Saggio di redazione
Saggio di redazione
L’etimologia del termine «biotecnologia» risiede nelle tre parole greche βίος, λόγος e τέχνη («vita», «parola», «arte») e può essere interpretato come l’applicazione delle conoscenze in campo tecnologico alla biologia, la scienza che studia la vita.
Una definizione chiara e completa è quella formulata e adottata dalla Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), trattato ratificato nel 1992 durante il Summit mondiale dei Capi di Stato a Rio de Janeiro per la tutela delle biodiversità: Biotechnology means any technological application that uses biological systems, living organisms, or derivatives thereof, to make or modify products or processes for specific use («Biotecnologia è qualsiasi applicazione tecnologica che utilizza i sistemi biologici, gli organismi viventi o i derivati per produrre o modificare prodotti o processi per uno scopo specifico»).
Per quanto sia ritenuta una disciplina relativamente moderna, la biotecnologia, intesa come «produzione di beni e servizi mediante organismi viventi», ha origini molto antiche, preistoriche addirittura. Le prime forme di sintesi tra tecnica e biologia compaiono già diverse migliaia di anni prima di Cristo: sia nella zona mesopotamica, con l’introduzione di specie animali selezionate artificialmente al fine di migliorarne le prestazioni (prima forma di quella che oggi viene chiamata zootecnia); sia presso le popolazioni sumera babilonese ed egizia, alle quali era già noto l’utilizzo dei lieviti per la produzione di pane e birra.
Il vocabolo «biotecnologia» venne utilizzato per la prima volta nel 1919 dall’ingegnere ungherese Karl Ekery nell’opera Biotechnologie, in cui l’autore proponeva come soluzione all’imminente crisi alimentare che stava sconvolgendo l’Europa l’applicazione delle nuove scoperte dell’epoca in ambito tecnologico per il miglioramento delle culture agricole e della produzione di cibo su vasta scala.
Per avere per primo intuito la necessità di tali innovazioni, Ekery viene ritenuto uno dei padri fondatori della biotecnologia, assieme al chimico e microbiologo francese Louis Pasteur. Quest’ultimo, durante la seconda metà del XX secolo, scoprì le cause dei processi fermentativi (sino ad allora ritenuti semplicemente chimici e, in realtà, adducibili a microrganismi classificabili in anaerobici ed aerobici) e realizzò il vaccino per la rabbia, selezionando i virus mutanti della malattia che avevano perso efficacia nei confronti dell’uomo.
Divincolatesi nel corso dei decenni – grazie alle numerose scoperte in ambito scientifico – dalle finalità prettamente agro-alimentari, le biotecnologie trovano ormai importante e fondamentale applicazione nei settori più importanti delle scienze moderne e sono state classificate secondo un principio cromatico in tre categorie (non nettamente distinguibili, poiché i risultati dell’una spesso influenzano i campi di applicazione delle altre): la biotecnologia Rossa, la Bianca e la Verde. Accanto a tale differenziazione canonica appaiono inoltre due ulteriori specializzazioni: la biotecnologia Blu, che riguarda lo sviluppo delle tecniche nel campo marino e oceanografico (come la produzione di additivi alimentari usando sostanze provenienti dal mare); e la bioinformatica, o biologia computazionale, che applica le moderne tecnologie informatiche nell’analisi di problemi di natura biologica.
La biotecnologia Rossa
La biotecnologia Rossa interessa il settore delle biotecnologie applicate in campo medico e farmaceutico per la cura della salute umana. Essa si occupa sia dello sviluppo di tecniche innovative di diagnosi e cura di malattie rare o attualmente non curabili attraverso la terapia genica (studio e manipolazione di DNA da inserire all’interno degli individui affetti da patologie); sia della produzione di farmaci sintetici utilizzando microrganismi modificati geneticamente. Vantaggi, oltre all’evidente possibilità di trattare malattie altrimenti non risolvibili, sono la sensibile riduzione di tempi e costi nella realizzazione di medicinali ingegnerizzati.
La biotecnologia Bianca
È il settore dedicato ai processi industriali. Le sue applicazione risiedono sia nell’ambito delle tecnologie ambientali, chimiche, cartarie, cosmetiche, tessili, minerarie (l’utilizzo degli enzimi permette una più facile e meno dispendiosa – dal punto di vista energetico – decomposizione dei materiali) sia in quello dell’industria alimentare e dei mangimi animali.
Permettendo un consumo di risorse (non solo di materie prime ma anche economiche) molto inferiore rispetto alle tecnologie industriali tradizionali quello delle biotecnologie bianche è un settore in forte ascesa. Particolare interesse ricopre per esempio la produzione dei biocarburanti, ottenuti da sostanze di origine vegetale (biomasse di scarto come grano o mais) convertite in zuccheri (base dei processi fermentativi). Nonostante innumerevoli siano i vantaggi derivanti dall’utilizzo di biobenzina e biodiesel (come i costi di produzioni ridottissimi, l’assenza di emissioni tossiche di CO2 nell’atmosfera, la biodegradabilità e la fine della dipendenza dalle sempre più care e scarse risorse petrolifere), i biocarburanti sono bersaglio di controverse critiche.
La realizzazione delle grandi quantità di carburanti ecologici richieste per il soddisfacimento della necessità su scala mondiale, infatti, è accusata di aggravare il problema della fame e della povertà nel mondo. I detrattori li riterrebbero responsabili sia dell’innalzamento incontrollato dei prezzi delle materie prime cerealicole, sia dello sfruttamento (per la coltivazione di mais e granturco) di enormi appezzamenti di terra altrimenti destinati, sia dell’utilizzo delle derrate alimentari necessarie al fabbisogno di popolazioni intere.
La biotecnologia Verde o agrobiotecnologia
Ultima, ma non per importanza, è la branca applicata al settore agricolo e zootecnico per la produzione di specie sia animali sia vegetali geneticamente migliori (comunemente detti OGM): in grado, cioè, di essere resistenti agli agenti esterni chimico-ambientali (per esempio piante che permettano raccolti più abbondanti e di accresciuta qualità; oppure resistenti a pesticidi aggressivi, a condizioni atmosferico ambienti inospitali e a parassiti particolarmente infestanti).
Al pari della bianca anche le innovazioni della biotecnologia verde hanno dato origine a discussioni di tipo etico-scientifico. Mentre da una parte si lodano i miglioramenti introdotti nelle colture e nella produzione alimentare, dall’altra si depreca l’utilizzo degli organismi geneticamente modificati dei quali si contesta l’impossibilità di prevedere sia l’impatto a livello ambientale sia gli effetti sulla salute umana a lungo termine.
OGM
Sono chiamati «organismi geneticamente modificati» gli organismi non esistenti in natura ma ottenuti mediante tecniche di ricombinazione di materiale genetico. Le metodologie comunemente utilizzate e riconosciute per la produzione di organismi transgenici sono l’introduzione di vettori di DNA e RNA nell’organismo di interesse, l’introduzione diretta di materiale genetico preparato esternamente e la fusione artificiale cellulare.
Per sedare l’annoso ed irrisolto dibattito sorto intorno all’utilizzazione di tali prodotti e per introdurre una regolamentazione che tenga conto sia dei benefici sia dei rischi che tali procedimenti comportano, le legislazioni di tutti i Paesi si sono espresse rifacendosi ai principi in tema di biosicurezza sanciti nel Protocollo di Cartagena, approvato definitivamente in Canada il 29 maggio del 2000, il cui principale obiettivo è la protezione delle biodiversità esistenti in natura minacciate dall’introduzione degli OGM. In Europa, invece, le linee guida riguardo l’utilizzo degli OGM sono contenute all’interno della Direttiva sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati 2001/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 marzo del 2001 che «mira principalmente a rendere più efficace e trasparente la procedura prevista per autorizzare l’emissione deliberata nell’ambiente e l’immissione in commercio degli organismi geneticamente modificati (OGM), a limitare l’autorizzazione a un periodo di dieci anni, rinnovabile, e ad introdurre un controllo obbligatorio dopo l’immissione in commercio degli OGM. Essa prevede anche una metodologia comune per effettuare la valutazione dei rischi connessi all’emissione degli OGM nell’ambiente (i principi applicabili alla valutazione dei rischi ambientali sono contenuti nell’allegato II della direttiva) e un meccanismo che permette di modificare, sospendere o cessare l’emissione degli OGM nell’ambiente qualora si disponga di nuove informazioni sui rischi connessi».
L’ingegneria genetica
Punto di unione di tutte le biotecnologie è rappresentato dall’ingegneria genetica, che svolge un ruolo chiave nello sviluppo e nel progresso delle tecniche descritte. Scientificamente chiamata «tecnica del DNA ricombinante», il fine dell’ingegneria genetica è la creazione di nuove caratteristiche all’interno di individui che altrimenti non sarebbero in grado di produrre naturalmente.
Le tecniche messe a punto dagli scienziati permettono di manipolare e persino di modificare materiale genetico da inserire all’interno di cellule eterologhe riceventi affinché sviluppino le caratteristiche volute. Possono essere mescolati tra loro addirittura patrimoni genetici appartenenti a classi vegetali con quelli appartenenti a classi animali, superando le barriere imposte dalla natura e dando origine a organismi mai visti prima.
Storicamente si è soliti far coincidere la nascita dell’ingegneria genetica con la scoperta degli enzimi di restrizione fatta dagli scienziati Danile Nathans, Werner Arber e Hamilton Smith, premi Nobel per la medicina del 1978.
Chiamati «Desossiribonucleasi di tipo II» (quelli di tipo I e III sono poco utili nelle tecniche genetiche poiché danno origine a reazioni incontrollabili e necessitano di troppa energia per effettuare le manipolazioni per le quali vengono utilizzati) questi enzimi, che sono di origine batterica, sezionano il DNA, mediante un processo noto come idrolisi, in punti determinati della sequenza e danno origine a molecole più corte estremamente maneggiabili e ricombinabili che vengono utilizzate per il clonaggio molecolare. I desossiribonucleasi assieme a particolari molecole chiamate «ligasi», che permettono l’unione delle estremità coesive dei filamenti di materiale genetico ottenuto, rappresentano le tecnologie basilari per le tecniche di DNA ricombinante.
Il primo farmaco ottenuto tramite l’ingegnerizzazione è stato nel 1982 l’insulina sintetica seguita dalla produzione in laboratorio dell’ormone della crescita e nel 1986 dalla produzione di un vaccino contro l’epatite B. Le più interessanti applicazioni dell’ingegneria genetica sono la clonazione e, a essa connessa, l’utilizzo delle cellule staminali.
Le cellule staminali
Le cellule staminali sono cellule allo stadio iniziale, non ancora specializzate e che non ricoprono nessuna attività in particolare; possono però riprodursi identiche a loro stesse mediante scissione cellulare un numero indefinito di volte e possono tramutarsi se sottoposte a stimoli particolari in qualsiasi altra cellula del corpo.
In base al livello di capacità di trasformazione di cui godono sono distinguibili quattro differenti tipologie: cellule staminali totipotenti (possono diventare qualsiasi tipo di cellula), pluripotenti (possono diventare solamente cellule adulte), multipotenti (si trasformano solo in alcuni tipi di cellule), unipotenti (trasformabili in un unico tipo di cellula). Una ulteriore specializzazione avviene tra cellule staminali adulte (specifiche cioè per il mantenimento dei tessuti nei quali si trovano ma di capacità limitate e poco versatili) e cellule staminali embrionali (estratte dagli embrioni entro i primi 14 giorni dalla fecondazione, totipotenti e coltivabili in vitro).
A loro volta le embrionali vengono chiamate «eterologhe» se estratte dagli embrioni sovrannumerari conservati nelle cliniche della fertilità (in Italia non è consentito, mentre lo è in Inghilterra) e «autologhe» quando sono frutto di clonazione terapeutica.
La clonazione
La clonazione, le cui prime sperimentazioni sono iniziate nel 1938 culminando con la nascita nel 1997 del primo essere umano clonato (la famosa pecora Dolly), è la creazione asessuata di un individuo geneticamente identico al donatore della cellula tramite la riproduzione di microrganismi unicellulari. Tecnicamente il nucleo di una qualsiasi cellula dell’individuo da clonare, sottoposto a coltura e riprodotto, viene fuso con un ovocita (cellula uovo femminile) non fertilizzato ed enucleato del donatore.
Qualora la cellula ottenuta venga impiantata in un utero dando origine a un essere vivente, si parla di clonazione riproduttiva; qualora, invece, venga utilizzata per la produzione di staminali, si parla di clonazione terapeutica (tecnica in grado di curare malattie ancora incurabili dovute a degenerazione cellulari e utilizzata nelle operazioni di trapianto, poiché permette la creazione di organi quasi immuni dal rischio di rigetto).
Anche l’utilizzo di cellule staminali embrionali ha destato critiche e forti opposizioni, non riguardanti l’applicazione bensì concernenti le modalità di ottenimento delle cellule in questione: l’embrione utilizzato, infatti, è da molti ritenuto non un semplice insieme cellulare ma un essere umano a tutti gli effetti allo stadio iniziale, da tutelare e non utilizzabile per finalità scientifiche. Una delle soluzioni proposte per conciliare le questioni etiche e scientifiche è quella definita nel Rapporto Dulbecco, che descrive una tecnica chiamata TNSA (trasferimento nucleare di staminali autologhe): si trasferisce cioè il nucleo di una cellula in un ovocita enucleato ma non fecondato che, differentemente dagli ovociti della clonazione classica, non è in grado autonomamente di dare origine a un embrione, rendendo inoltre possibile l’uso di citoplasmi artificiali e non più solo femminili.
La bioetica
Il veloce progresso degli ultimi decenni delle biotecnologie, soprattutto in campo medico, ha introdotto non pochi problemi di carattere etico dando origine a un delicatissimo dibattito riguardo a ciò che può ritenersi moralmente accettabile e lecito perseguire e a cosa invece sia lesivo non solo della salute ma anche della dignità umana.
Le differenti correnti di pensiero che ne derivano sono difficilmente conciliabili e spaziano dai diktat imposti dalla morale religiosa, allo scetticismo nei confronti dell’uso di organismi modificati (il cui impatto ambientale e sulla salute umana non sempre è verificabile aprioristicamente), sino alle politiche indisciplinate e lesive di società interessate a perseguire esclusivamente un proprio tornaconto economico. Per dirimere queste questioni e proporre un modello di sviluppo improntato a valori laici di etica e moralità è nata la bioetica, vale a dire «lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito della scienza della vita e della cura della salute».
Tale disciplina si propone di esaminare le questioni proposte sotto differenti punti di vista, proponendo un approccio risolutivo di critica e discussione, non più riservato solamente agli addetti ai lavori ma all’intera comunità. Alcuni governi nazionali, per esempio, dispongono di organi dedicati alla soluzione delle controversie legate alla bioetica e anche l’Italia ha istituito un Comitato nazionale per la bioetica, la cui funzione è quella di «orientare gli strumenti legislativi ed amministrativi volti a definire i criteri da utilizzare nella pratica medica e biologica per tutelare i diritti umani ed evitare gli abusi. Il Comitato ha inoltre il compito di garantire una corretta informazione dell’opinione pubblica sugli aspetti problematici e sulle implicazioni dei trattamenti terapeutici, delle tecniche diagnostiche e dei progressi delle scienze biomediche».
Nonostante la bontà delle intenzioni del proliferare dei comitati di bioetica, anch’essi sono oggetto di critiche da parte di chi vede un pericolo nella eccessiva burocratizzazione delle strutture e nella elezione dei membri su base governativa. I comitati così formati risulterebbero non più autonomi bensì veicolati e sottoposti ai principi delle maggioranze che li hanno formati.