Paolo Caliari, detto Veronese, nacque a Verona in contrada San Paolo, nel 1528.
Paolo Caliari, detto Veronese, nacque a Verona in contrada San Paolo, nel 1528. Verona era in pieno fiorire artistico ma, ormai sottomessa a Venezia, era divenuta una città di provincia. In un primo momento il piccolo Paolo (1541) lavorò a bottega dal pittore Antonio Badile in Verona.
L’inizio del secolo era stato il tempo in cui operavano grandi artisti come Bramante, Leonardo da Vinci, Raffaello e Michelangelo che, con la sua opera e la sua vita longeva, influenzò tutto il secolo fornendo soluzioni artistiche anche per il secolo successivo.
Certamente Paolo Veronese risentì dell’influenza di questi grandi artisti trasmessagli dalle elaborazioni che di questi elementi aveva visto a Mantova, Parma ecc. Veronese arrivò a Venezia immersa nel clima artistico di Tiziano, che lo apprezzò subito e lo valorizzò, e del più giovane Iacopo Tintoretto. Nel 1551 affrescò la villa Soranzo a Treville di Castelfranco, incarico affidatogli da Sanmicheli, architetto che l’aveva costruita. Dal 1553 iniziò a dipingere alcuni ambienti di palazzo Ducale con Battista Zelotti (sala del Consiglio dei Dieci). Nel 1555 fissò la bottega a Venezia e iniziò la decorazione di San Sebastiano che durò quindici anni, mentre nel 1556 fu premiato da Tiziano in persona (con una collana d’oro) per la decorazione della libreria Marciana.
Nel 1560 visitò Roma. Intorno al 1561 eseguì il ciclo di affreschi di villa Barbaro a Maser, con una decorazione aperta su spazi illusionistici con porte e finestre che allargano l’architettura già luminosa e chiara di Palladio.
Nel 1566 sposò Elena Badile, dalla quale ebbe molti figli che seguirono tutti la sua professione.
Nel 1563 dipinse le Nozze di Cana per il refettorio dei benedettini di San Giorgio Maggiore a Venezia, ora al Louvre, in cui si ritrasse insieme con il fratello Benedetto e i colleghi Tiziano e Tintoretto.
Nel 1573 dipinse un’Ultima cena (titolo convertito in Convito in casa di Levi) per i domenicani dei Santi Giovanni e Paolo.
Dal 1575 al 1577 realizzò dipinti per la sala del Collegio in palazzo Ducale e per la sala del Maggior Consiglio.
Nel 1588 dipinse l’Annunciazione (Escorial), la Maddalena del Prado e il Trionfo di Venezia per la Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale.
Nel 1588 morì a Venezia.
L’opera presentata in questa ricerca, eseguita dal pittore Paolo Caliari detto Veronese e custodita presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia, è un’Ultima cena dipinta per il refettorio del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, successivamente denominata Convito in casa di Levi per le ragioni che spiegheremo più avanti. Il quadro, realizzato nel 1573, si colloca perfettamente nell’ambiente e nella cultura veneziana della seconda metà del Cinquecento.
Ambiente culturale. La committenza
L’ambiente veneto della metà del Cinquecento in cui si trova a lavorare Veronese è caratterizzato da una notevole vivacità culturale. Venezia, dopo l’invenzione di Gutenberg, è nodo di scambio e riferimento centrale per l’editoria e si trova in un momento di notevole impegno nella produzione teatrale e di massimo splendore nella pittura e nell’architettura. Dopo Giovanni Bellini e Giorgione, lavorano a Venezia Tiziano e Iacopo Tintoretto e architetti come Michele Sanmicheli, Iacopo Sansovino e Andrea Palladio. Con il Cinquecento, in realtà, inizia per Venezia, economicamente e politicamente, la decadenza dopo gli splendori del secolo precedente. La sua influenza politica ed economica diventa sempre più debole: lo spostamento dei traffici economici dal Mediterraneo all’Atlantico, dopo la scoperta delle Americhe, la pressione dei turchi, la crisi monetaria comune a tutta l’Europa ne sono le cause. Ma è una decadenza lenta, quasi inavvertibile, che non tocca per il momento i privilegi delle classi emergenti; Venezia mantiene il prestigio rispetto alle altre potenze italiane e straniere e la considerazione della Chiesa di Roma, specie dopo la battaglia di Lepanto (1571), dovuta in gran parte allo sforzo della sua marina militare. Venezia è sempre la città più ricca d’Italia e resiste validamente alle avversità. La classe dirigente è ricca e potente, è educata all’arte, colloquia con gli artisti con i quali intesse scambi culturali.
Veronese riflette, interpreta ed esalta gli ideali e lo stile di vita di questa società ricca e colta. Egli è interprete dell’apertura intellettuale e del civile modo di vita che fanno della società veneziana in tempo di conformismo moralistico la società più libera e culturalmente avanzata d’Italia.
Il quadro
Si tratta di un rettangolo molto allungato delle dimensioni di m 12,80 x 5,50. La tecnica è a olio; il supporto è di tela.
La perfetta conservazione di questa opera e in generale delle tele di Veronese ci fa riflettere sulla sua perizia tecnica. I suoi dipinti infatti mantengono nel tempo i loro smaglianti colori; le sue tele, anche staccate dalla intelaiatura e arrotolate, non subiscono danni o screpolature come avviene per pitture anche meno antiche di altri pittori.
L’opera
Questo telero, dipinto come un’Ultima cena, fu ultimato nell’aprile 1573 ed esposto in pubblico in occasione della festa dell’ascensione. Il tema con la descrizione del banchetto è uno dei soggetti preferiti da Veronese ed evidentemente dai suoi contemporanei che in varie occasioni glieli commissionano.
Veronese con questi favolosi festini profani riusciva a sperimentare la sua tendenza alla ritrattistica: molti sono i ritratti che si celano sotto i vari personaggi, componendo stupende policromie d’insieme impostate in grandiosi impianti scenografici che richiamano scene teatrali di grande respiro. Nel crepuscolo del periodo d’oro di Venezia, mentre avanzano le ombre della decadenza, egli realizza in immagini nitide e fastose la descrizione di una civiltà tra le più splendide di quante si siano affacciate sul Mediterraneo.
Personaggi
I personaggi sono molteplici: si aggiungono a quelli tradizionali presenti nell’Ultima cena ben trentacinque figure estranee introdotte senza alcun preciso riferimento al soggetto specifico.
È rappresentato un banchetto che sembra svolgersi in una delle tante ville venete; il pittore moltiplica i particolari, gli ornamenti, applica la logica del suo tempo al racconto di una storia antica. Ma c’è una ragione puramente pittorica che guida l’artista: attraverso la collocazione di tutti questi personaggi, vestiti in modo così vario, egli riesce a comporre con il colore e a sviluppare modulazioni e gamme cromatiche tra le più audaci.
Alle domande dell’inquisitore su questa varietà inconsueta di personaggi per un’Ultima cena: «Chi credete voi veramente che si trovasse in quella cena?», egli risponde: «Credo si trovasse Cristo e li suoi apostoli, ma se in un quadro avanza spazio, io l’adorno di figure secondo invenzione». Tutto ha una concretezza e un realismo impressionanti. Ogni particolare è rubato al vero, i personaggi sono rappresentati nell’atto di compiere azioni quotidiane eppure reali nella loro consistenza: per esempio san Pietro che divide l’agnello nel piatto di Gesù, il commensale che si pulisce i denti con la forchetta, il servo con il fazzoletto in mano (era rappresentato, prima del processo dell’Inquisizione, con il sangue al naso). Ognuno è assorto nel suo gesto, nella sua azione e sembra badare ai fatti suoi senza riferimento e rapporto con gli altri. In questo loro agire sul quotidiano, nell’immediato danno idea di una grande e calma serenità. Il mondo di Veronese (anche nel racconto di soggetti più drammatici) conosce raramente il dramma, la brutalità, la decadenza, che sono propri della situazione umana.
Spiritualmente, i suoi personaggi hanno l’aria di vivere in una dimensione e atmosfera diversa da quella quotidiana; la loro calma e serenità è simile all’imperturbabilità delle divinità olimpiche di cui favoleggiavano gli antichi. Veronese ha spesso dipinto con lo stesso spirito figure e personaggi del mito greco e latino o episodi biblici o allegorie di Venezia o su Venezia (palazzo Ducale). I loro gesti sono ampi e imponenti, le loro vesti sontuose e drappeggiate.
Composizione
La composizione ha una sua impostazione perfettamente simmetrica rispetto a un immaginario asse verticale che taglia al centro l’arco centrale dello scenario architettonico. L’immagine del Cristo è collocata in corrispondenza di questo asse e si configura come punto focale, polo di attenzione dell’intera scena.
Il ritmo incalzante delle figure, raccolte in grandi masse, si distende e si apre vicino a questa figura centrale isolandola in un momento di pausa. Ma tutta questa scompostezza, disordine di movimenti, «rumore» che rappresentano una vitalità del tutto umana, implicita in un banchetto di tali dimensioni, viene riassorbita e sublimata nell’ordine e nella maestà delle tre arcate dell’ambiente ideato come spazio contenitore.
La scena implica vari piani di profondità che vengono schiacciati verso il fondo; le figure sono viste dal basso, al limite dello spazio: stagliate sull’infinita luminosità del cielo. Questo effetto, creato dalla particolare impostazione prospettica (vista dal basso), è una caratteristica di molte opere di Veronese.
Lo spazio
Tutta la struttura è quindi racchiusa in un’architettura di ampie e nobili proporzioni che non serve solo a raccordare il primo piano con il fondo, ma che dà forma e figura allo spazio compositivo e ne regola le luci. Le opere di Veronese spesso sono inserite in queste possenti architetture che ripropongono antichi motivi classici conferendo quindi nobiltà e aulicità a tutta la scena.
Lo spazio della rappresentazione va messo in relazione con il clima culturale che i massimi architetti operanti nell’ambiente veneto di quell’epoca avevano creato.
Proprio dagli architetti, con i quali ebbe frequenti contatti di lavoro, Veronese imparò ad ambientare i suoi quadri in grandiosi spazi architettonici che non somigliano a nulla di visto precedentemente, spazi ampi e favolosi in cui si muovono personaggi naturalissimi che compiono gesti di tutti i giorni. Egli aveva visto a Mantova le soluzioni prospettiche di Giulio Romano, pittore e architetto allievo di Raffaello, aveva conosciuto Sanmicheli che aveva lavorato a Roma in ambiente bramantesco, aveva sotto gli occhi i lavori di Sansovino, toscano trapiantato nel Veneto dopo il sacco di Roma, progettista della libreria Marciana che Veronese decorò nel 1556-57. Ma soprattutto con il Palladio il pittore stringe rapporti di amicizia nella collaborazione fruttifera di villa Barbaro a Maser (Treviso).
Questo vitale rapporto con i massimi architetti della sua epoca ebbe per Veronese valore decisivo poiché lo inserì nel vivo di quel movimento di comprensione e diffusione degli ideali classici che riaffiora nelle composizioni monumentali di più ampia dimensione del pittore e specialmente nelle cene.
Il colore
Per Veronese il colore è tanto importante che si può dire che le superfici dei suoi quadri sono un puro contesto cromatico: un’atmosfera che ci ricorda Piero della Francesca che con questo chiarore crea effetti di irrealtà come di un mondo fuori dal tempo, mentre in Veronese assistiamo a una vera e propria esaltazione della realtà.
In questa luce argentea si articolano le tinte veronesi pure e squillanti: le gamme dei gialli, dei rossi e rosati, dei verdi, dell’azzurro che va dal cilestrino al turchino, al blu notte. La tavolozza è sempre splendida con toni argentei ed effetti cangianti dei fastosi panneggi. Alla ricchezza dei colori si aggiunge il gioco dei contrasti. Egli infatti intuisce che i colori non hanno solo valore proprio, ma s’influenzano a vicenda, e crea quindi accostamenti cromatici dagli effetti raffinati e preziosi. Tutto contribuisce all’articolazione del colore: spesso i personaggi indossano vesti a righe o arabescate e i cieli sono solcati da strisce di nubi. Egli ha evidentemente studiato i mosaici bizantini con le loro radiazioni luminose ottenute con i frazionamenti delle tinte e la diversità minima delle tessere.
La luce
Molte sono le sorgenti luminose.
La luce argentea esterna penetra da ogni parte in questo spazio così aperto, creando vari effetti luminosi; non segue quindi regole naturali. I raggi sono indirizzati in modo che la luminosità strisci sulle superfici provocando riflessi iridescenti; essi sono diretti con accortezza in modo che ogni punto entri in brillantezza facendo dimenticare la sorgente luminosa.
Veronese esalta la pratica, già iniziata da altri pittori prima di lui, dell’ombra colorata: l’ombra si può ottenere infatti attenuando il colore, sbiadendolo anziché scurendolo o annerendolo.
Così la rappresentazione risulta molto più luminosa perché non vi sono zone buie, ma solo smorzate; per esempio le pieghe di una veste rossa diventano rosa antico, quelle di un manto azzurro, grigio-turchino. Inoltre, le ombre proiettate da un oggetto (ombre colorate) influenzano i toni su cui si posano modificandone il valore.
Conclusioni
La scena si svolge in un clima di irrealtà e a questo effetto concorrono vari fattori: la serenità olimpica dei personaggi non toccati dal dramma e dal peso della condizione umana, come potevano essere i personaggi possenti e terribili di Michelangelo; uno spazio aulico più favoleggiato in una visione nostalgica del mondo classico che concreta, reale; una spazialità ideale creata in funzione scenica, con scorci ed effetti prospettici illusionistici; l’incredibile varietà di toni e gamme cromatiche nitide e brillanti che campeggiano come gemme in un’atmosfera rarefatta e che hanno uno sfondo chiaro che si staglia su un cielo ancor più chiaro, che a sua volta si schiarisce quando le nuvole si squarciano. Un’atmosfera quindi di sogno nella quale si muovono e agiscono personaggi corposi e realistici, fortemente personalizzati: il signore, il servo, lo schiavo, il beone, l’apostolo, il negro e il musulmano, che compiono azioni quotidiane; animali veri, colti in atteggiamenti naturali (il gatto che fa le fusa sotto la tovaglia); oggetti reali e concreti; tutte descrizioni che provengono da una osservazione attenta e minuziosa del reale.
Tutto ciò evoca un mondo che non c’è stato né ci sarà mai e pure è tanto realisticamente visibile.
Il Veronese in realtà è il pittore che lega la olimpica classicità alla sua realtà di uomo, alla sua vita, senza astrarre e senza imporre significati troppo intellettuali, senza tormenti. Egli è il pittore perfettamente padrone dei mezzi e degli strumenti del mestiere.
Glossario
Telero. Grande tela dipinta.