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Lo sviluppo sostenibile

Tutti gli studi sono ormai concordi nel sostenere l’esigenza di una drastica

Tutti gli studi sono ormai concordi nel sostenere l’esigenza di una drastica riduzione delle emissioni di gas serra, responsabili del riscaldamento globale che sta inesorabilmente mutando l’equilibrio climatico della Terra. Ma c’è un problema: quelle emissioni non sono altro che il risultato dell’attività umana.
Un’attività che, in questi ultimi anni, si è fatta particolarmente frenetica. Riusciremo a conservare la salute del pianeta con un tasso di crescita economica mondiale vicino al 5%?

Le manifestazioni di disordinati e sempre più incontrollabili cambiamenti climatici sono ormai sotto gli occhi di tutti. Fa sempre più caldo e sempre più spesso. Aumentano le inondazioni e i casi di siccità. Catastrofi naturali e fenomeni di malnutrizione si diffondono un po’ ovunque.

Sono sempre più frequenti i casi di malattie diffuse da vettori animali: è il caso, in America Latina, dell’anomalo tasso di riproduzione delle zanzare portatrici di dengue, febbre emorragica che può portare anche alla morte chi ne viene colpito. Ma i mutamenti climatici possono essere anche causa di guerre per il controllo delle risorse. È il caso del Darfur, dove il cambiamento del clima globale ha peggiorato la qualità del suolo, riducendo la disponibilità idrica e la coperture forestale (che arretra ormai a un ritmo dell’1,2% annuo). Molte regioni del Sudan, del resto, hanno visto una caduta dei raccolti del 70% e si prevede che nei prossimi 5 anni il Paese avrà bisogno di 120 milioni di dollari da investire nella gestione ambientale.

Per cercare di affrontare questi problemi, il 16 febbraio 2005 è entrato in vigore il Protocollo di Kyoto. Il documento, adottato nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, impone ai Paesi aderenti una diminuzione sostanziale delle emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane. Come limite temporale per il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione delle emissioni è stato fissato il 2012. Ciascun Paese aderente si è attribuito una percentuale di riduzione non inferiore al 5,2% (rispetto ai livelli dal 1990): l’Italia, ad esempio, ha assunto l’impegno di ridurre le proprie emissioni del 6,5%. Ogni Paese, tuttavia, potrà acquistare quote di emissioni di gas serra da altri Paesi, in maniera di armonizzare l’impegno di riduzione con le esigenze di sviluppo industriale, che sono, ovviamente, diverse da Stato a Stato. Tra i Paesi che, invece, hanno rifiutato di sottoscrivere il Protocollo figurano gli Stati Uniti (che sono responsabili del 36,1% del totale delle emissioni), l’Australia, la Croazia, il Kazakistan, la Cina, l’India, l’Indonesia e il Brasile. Il fatto è preoccupante: si stima, infatti, che entro il 2030 i Paesi in via di sviluppo saranno in grado di produrre da soli circa il 50% del totale delle emissioni.

Ma la «defezione» dei Paesi in via di sviluppo non è il solo ostacolo al raggiungimento degli obiettivi previsti dal Protocollo di Kyoto. I ritardi e gli adempimenti dei Paesi occidentali (che, da soli, producono il 77% delle emissioni mondiali) ha infatti messo all’ordine del giorno la necessità di ridefinire su nuove basi gli accordi sul clima. Al di là di un generico impegno alla riduzione delle emissioni e al maggiore impiego di energie rinnovabili, quindi, l’orientamento prevalente sembra essere piuttosto quello che punta sull’innovazione tecnologica: «carbone pulito», cattura del carbonio, eolico offshore, agro-carburanti, idrogeno. Il neo di queste tecnologie, tuttavia, sta nel fatto che richiedono decine di anni prima di essere compiutamente sviluppate.