

Fantasy e storia. Desiderio di altrove, tra verità e mistificazione
Per astrali convergenze fortunate, ho occasione di leggere la favola leggera, commovente, educativa per i “grandi” di Dario Buzzolan, Favola dei due che divennero uno, Milano, Baldini e Castoldi, 2007 (classe 1965, autore di altri tre romanzi di successo, di cui ricordo l’esaltante esordio di Dalla parte degli occhi, Mursia editore) dopo aver provato identica emozione di fronte al finale del film Pixar-Disney Ratatouille, quando il grande, onnipotente critico, hidalgo triste e misantropo, che “non sorride mai e si diverte a scrivere male dei ristoranti”, Egò, deve ammettere di aver sbagliato, di aver usato a lungo il pregiudizio della sua perfezione, e riesce a provare stupore di fronte al più semplice dei pasti, la zuppa di rape (con una agnizione dell’infanzia, a quello stesso piatto povero preparato dalla madre per le misere condizioni della famiglia a cui, in una sorta di compensazione aveva risposto con la rabbia di tutta una vita).
E poi capitolare definitivamente, con una recensione appassionata e sentita verso quel ristorante, di fronte alla clamorosa scoperta di chi fosse il cuoco di una simile prelibatezza, fino ad ammettere: «c’è molta più anima nei piatti mediocri che ho criticato con rabbia e supponenza, indubbia ragione e mestiere, che non nel mio giudicarli, condannandoli senza appello».

Nella storia di Buzzolan, sospesa tra favola e realtà, si respira una medesima aria di stupore, di conversione, di agnizione verso un sentire infantile considerato, a ragione, come piena maturità e consapevolezza del destino degli altri. La linea centrale del racconto si concentra nei momenti in cui Buzzolan ci immette nel desiderio del medico narratore (anche lui un misantropo di successo) di osservare da protagonista il momento della nascita (e in seguito della morte) di una creatura nuova, nata dallo “scontro” di altre due persone, nell’episodio fantasioso che innesca la favola.
Buzzolan interpreta nel migliore dei modi l’ansia di creatività fantastica, di sogno e di avventura sospesa nell’irreale, ma in grado di istruire una percezione significativa per una migliore conoscenza del vivere quotidiano, di cui si avverte palpabile la necessità, anche nel fiorire,  a volte ossessivo di eccessi.
Le seguenti espressioni dello scrittore Sergio Campailla descrivono bene questa ansia, dei giovani e dei lettori di sempre, vissute oggi, forse, con particolare frenesia: «Il nostro tempo ci dà l’illusione di un processo a senso unico e irreversibile, di segno scientifico, ma le grandi domande restano senza risposta, il lato oscuro riemerge dovunque, di notte e di giorno: vi siamo così abituati che non ce ne accorgiamo e non lo riconosciamo, ma non possiamo farne a meno. In determinati momenti esplode. Nella società contemporanea c’è un bisogno enorme  e disperato di evasione, di alternative, di antidoti: contro la malattia, contro i limiti della condizione umana, contro la morte.
Non è un caso che i best seller mondiali valorizzino il filone della magia e dell’irrazionale: così fanno la saga di Harry Potter, i libri di Coelho, Il Codice da Vinci di Dan Brown. Bisogna comprendere questo bisogno diffuso e affrontare questa materia. La Divina Truffa è un romanzo che costruisce un’architettura, un palazzo, e ciascuno all’ingresso sceglie una chiave, ma le chiavi del mazzo sono innumerevoli, e le più importanti bisogna guadagnarsele, nel corso dell’esplorazione».
Sergio Campailla ha finora alternato il racconto breve (ricordo Voglia di volare), o brevissimo, al romanzo di ampie proporzioni (gli straordinari affreschi siciliani, Il paradiso terrestre e romani Domani domani), fitto di dialoghi, di personaggi minori, di storie intersecantesi. Capitoli di un unico grande libro sulla vita di oggi, nel confronto esasperato tra il singolo e il movimento delle masse, multietniche, dove tuttavia, ed è l’originalità di Campailla, affiorano sensazioni e sapori antichissimi, tradizionali, archetipici.
La Divina Truffa, Bompiani, 2008, è il suo primo romanzo di argomento “storico”, in cui gli elementi fantastici si saldano perfettamente nel quadro storico del Settecento, attorno alla figura ambigua del Conte di Cagliostro. Come a dire che la storia ha spesso più fantasia della invenzione, secondo il motto dei Goncour, posto significativamente in esergo da Campailla: «La storia è un romanzo che è stato; il romanzo è storia che avrebbe potuto essere».
Citato da Campailla, il caso del brasiliano Paolo Coelho (L’alchimista, 1995, Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto, 1996, Il cammino di Santiago, 2001, La strega di Portobello e molti altri, in Italia da Bompiani) è certamente il più evidente di una ricerca religiosa e mistica contraddistinta da una sete spirituale del tutto individuale, alla ricerca di confluenza tra le razze, di una fratellanza universale nel grande cosmo in movimento metamorfico.
Ancora Todorov scrive su questo fenomeno:

«Pensare e sentire adottando il punto di vista degli altri, essere umani in carne ed ossa o personaggi letterari, è il solo modo per tendere vero l’universalità, permettendoci così di compiere la nostra missione. E’ per questo che bisogna incoraggiare la lettura con ogni mezzo, compresa quella di libri che il critico di professione considera con una certa condiscendenza, se non addirittura con disprezzo, dai Tre moschettieri a Harry Potter: non solo questi romanzi  popolari hanno avvicinato alla lettura milioni di adolescenti, ma hanno anche permesso loro di costruirsi una prima immagine coerente del mondo che possiamo esserne certi, le letture successive renderanno poco alla volta più elaborata».
Da registrare, in questo ambito, il ritorno tra gli adolescenti del Tolkien  della saga del Signore degli anelli, in cui si svela la complessità del mondo Fantasy, popolata da creature di ogni genere, ognuna con i suoi pregi e i suoi difetti, le emblematiche storie di Artemis Faol, il grande genio criminale di dodici anni (età media anche dei suoi lettori) nato dalla penna di Eoin Colfer, irlandese che popola i suoi libri di fate, folletti, gnomi, elfi, con storie ambientate però nel mondo di oggi, il citatissimo mago della Rowling Harry Potter, oggetto di vero culto tra i ragazzi, anche perché, nonostante i personaggi protagonisti siano dotati di poteri magici, si trovano ad affrontare i problemi comuni della scuola, dell’amicizia, della famiglia.
Testi di assoluto profilo letterario, tra storia e invenzione di un linguaggio descrittivo appropriato, nella scelta di un punto di vista straniante e originale, sono allora i reportage o i libri di viaggio, tra i quali spiccano i grandi maestri come Tiziano Terzani per l’Italia e Ryszard Kapuscinski, polacco (oggi in realtà Bielorusso), ma cittadino del mondo.
Se da una parte si stigmatizza la morte del romanzo, dall’altra la voglia di raccontare ha divorato altre forme dello scrivere e del vivere, dalla televisione ai rotocalchi, alla radio, assorbendole.
Si consideri al proposito il grande successo di Gomorra di Roberto Saviano, esemplare libro che, tra reportage sulla malavita organizzata nel napoletano e vero e proprio romanzo verità, si colloca nel versante nobile della letteratura impegnata, senza tradire una scrittura corposa, attenta a particolari meccanismi del romanzo descrivendo la potenza della malavita che da Napoli nuove traffici illeciti in tutto il mondo.

Scrive sul quotidiano “La Repubblica” di giovedì 03/05/2007 lo scrittore napoletano, costretto a vivere in località segrete per le minacce della Camorra ( si veda anche il bel libretto, Raccontare la realtà, del dialogo tra lo scrittore napoletano e uno dei più famosi reporter del mondo Langewiesche, Internazionale, 2008):

«Quando Philip Roth dichiara che dopo Se questo è un uomo nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz. Non di non sapere dell’esistenza di Auschwitz. Ma non si può più dire di non essere stati in fila fuori ad una camera a gas. Questa la potenza di quelle pagine. Libri che non sono testimonianze, reportage, non sono dimostrazioni. Ma portano il lettore nel loro stesso territorio, permettono di essere carne nella carne. In qualche modo questa è la differenza reale tra ciò che è cronaca e ciò che è letteratura. Non l’argomento, neanche lo stile, ma questa possibilità di creare parole che non comunicano ma esprimono, in grado di sussurrare o urlare, di mettere sotto la pelle al lettore che ciò che si sta leggendo lo riguarda. Non è la Cecenia, non è Saigon, non è Dachau, ma è il proprio luogo, e quelle storie sono le proprie storie. Ed il rischio per gli scrittori non è mai di aver svelato quel segreto, di aver scoperto chissà quale verità nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene.[…] Questa potenze non puoi fermarla se non fermando la mano che la scrive. La forza letteraria continua ad essere questa sua incapacità a ridursi ad una dimensione, ad essere soltanto qualcosa, sia essa notizia, informazione o sensazione, piacere, emozione».

Il fenomeno dei cantautori scrittori si è ormai consolidato, basti citare il riconoscimento letterario all’artista simbolo di questa schiera Bob Dylan, vincitore del Pulitzer del 2007. In Italia, il più dotato resta senz’altro Francesco Guccini, con l’anima popolare affondata nella sua Emilia, per i gialli insieme a Loriano Machiavelli, per la raccolta di racconti Icaro, Mondadori, 2008.
Tra le più grandi scrittrici odierne di romanzi, Tracy Chevalier occupa un posto di riguardo. Apprendiamo dalla sua testimonianza il gusto della ricerca nella storia, di impossessarsi di personaggi di cui, magari, si conosce pochissimo, solo un volto, in questo caso. La scrittrice si riferisce al suo romanzo più celebrato, in Italia edito da Neri Pozza: La ragazza con l’orecchino di perla: il tentativo di dare vita ad un sorriso enigmatico, di una modella del grande pittore fiammingo Vermeer. Di lei non sappiamo nulla e pochissimo di lui: la scrittrice ha tolto entrambi dall’ombra e gli ha donato un’altra possibilità, un’altra storia, ma attenta alle verosimiglianza e questo può avvenire solo con lo studio, con la dedizione.

Come è facile intuire, quando la scrittrice parla dell’arte di Vermeer, descrive il suo modo di scrivere, maniacalmente attento ai particolari oggettivi, ma creando con essi, senza spostare affatto gli oggetti, una rete di richiami suadente, perfetta, quasi ritmica, preoccupandosi poi di far cadere l’attenzione del lettore dentro crateri di scene assolutamente limpide e commoventi, offerte dentro quella minuzia, dentro quella attenzione sacra al particolare, così come per i primi incontri con il pittore, quando Griet, intenta a spolverare la stanza, ovvero il luogo sacro dell’arte, doveva essere attentissima a rimettere ogni oggetto al proprio posto. Intenta a questo lavoro, lei umilissima serva, ne comprende la difficoltà e l’importanza, quasi iniziatica. Attraversati dal genio, quegli oggetti disposti in un modo non alterabili, conservano un valore assoluto: solo quando entra il pittore, con la ragazza sorpresa fino al tremore, si attua il vero cammino di formazione. Eppure lei ha capito i segreti dell’arte tra gli oggetti materiali e inanimati del genio è, in qualche modo misterioso, preparata ad accoglierlo.

«Ho sempre avuto una copia del quadro ovunque ho vissuto. Lo amo particolarmente perché è bello e misterioso. L’espressione sul volto della ragazza è così ambiguo – talvolta sembra sia contenta, tal’altra triste, qualche volta innocente ed altre ancora deduttiva. Ho sempre cercato di immaginare a cosa stesse pensando, e un giorno mi sono messa a pensare a cosa Vermeer avesse fatto per farla apparire così. Ho pensato che ci doveva essere una storia dietro all’apparenza, ma quando ho scoperto che non si sa nulla riguardo alla modella del quadro, ho deciso di creare io la storia di quella modella […] Ho letto molti libri, soprattutto ho studiato molti quadri olandesi dell’epoca. I quadri sono stati le mie vere fonti di ricerca, i dettagli che vi scorgevo mi facevano esattamente comprendere lo stile di vita dell’epoca.[…] Decisamente Griet era affascinata dalla grandezza di Vermeer, […] Secondo me il loro incontro è stato un incontro ascetico di due menti diverse. L’una poteva essere poco istruita, l’altro un intellettuale, tuttavia guardavano alle cose nello stesso modo. Vermeer lo capì fin dall’inizio quando andò a casa di Griet per conoscere la ragazza che sarebbe andata a servizio nella sua abitazione. Griet aveva un suo modo particolare di disporre le verdure a seconda del colore  e delle sfumature. Da lì Johannes Vermeer intuì qualcosa. E vero molti erano i motivi che dividevano i due, ma potevano comunque condividere uno stesso modo di vedere il mondo.

Da un’intervista rilasciata nel maggio 2005 al sito: www.cafeletterario.it
La tradizione e il laboratorio delle frontiere: la letteratura per la pace tra i popoli.

Nella storia o nella fantasia, comunque «scrivere romanzi significa trasformarsi in una miriade di persone. Alla nostra modesta e assai limitata maniera noi romanzieri forniamo a noi stessi e ai nostri lettori i mezzi per entrare in altre realtà e vivere altre vite», scrive lo scrittore irlandese John Banville (L’intoccabile, Guanda, 1999, L’invenzione del passato, Guanda, 2003) ragionando sui meccanismi della creatività, vicini a quelli del sogno, ma capaci di interpretare e descrivere più “furbescamente”  la realtà.

Luigi Meneghello, scrittore appena scomparso, ricorda il grande serbatoio linguistico ed esperienziale della sua terra (Malo, del suo libro più impegnativo Libera nos a Malo), potente nucleo uterino e magmatico a cui ha dovuto affiancare la lenta acquisizione, paziente, sofferta e stupefacente, di un mestiere.  
Il resto della mia attività di scrittore è stato un lungo apprendistato per portare ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quella antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare.
Ho il senso di non aver ancora finito l’apprendistato: sono quasi al punto però.
L’antica esperienza è quella del padre tornitore, che per tutta la vita ha inseguito, con pazienza e impegno, il “capolavoro”, metafora di una lentezza della scrittura ancora affascinante di solitudine e silenzio, anche nell’era dei mass media e della comunicazione simultanea.

In due grandi poeti italiani rimangono, diversamente, le tracce di questa tradizione luminosa, Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. In questo scorcio di tempo, a cavallo di due millenni, sono venuti a mancare in Italia, altri Maestri di questa tradizione, umana e letteraria, tra i quali di assoluto valore, Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Giovanni Raboni per la poesia, e per la narrativa, Giuseppe Pontiggia, Luigi Malerba (anche se il suo itinerario è assai diverso almeno per l’inizio nell’avanguardia), e Mario Rigoni Stern, di cui ricordo anche i recenti Inverni lontani (1999) e Stagioni (2007). Per sottolineare la possibile continuità tra maestri e allievi, mi affido ancora alle parole conclusive di Eraldo Affinati, nella introduzione al volume dei Meridiani Mondadori Storie dall’Altipiano. Dopo aver esaltato nei romanzi di Rigoni Stern il tema centrale dell’amicizia  come il sentimento più bello e misterioso tra tutti quelli che regolano i rapporti umani, Affinati scrive: «Da lui ho appreso, come dagli antichi maestri, che nessuna vera espressione può rinunciare alla vera conoscenza, foss’anche sterile e vana. “Verrà, verrà il caro scricciolo sulla catasta di legna ad annunciarmi la  prima neve come quando ero ragazzo con il suo tictic ripetuto più volte, e il suo campanello nascosto nella gola si sentirà anche lassù dove le nuvole compatte e bianche aspettano il segnale”».
Lo scricciolo, come i salmerini del finale di McCarthy, come la speranza del ritorno delle lucciole di Sciascia, ribadito da Baliani.
Diverse e sempre significative le testimonianze dei paesi in guerra, dai Balcani al Medio Oriente, all’Africa. Il Cacciatore d’aquiloni di Khaled Hosseini, in Italia da Piemme (2004) ne rappresenta un modello di grande impatto emotivo, ancora sul tema della difesa dell’infanzia. Hosseini ha raccontato l’Afghanistan, scegliendo di narrare una storia di tradimento e amore, quella di Amir e Assan, “padrone e servo” per estrazione sociale, la cui condizione dovrà essere rovesciata, in quanto a nobiltà d’animo, abnegazione, coraggio e ancora altro nella svolta della ultima parte della storia, drammatica e avvincente. Servirà un lungo viaggio, che coincide per Amir con il ritorno a casa da San Francisco, una trentina di anni dopo le prime fasi del romanzo, per ritrovare gli equilibri, in un abbraccio “fraterno”. Il mondo circostante è durissimo, con bande di minorenni che assalgono pacifici coetanei, a imitazione della violenza dei grandi, in un paese martoriato dalla invasione russa prima e dal regime dei talebani poi, fino alle vicende della guerriglia e della instabilità di oggi. «Questo libro è dedicato a Haris e Farah, entrambi noor dei miei occhi, e ai bambini dell’Afghanistan», scrive in esergo Hosseini, scegliendo, per il titolo, il simbolo del gioco nel cielo libero dell’infanzia descritto (e violentemente negato) per la straordinaria capacità di Hassan di “cacciare gli aquiloni”, come se avesse una bussola interiore. Gioco interrotto, da cui si avviano altre dolorose vicende di esilio, dalla violenza dei ragazzini infuriati con Hassan che Amir, vigliaccamente, osserva mentre viene barbaramente maltrattato senza saper reagire. Episodio che rimarrà al centro della vita dei due amici di diversa classe sociale, sospesi, verso la maturità, tra viaggi e ritorni, con il sorprendente finale della fattiva speranza inscritta in una “vita nuova”.
Se la forza della tradizione investe i Maestri della letteratura, dall’altra parte l’affermarsi della società multietnica ha prodotto frutti di grande rilievo, rivoluzionando il panorama internazionale. Lo stesso Hosseini, figlio di un diplomatico, nato a Kabul, ha dovuto emigrare negli Stati Uniti, dove vive in California, esercitando la professione del medico. Con l’anglo-indiano Salman Rushdie (Est, Ovest, 1997, Furia, Mondadori, 2002), tra i più noti scrittori di “confine” tra diverse culture Tahar Ben Jelloun nato in Marocco nel 1944, dal 1971 stabilmente a Parigi (Lo scrivano, Giorno di silenzio a Tangeri, Il libro del buio, Mia madre, la mia bambina), i premi Nobel 1993 Toni Morison (In Italia pubblicata da Frassinelli, Amatissima, 1988, Paradiso, 1998, attenta ai problemi dei “neri negli Stati Uniti, il turco Nobel Orahn Pamuk (Istanbul, Neve), i sudafricani Nadime Gordimer e J.M. Coetzee, altri Nobel. (Terre al crepuscolo, Elisabeth Costello, Vergogna, forse il suo capolavoro, e Slow Man del 2005, con l’incontro, in Australia, di una emigrata croata con la sua invadente famiglia, che cambia la vita ad un vecchio a cui è stata amputata una gamba dopo un incidente in bicicletta).
Lo scrittore argentino Ricardo Piglia (L’ultimo lettore, Soldi bruciati tradotto in Italia da Feltrinelli) è professore di Letteratura sudamericana a Princeton University, negli stati Uniti, mentre il colombiano Juan Gabriel Vàsquez (Storia segreta del Costaguana, in Italia da Corbaccio) è residente in Spagna.

Specchio dell’identità multipla e meticcia Vidiadhar Surajprasad Naipaul (Nobel 2001), nato nei Carabi, in un piccolo villaggio di Trinidad, da genitori indiani, vince una borsa di studio e si stabilisce a Londra, ma non finisce di viaggiare, soprattutto nei paesi asiatici della sua origine, raccontando esperienze diverse dell’Islamismo di questi paesi in Fedeli ad oltranza, del 1996. Tra i suoi libri più importanti India (Oscar Mondadori, 1996). Tradotto per Adelphi, Semi magici nel 2008.Amitav Ghosh è autore di Le linee d’ombra, tradotto in Italia da Einaudi. Tra le scrittrici emergenti Sharmistha Mohanty nel 2005, ha pubblicato New Life in India. Il romanzo è scritto in inglese e rappresenta bene, anche nella sua vicenda, l’incrocio tra due mondi e culture, quello indiano  quello anglosassone, attraverso il “viaggio” interiore della sua protagonista. (Cfr, Claudio Magris, Dèi, tecnologia e denaro: l’India rinasce meticcia, “Corriere della sera”, 6 luglio, 2008). Scrive Claudio Magris, al margine di un incontro internazionale in cui lo scrittore triestino rappresentava l’Italia e tenutosi proprio in India: «L’India è un laboratorio di quell’incrociarsi, scontrarsi e mescolarsi di culture che sta sempre più caratterizzando – nel bene e nel male – il mondo intero, cancellando frontiere e creandone di nuove».
Un vero caso letterario Necropoli di Boris Pahor, scrittore sloveno triestino, romanzo ripubblicato con grande successo nel 2007 da Fazi editore. Dall’Albania Ismail Kadarè, pubblicato in Italia da Longanesi (I tamburi della pioggia, Il generale dell’Armata morta).
Molto nutrita la pattuglia di scrittori israeliani, di cui almeno si deve ricordare Abraham B. Yehoshua (Viaggio alla fine del Millennio, 1997,  Il responsabile delle risorse umane), David Grossman (Col corpo capisco), Amos Oz (di cui si veda la storia dello scrittore sorpreso a carpire storie in una noiosa presentazione di un suo libro, immaginando i destini di alcuni intervenuti in  La vita fa rima con la morte, Feltrinelli, 2008) e il premio Nobel Eli Wiesel, Dopo la notte, Garzanti, 2004. Di lui scrive Giulio Busi sul Sole 24 ore del 22-6-2008, definendo i forti contenuti di questo scrittore, che si uniscono, negli altri israeliani, ad una propensione al paradossale, all’ironico indissolubilmente legati al tragico, presentando ancora la minaccia futura di città autodistrutte: «Lo zolfo, il fuoco, il fumo di fornace delle città reprobe e distrutte offrono l’ambientazione migliore per il Novecento di Diesel. Un secolo da abbandonare precipitosamente, come le città dei peccatori […] Fedele all’antica scuola del misticismo ebraico, Wiesel si interroga sugli antefatti della creazione, su quei primi pensieri di Dio, che racchiudono o forse pregiudicano l’intero agire umano. Siamo cattivi guardiani di una creazione buona o testimoni impotenti di un malvagio giardino dell’essere?».
Dall’Oriente Banana Yoshimoto, il cui successo e la cui produttività non conoscono limiti e i Nobel Gao Xingjian, il cui romanzo più importante rimane La montagna dell’anima e la cui ispirazione si pone sullo sfondo di una intesa tra Oriente e Occidente, in un suggestivo sincretismo di mitologie ed elementi fondanti e il giapponese ancora Nobel 1994, Kenzaburo Oe.

Canti d’Oriente e d’Occidente. I Grandi Maestri della poesia
La poesia vive diversamente l’animo di una quantità sterminata di persone, la stragrande maggioranza delle quali scrive versi. Paradossalmente, questa maggioranza partorisce un pubblico limitato, un mercato spesso autoreferenziale, in cui, tuttavia, non è raro trovare perle preziose seminascoste. Nell’impossibilità di offrire anche un minimo accenno di un quadro ancora più variegato e molteplice di quello della prosa, opero una selezione sofferta, limitando le citazioni a pochissimi poeti dell’intero globo, dedicando uno spazio, leggermente superiore e eppure totalmente parziale, al panorama italiano, tenendo nel giusto conto l’affermazione di Italo Calvino, pronunciata in un contesto a mio avviso simbolico anche del destino della letteratura, nel finale delle Città invisibili: probabilmente la parola definitiva di un autore di talento assoluto «mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero […] senza fine né forma».

In dialogo tra Oriente e Occidente, si pone l’arabo Adonis (nasce in Siria nel 1930, si veda di lui l’Antologia Nella pietra e nel vento, Mesogea, 1999), nella cui opera poetica l’Altro viene riconosciuto nei popoli diversa origine, costumi, religione. L’ Altro, per Adonis intervistato nella citata antologia è anche «quella parte di me che non conosco e che si svela agli altri quando realizzo qualcosa: la conoscenza dell’Altro si  perfeziona lungo il corso dell’esistenza». L’Altro in senso assoluto, continua Adonis «è come la luce che vogliamo raggiungere; il percorso che ci conduce a questa luce è quello che completa la nostra crescita».
In dialogo anche tra passato e presente, tra culture straniere, con la poesia e l’arte di ogni tempo, ma con il compito di creare un nuovo linguaggio, raggiunto, secondo la stessa testimonianza dell’autore faticosamente, a partire dalla raccolta Canti di Mihyàr il damasceno, della fine degli anni Sessanta.
Verso l’altro e sotto il segno della metamorfosi, garante, sia pur con sofferto cammino, di apertura: Adonis, pur rivendicando l’autonomia della poesia dall’impegno politico, non si sottrae, ad esempio ne Il libro della metamorfosi e dell’emigrazione nella regione del giorno e della notte alla descrizione e alla condanna dello scempio umano, in territori martoriati dalle guerre. 

Nelle oasi di pace, la meraviglia riempie il cuore di stupore in Stupore rapito: «Rintanato all’ombra tra fiori ed erbe ecco un’isola/ ai rivi unisco i rami / e quando i porti spaiono e le linee annegano / sogno lo stupore rapito / della ali delle farfalle / dietro torri di spighe e la luce nel cielo della fragilità», a cui fa eco, nelle poesie più recenti, il monito severo, pronunciato proprio dal candore offuscato dei bambini, consapevoli del mondo di violenza che li stringe «Letto il libro del presente, – i bambini hanno detto: un tempo è questo / fiorito nel tempo delle rovine». Dagli anni Ottanta stabilitosi in Francia, Adonis, come riporta Francesca M. Corrao nell’antologia citata, «che la poesia in Europa è emarginata, perché non può esprimersi nei modi e nei tempi  che la produttività impone». Il poeta arabo si stupisce che nessuno si ribelli a questa situazione!!! 
Da quell’Europa, anzi da quel paese, la voce di Yves Bonnefoy, poeta, critico d’arte e traduttore, costituisce l’eccezione, affrontando con coraggio la ribellione stigmatizzata da Adonis. In Italia si legga di lui, per la Guanda e con la presentazione dell’autore stesso, chiarificatrice dei suo passaggi del lungo itinerario poetico, Ieri deserto regnante e Nell’insidia delle parole. La poesia disprezzata e negata, è ancora capace di proclamare la sua verità, non semplice e rassicurante, ma autentica: «Ma so anche che non vi è alba stella / che si muova, misteriosa, auguralmente / nel cielo illusorio degli astri, / se non la tua [intende la poesia Ndr.] barca sempre oscura, ma dove ombre, / si raccolgono a prua e perfino cantano, / come un tempo a quelli che arrivano […]   E se rimane / altro che vento, scoglio, nome, so che tu sarai, anche nella notte / l’àncora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia e la legna che si ammassa, e la scintilla / sotto i rami bagnati, e nell’inquieta / attesa della fiamma che vacilla / la prima parola dopo il lungo silenzio, / il primo fuoco che prende nel basso del mondo morto».

Seamus Heaney, cresciuto nell’Irlanda del Nord, rileva la particolarità culturale di quella regione, stretta tra cattolicesimo e protestantesimo, per certi versi spostata molto più ad Est della Madre Patria inglese. In forte legame con l’immaginario gaelico («ho iniziato come poeta quando le mie letture si sono intrecciate con le mie origini), si apre prima verso il centro della poesia Occidentale, tramite Omero e Virgilio, per poi valorizzare gli esempio diversi dell’Est, come testimonia nell’intervista pubblicata in Attraversamenti, Il libri Scheiwiller, 2005 (gli altri libri di poesia sono pubblicati da Guanda «Quello che trovi in poeti come Milozs, Sorescu o Holub è una invocazione della mitologia classica, non in modo decorativo alla stregua di Milton, ma in modo totalmente contemporaneo, arrabbiato». Spesso Heaney “attraversa” con mezzi veloci il paesaggio naturale ancora incontaminato, descrivendo questo urto con originalità, metafore ardite, in grado di oltrepassare la nostalgia: «Si guida dentro un significato fatto d’alberi. / O non proprio d’alberi. C’è il senso di corrervi in mezzo e sotto senza impacci, // di chiazze e barbagli. Una vita di tracce e sfioramenti / da cui la macchina è scomparsa. Una nuca arieggiata / sensibile alla milionesima parte d’un barlume».

Dall’Oriente la poesia degli elementi primari del già citato Gao Xingjang e dal Giappone  Kikuo Takano (si veda Poesie scelte, Oscar Mondadori, 2003): «Come gli alberi che chiedono / sulla cima la luce / e la negano alla radice / perché vivo anch’io / cercando Dio con le parole, / respingendolo nell’anima?» (Sulla cima degli alberi).
Dei padri della poesia italiana si è detto: aggiungerei i Poeti dialettali Tonino Guerra e Franco Loi. Giuseppe Conte è sicuramente il più internazionale dei nostri poeti, ed ha in comune con quelli citati, insieme ad una autentica amicizia, la rivalutazione del mito come linguaggio (il mitomodernismo) e come stile di vita nella modernità. Di particolare significato, dopo lo smagliante esordio dell’incantato e stupito sguardo al mondo de L’oceano e il ragazzo, le ultime due raccolte, il dialogo, in particolare proprio con Adonis di Canti di Oriente e d’Occidente e Ferite e rifioriture, per Lo Specchio Mondadori, dove si arriva alla semplicità della radice ultima dell’Essere, attraverso un’immagine assoluta e irradiante: la primavera. Stagione ed anche una inclinazione del cuore che nasce dal seme dell’umiltà e dall’inverno del dolore, e con queste si misura, per aprire le sue corolle, le sue dolcezze di miele, per ricevere sentimenti esaltanti, ben più veri e duraturi della transeunte gloria umana.
Lo testimoniano i versi d’apertura, in corsivo, riepilogo del lungo cammino di poeta e di uomo, con il saluto, l’addio, la consapevolezza di una nuova età, rivolto a due simboli del recente passato: Whitman, l’ardore delle prime raccolte, e Ysuf, l’alter ego in Canti d’Oriente e Occidente. A loro si confida che “oggi sono qui, sono soltanto/ Giuseppe figlio d’Anita e di Franco/un uomo sempre offeso e mai vinto/un uomo vilipeso e ferito al fianco”. Ecco l’altra immagine della diade del titolo: ferite. Ferite e rifioriture, dove la e evidentemente congiunge un corpo unico, in un volume così ampio e composito che può leggersi in diversi modi, privilegiando il primo momento sul secondo o viceversa.

In due brevi liriche, una dopo l’altra, Di te e del tuo amaro, L’umile dio dell’alba descrivono il poeta, “girovago, mendicante” spogliato dagli uomini “ferito, deriso/ pugnalato, frainteso”, alla ricerca di una speciale fraternità “fratello mi è ogni vinto, / fratello ogni ribelle”, innalza l’inno alla vita, ferite e rifioriture, dolore e gioia, composto, religiosamente, di ogni frutto della terra, di un’ultima, profonda gratitudine, testimonianza probante di quella umiltà dichiarata fin dall’inizio da Giuseppe “uomo di pena”: “Ho avuto solo da te, / mia vita, questa acuta / sragionevole gioia sottopelle/ certe mattine quando appena sveglio /io degli uomini il più misero/ io che conosco ogni strazio/ un canto alzo/ e quasi danzo/ e fremo mentre ringrazio / l’umile dio dell’alba”.
Come scrive Remo Bodei nell’introduzione all’ultimo libro di Dante Maffìa, Al macero dell’invisibile, Passigli, 2006, tra i vertici dell’intera lunghissima produzione che affonda appunto nei “Settanta” (almeno La castità del male, 1993, La biblioteca d’Alessandria, 2003), Maffìa arrivato fino alle soglie del invisibile e ha scelto di continuare, fieramente, di lottare dentro il tempo quotidiano, terremotato e augurale, alzando la testa alla forza del destino, presentito non come inesorabile martello schiaccia nome-identità, ma statua da poter ancora, almeno in parte, modellare.
Ne scaturisce una poesia dura di scalpello, con il gusto del rifinire il particolare, musica e senso (con vene intime sorprendenti), piena di dignitosa indignazione, morale e non moralistica, tesa a ricomporre quel volto, con il sapore ogni volta diverso e spiazzante di una ultima, maschia, rude, meraviglia, negli spazi dalla macerazione, la quale non tollera ipocrisie e si riserva di guardare e attendere in piena libertà, allergica ad ogni tirannia: «Avevo dimenticato che è bello / sedersi e attendere. E non domandate / che cosa bisogna attendere. E’ / forse  un sacrilegio uccidere le ore / inerti del silenzio in cambio di pensieri / che poi si fanno parole dolorose o vane? // Lo faccio di mattina: mi siedo / e metto in fila le paure, le brutture, e i fantasmi che mi corteggiano. Si mischiano le idee / con le immagini, coi grumi dell’angoscia. / In altro luogo, in altra dimensione».

Da citare almeno Milo De Angelis, Valentino Zeichen, e nella generazione di mezzo Valerio Magrelli, Eugenio De Signoribus, Claudio Damiani.

Ben rappresentato l’universo femminile in Patrizia Cavalli, Antonella Anedda, la talentuosa lugubre e scenica Patrizia Valduga, l’intensa e bravissima già citata Mariangela Gualtieri e soprattutto Alda Merini, di cui si veda almeno l’Antologia einaudiana Fiore di poesia (1951-1997) e, sempre per il medesimo editore, Clinica dell’abbandono, del 2002, con allegata una video cassetta dove la poetessa si racconta nelle dolorose vicende che l’hanno portata in manicomio e legge alcuni suoi testi.
«Anima mia che metti le ali/e sei un bruco possente / ti fa meno male l’oblio / che questo cerchio di velo/. E se diventi farfalla / nessuno pensa più / a ciò che è stato / quando strisciavi per terra / e non volevi le ali». Parte notevole della sua produzione (anche in prosa) è ispirata a quella “prigionia”, agli incontri con gli altri degenti, alla maturazione di una idea  forte dell’amore, con esiti, negli ultimi volumi editi da Frassinelli, anche mistici, dove la corolla corporale del dolore si snocciola in colloqui intimi con Gesù e Maria.