Abbiamo visto quante parole straniere facciano ormai parte del nostro linguaggio quotidiano…
Abbiamo visto quante parole straniere facciano ormai parte del nostro linguaggio quotidiano: parole che adoperiamo ogni giorno nella loro veste originaria, così come con assoluta disinvoltura usiamo prodotti di altri paesi o ascoltiamo notizie riguardanti il mondo intero. Nella lingua di ogni giorno non facciamo infatti che riflettere il nostro comportamento in tutti i campi: la lingua si rivela specchio della nostra storia non solo a livello dei grandi avvenimenti, ma anche dei più sottili mutamenti della realtà sociale, culturale e psicologica. E come la nostra storia è stata segnata dai rapporti con altre popolazioni, e tanti aspetti della loro cultura sono penetrati nella nostra al punto da non poterne essere più distinti col passare del tempo, così tante parole straniere, entrate in epoche diverse nell’italiano, vi si sono talmente adattate da non poter essere più riconosciute come aliene se non dagli addetti ai lavori.
Facciamo subito qualche esempio. Gioiello e giallo sono francesismi come bijou e bluette: la differenza consiste nel fatto che le prime due parole sono entrate nell’italiano nel XIV secolo, mentre le seconde sono di importazione recente e quindi conservano la loro forma originaria (gioiello proviene dall’antico francese joel, derivante dal latino iocalis da iocus «gioco, scherzo»; in francese moderno gioiello si dice invece bijou, da cui bijouterie, che in italiano ha assunto il significato di articoli di ornamento, gioielli di materiale non prezioso. Giallo, invece, è l’adattamento toscano dell’antico francese jalne (oggi jaune) che ha sostituito i vari termini latini con cui erano designate le diverse tonalità di giallo (flavus, luteus, gilvus).
Parole anche molto comuni rivelano origini esotiche
Federa, snello e palla sono anch’essi antichissimi prestiti, ma la loro origine è longobarda, mentre gondola è parola di origine neogreca, approdata a Venezia insieme ai bizantini: la forma della parola si spiega mediante l’incrocio del greco medievale kondûra, tipo di barca, e il verbo italiano «(d)ondola(re)».
Parole comunissime hanno un’origine ancora più esotica: ragazzo (nell’italiano antico «mozzo di stalla») ci viene dall’arabo raqqas, «corriere, messaggero» e ciabatta, prima di essere una calzatura dimessa e familiare, era il nome turco di una scarpa bassa di origine persiana (turco čabata, XIV secolo). Ma anche i nemici dei paladini di Francia, i mori, hanno lasciato le loro tracce nella nostra lingua. Gli arabismi rivelano i campi nei quali queste genti eccellevano: il commercio (dogana, magazzino, tariffa, quintale, rotolo, risma ecc.); la vita marinaresca (ammiraglio, dall’arabo amir, con suffisso probabilmente di origine francese; arsenale e darsena, entrambi derivanti dall’arabo dar-sina’a «fabbrica» e, in particolare, «fabbrica d’armi»; il primo si è diffuso da Venezia, il secondo da Genova); la chimica (alambicco, alcali, alchimia, elisir); la matematica (algebra, algoritmo, cifra e zero; questi ultimi due derivano entrambi dall’arabo šifr «nulla, zero» da cui, attraverso il latino zephŷrus, proviene anche l’italiano zefiro); l’astronomia (azimut, zenit, alcuni nomi di stelle, nonché la parola almanacco, dall’arabo al-manah, «il tempo», designante un’opera di carattere astronomico). Come vediamo, sono tutti termini che gli italiani usano da secoli e che fanno parte, a pieno titolo, del vocabolario della nostra lingua. Ma, come ha detto un illustre linguista, altro è il certificato di cittadinanza, altro è quello di nascita. In queste pagine cercheremo di risalire al certificato di nascita di alcune delle tantissime parole che, sin da tempi lontani, ci sono giunte da altre lingue, e di capire in che modo esse hanno assunto la cittadinanza italiana.
La storia linguistica italiana è legata alla storia politica e culturale dell’Europa
Nella maggior parte dei casi, la penetrazione di voci straniere nella nostra lingua è legata alle dominazioni politiche che l’Italia ha subito a partire dalla caduta dell’Impero romano. Così, dalla lingua dei goti sono entrate voci connesse con la vita militare come bando, guardia, elmo (anche guerra è di origine germanica, e la sua sostituzione al latino bellum è quasi specchio del predominio militare dei barbari sui romani). Albergo, oggi parola pacifica, è anch’esso un termine militare gotico (haribaìrg, «alloggio per l’esercito»). Non bisogna però pensare che le popolazioni germaniche in Italia facessero solo la guerra: ne sono una prova termini relativi alla sfera della vita domestica come fiasco, nastro, stanza, di origine gotica, e stamberga, panca, scaffale, gruccia,
spranga, di origine longobarda. Il loro saldo inserimento nella lingua quotidiana dell’epoca e la loro sopravvivenza mostrano quanto forte sia stata l’osmosi fra vincitori e vinti, provata del resto anche da decine di nomi propri di persona di origine germanica affermatisi in italiano: Guglielmo, Roberto, Carlo, Bernardo e, da Ludwig, Luigi o Ludovico.
Venendo ad epoche più recenti, scopriamo i dati anagrafici di altre parole che oggi saremmo pronti a definire italianissime. Molte di esse, di origine francese, rivelano la loro connessione con usi e costumi tipicamente medievali. Ricordano l’abitudine ai lunghi pellegrinaggi viaggio, oste e ostello: viaggio deriva probabilmente dall’antico francese veiage o dal provenzale viatge, risalenti entrambi al latino viaticum, «denaro per il viaggio». Ciò dimostra che in quel contesto il viaggio comincia ad essere concepito, più che come «cammino» (latino iter), come impresa che necessita di una copertura economica. Ostello è entrato nel XIII-XIV secolo dall’antico francese ostel (moderno hôtel), che significava «stanza per ospiti» (dal latino tardo hospitale). Oggi dunque sopravvivono, con ben diversi significati, tre termini che hanno tutti la stessa etimologia remota: «ostello», «hotel» e «ospedale».
Cavaliere, conte, marchese, visconte, dama, damigella ci evocano invece l’ambiente delle corti feudali. Altre parole sono meno facilmente riconducibili a un contesto preciso, eppure sono parole importanti, dense di significato: abbandonare, agio, crucciare, gioia, mangiare, mestiere, orgoglio, preghiera, travaglio, coraggio. Quest’ultima ci viene dal provenzale coratge (francese courage), parola che si connette al latino cor, mettendo in evidenza il forte valore ideologico del cuore nella cultura cortese.
Col Cinquecento e col Seicento entrano in italiano voci legate allo stile di vita e ai costumi della splendida Spagna di quei secoli: baciamano, creanza, etichetta, ma anche fanfarone, buscare (dallo spagnolo buscar, «cercare», che venne inizialmente ad assumere nell’italiano il significato di «rubare, predare»), arrabattarsi (dallo spagnolo arrebatarse, «prendere con violenza», e questo da rebate, «rissa»).
Termine del linguaggio politico provenienti dal francese e dall’inglese
A partire dalla seconda metà del Seicento, ma soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, il grande prestigio che la Francia e l’Inghilterra vengono ad acquisire nel mondo della cultura e in campo sociale, politico ed economico, incide fortemente sulla storia anche linguistica dell’Europa del tempo. Numerosissimi sono ad esempio i termini del linguaggio politico che l’italiano ha acquisito in questi secoli dal francese e dall’inglese. Allo sviluppo della vita e delle istituzioni parlamentari inglesi nel Settecento sono connesse parole come costituzione, coalizione, commissione, comitato (potere) esecutivo, legislatura, mozione, opposizione, sciogliere il parlamento. Molte di queste parole ci sono giunte però attraverso la mediazione francese. Nel secolo successivo, sempre dall’Inghilterra ci giungono voci come assenteismo (parola connessa originariamente al comportamento dei proprietari terrieri che vivevano lontani dalle loro tenute, e in particolare dei possessori di feudi in Irlanda), conservatore, boicottare (dall’inglese to boycott, derivante dal nome del capitano J. Boycott, amministratore terriero in Irlanda, che, odiato per la sua severità, fu messo nell’impossibilità di fare il raccolto e costretto così ad andarsene), ostruzionismo (termine riferito alla tattica adottata nel 1879-80 dai deputati irlandesi nel parlamento britannico per impedirne il regolare funzionamento). Piattaforma (col significato di «programma di un partito politico») ci viene invece dalla vita politica americana della fine dell’Ottocento. Dalla Francia giacobina ci sono giunti, oltre agli scontati rivoluzionario, controrivoluzionario, anarchismo, terrorismo, terrorista, anche i nomi delle nuove unità di misura che essa impose: centimetro, decimetro, chilometro, grammo, chilogrammo ecc. Altre voci riguardano invece la sfera economica: avallo, fondiario, tasso, montante. Più tardi, nell’Ottocento, entrano termini legati a nuovi stili politici: autoritario, autoritarismo, colpo di stato, dinamitardo, comunismo, comunista (questi ultimi connessi entrambi alle prime esperienze socialiste della Comune di Parigi).
Voci della sfera giuridico-amministrativa
Fortissima fu anche l’influenza francese nella sfera giuridica e amministrativa, dove le trasformazioni introdotte dalla rivoluzione e diffuse da Napoleone sono all’origine di una grande quantità di parole, come funzionario, vidimare, centralizzare, destituire, dimissioni, appello (nominale), votazione, procedura, processo verbale. Al consolidarsi della burocrazia (anche questo è un francesismo) e della sfera amministrativa nell’Ottocento, risalgono invece termini come controllo, lasciapassare, nazionalizzare, timbro.
L’influenza francese e inglese non si fece sentire solo nella sfera pubblica e amministrativa, ma investì, come abbiamo accennato, i campi più diversi della cultura e della vita quotidiana. Nel Seicento entrano voci come ovatta, pipa, stoffa, azzardo o espressioni come fare il diavolo a quattro, mettere sul tappeto, valer la pena. Nel secolo successivo, accanto a parole di origine colta come analisi, aneddoto, elettrizzare (in senso proprio e figurato), progresso, industria (come lavorazione delle materie prime), entrano parole ed espressioni di uso comune come capoluogo, debosciato, damigiana, papà (attestata prima nei dialetti, poi nell’italiano), a sangue freddo, colpo di mano, colpo d’occhio. Per l’Ottocento è da segnalare anche la comparsa di voci connesse allo sviluppo tecnologico e scientifico: automobile (come aggettivo, unito a vettura), funicolare, furgone, pastorizzare, vaccinare.
Tutte le parole e le espressioni che abbiamo fin qui citato hanno, come vediamo, una forma totalmente italiana: si sono cioè completamente adattate ai suoni e alle regole grammaticali della nostra lingua, a differenza di quanto è accaduto per altre parole che, come abbiamo visto, sono entrate in Italia nella loro veste straniera.
Da cosa dipende questo diverso modo di accogliere le parole straniere? Come reagiscono le parole native all’introduzione di queste parole straniere più o meno naturalizzate? Con quali modalità alcune di esse vengono ad assumere le sembianze di parole italiane?
La risposta alla prima domanda comporta innanzitutto un’osservazione di ordine cronologico: i termini stranieri entrati in veste originaria cominciano ad apparire nel corso del Novecento. Per quanto riguarda i tre secoli precedenti, si osserva come le parole conservate in forma originaria si lascino ricondurre quasi tutte a specifici settori culturali come la moda, l’arredamento, la gastronomia, i giochi, lo spettacolo, lo sport. Sono cioè parole che si connettono a una sfera che potremmo chiamare edonistica. Tutte le altre, quelle designanti ciò che è sentito come necessario e non di lusso, tendono a essere italianizzate. È quindi difficile individuare campi semantici e culturali compatti per questi prestiti: certamente hanno particolare evidenza i settori della vita pubblica organizzata e della scienza.
La libera circolazione delle parole
Sembra configurarsi a poco a poco nella storia della lingua una forma di precoce mercato comune, un’abolizione delle frontiere doganali che permette la libera circolazione di idee e istituzioni, così come delle parole che le designano. Ma ogni processo di liberalizzazione ha i suoi oppositori. Se alle frontiere sembrano scomparsi i doganieri, all’interno assistiamo, almeno all’inizio, allo scatenarsi di una polizia privata che indaga in modo quasi maniacale sulla fede di nascita dei nuovi cittadini cosmopoliti. Con questa immagine ci riferiamo al movimento purista che durante tutto l’Ottocento (ma ancora oggi questo atteggiamento non è del tutto scomparso) si impegnò nella (vana) battaglia contro le parole che non avevano i documenti in regola, e cioè che non risiedevano in Italia almeno dal Cinquecento, se non addirittura dai tempi di Dante e del Petrarca.
Questo ci permette di rispondere alla seconda domanda, e cioè di descrivere i rapporti fra le parole italiane e le straniere che in numero sempre maggiore venivano ad affiancarsi ad esse, e in certi casi a sostituirle. Facciamo qualche esempio, citando alcuni casi di francesismi rifiutati dai puristi ottocenteschi.
Prendiamo funzionario: il suo uso veniva condannato in quanto si sosteneva che l’italiano disponeva già di tutta una serie di parole che coprivano il significato di questo termine (giudice, consigliere, pretore, prefetto, segretario ecc.). Ora, se è vero che ciascuna di queste parole designa un tipo di funzionario, è pur vero che, con l’affermarsi del sistema burocratico, si era resa necessaria una voce a cui ricorrere per riferirsi a questa nuova figura in maniera generale. Un caso analogo è quello di articolo, col significato generico di «prodotto commerciale»: in sostituzione si proponeva l’uso di parole come «derrate», «suppellettili», «viveri», «abiti» ecc., dimenticando le esigenze di un’organizzazione commerciale che ormai prescindeva dai limiti del tipo di merce trattata. Con coalizione, rifiutato in favore dei tradizionali «lega» o «unione», ci troviamo di fronte a un caso un po’ diverso. La parola di origine francese designa infatti non una generica unione, ma «l’unione fra gruppi, partiti o stati per il conseguimento di obiettivi comuni»: essa possiede quindi un significato più tecnico e specifico di «lega». Analoghi a questo sono alcuni casi di parole italiane che, in tempi più recenti, hanno acquisito dalle sorelle straniere un significato tecnico e specifico accanto a quello, più generico, che già possedevano. Così, per esempio, piattaforma, già presente nell’italiano col significato di «superficie piana di terreno o di materiale vario», ha assunto, come si è detto, dall’inglese d’America quello di «base programmatica di un’azione politica», e marcare, oltre al significato generico di «segnare, contrassegnare», ha tratto dall’inglese quello sportivo di «controllare un avversario attaccante».
Ci sono poi parole che, inseritesi in un’area di significato in cui erano già presenti altre voci italiane, se ne sono col tempo differenziate, venendo a designare delle realtà distinte. E il caso, ad esempio, di organismo, dal francese organisme, che è venuta ad affiancarsi a «ordine» e «vita» in senso politico e sociale (organismo civile, organismo politico), nonché a «corpo» in senso fisiologico (organismo animale, vegetale ecc.). Qui il successo del termine di origine francese è legato alla sua capacità di designare una forma strutturata.
Coesistenza di parole straniere e termini indigeni di significato affine
In altri casi, invece, parole di origine straniera sono rimaste nell’uso accanto ad altre italiane senza acquisire una designazione particolare, ma contribuendo semplicemente all’arricchimento delle capacità espressive della nostra lingua. Così, ben inteso, dal francese bien entendu, è comunemente usato come equivalente di «purché, a patto che, a condizione che» e constatare, dal francese constater, come sinonimo di «accertare, appurare».
Di particolare interesse sono anche quei casi in cui le voci straniere sono rimaste nella nostra lingua collocandosi, questa volta, su livelli di stile diversi da quelli italiani: ad esempio abituarsi, dal francese s’habituer, è forma molto più comune di «assuefarsi» e più colloquiale di «avvezzarsi» e «essere avvezzo», decisamente formali e letterari; lo stesso vale per aver l’onore di, dal francese avoir l’honneur de, espressione di più largo uso rispetto al formale «pregiarsi di». Con questi esempi di voci provenienti dal francese abbiamo esaminato casi di parole che, dopo aver vissuto una fase di conflittualità, hanno finito col trovare un proprio spazio e conquistare appieno la cittadinanza italiana. Ma lo stato di «guerra fredda» fra parole è una situazione normale e permanente nella storia di una lingua.
Inoltre, anche se può sembrare che l’introduzione di parole straniere crei dei doppioni con termini indigeni, si può notare che le parole immigrate si differenziano sempre, anche se di poco, nel loro significato. Ciò è dovuto sia al livello più o meno formale in cui si collocano, sia agli ambienti particolari in cui vengono adoperate o alla cui provenienza rimandano; né bisogna dimenticare il prestigio che una forma straniera tende sempre a possedere.
Questo, naturalmente, vale non solo per le parole straniere italianizzate, ma soprattutto per quelle che conservano la loro veste originaria. Così golpe e «colpo di stato», blitz e «irruzione improvvisa», goal e «rete», realizzare e «comprendere» coesistono oggi pacificamente l’una accanto all’altra, ma non possiamo escludere che i loro significati, oggi identici, vadano col tempo a differenziarsi, se non altro sul piano stilistico. E, se adoperiamo manager, field director o designer, è perché queste parole rimandano a un modello di organizzazione aziendale, a certe specializzazioni del mondo del lavoro che sono estranee alle corrispondenti parole italiane (dirigente, direttore di campo, disegnatore). Gangster, killer, revolver, d’altra parte, evocano una realtà che non è la stessa di «bandito», «sicario» e «pistola».
Il processo di adattamento delle parole straniere all’italiano: la pronuncia
Per rispondere alla nostra ultima domanda, potremmo provare a descrivere quali sono le procedure che le parole straniere devono seguire quando non basta loro assumere la cittadinanza italiana, ma aspirano, anche nel loro aspetto esteriore, a una piena integrazione o naturalizzazione linguistica. La regola più ovvia, che agisce in ogni epoca e praticamente in ogni condizione, è di adeguarsi ai suoni tipici della lingua ospite, così, dall’inglese gang (pron. gän) «compagnia, combriccola», abbiamo l’italiano ghenga; il francese habillement (pron. abilmã) è stato reso in italiano con abbigliamento; bureaucrate (pron. bürocràt) con burocrate, e bleu (pron. blö) con blu o blé (c’è tuttavia chi pronuncia la vocale francese correttamente). Talvolta l’interpretazione fonica deriva dalla forma scritta delle parole straniere: manichino, ad esempio, è frutto della lettura, secondo le norme dell’italiano, del francese mannequin. La stessa parola francese è poi rientrata, in tempi più recenti, per designare l’indossatrice, con una pronuncia un po’ più vicina a quella francese. Anche le parole che ci sembrano meglio conservate non sono quasi mai pronunciate in maniera corretta: altra è la pronuncia di goal e hobby da parte di un inglese, altra è quella da parte di un italiano (d’altronde anche una persona che conosca benissimo l’inglese risulterebbe alquanto affettata se, in una conversazione in italiano, pronunciasse queste parole in maniera perfettamente inglese). Questo adattamento si applica anche ai gruppi di suoni estranei all’italiano. Così in riflettore, dal francese réflecteur, e in bistecca, dall’inglese beafsteak, ha agito fra l’altro l’eliminazione dei gruppi consonantici ct e fst, sconosciuti all’italiano.
Adattamento grammaticale all’italiano
Ma il tipo di assimilazione che più incide sull’adattamento di forme straniere è quello grammaticale. Questo si realizza in vari modi: il più elementare consiste nell’aggiungere alla parola straniera la desinenza di genere e numero se si tratta di nomi, di coniugazione se si tratta di verbi. Così abbiamo blusa e bluse (dalla pronuncia francese blus sia della forma singolare blouse, sia di quella plurale blouses); brioscia e briosce (dal francese brioš, pronuncia sia del singolare brioche, sia del plurale brioches) o le varie voci del verbo contattare (io contatto, tu contatti ecc.) dall’inglese to contact.
Un altro tipo di adattamento è quello che si verifica con parole straniere costituite da elementi che presentano equivalenti (nella forma e/o nel contenuto) nell’italiano: il citato réflecteur, ad esempio, è del tutto ricalcato dall’italiano riflettore: ré = ri; flec = flet (flettere); teur = tore. Analogamente le parole inglesi imperialism, promotional, editorial trovano degli esatti equivalenti nelle italiane imperialismo, promozionale, editoriale. Dello stesso genere sono molte parole del vocabolario tecnico, scientifico, o comunque di genere colto, fondate nelle altre lingue europee, come in italiano, su elementi greci e latini: appendicite, automazione, interferenza ricalcano parole che ci vengono dall’Inghilterra; oculista, fotografia, analisi, cosmopolita, acclimatare o introspezione, parole che ci vengono dalla Francia, plusvalore, psicanalisi termini tedeschi. Sull’utilizzazione di forme italiane equivalenti si fonda anche l’adattamento di alcuni composti come cartone animato, dall’inglese animated cartoon; lenti a contatto, dall’inglese contact lenses; pubbliche relazioni, dall’inglese public relations; grattacielo, dall’inglese sky scraper; rendiconto e lasciapassare dal francese compte-rendu e laissez-passer; datore di lavoro, dal tedesco Arbeitsgeber. L’affinità strutturale e genetica fra queste parole straniere e le corrispondenti italiane le rende particolarmente integrate nel nostro sistema.
Innesti di suffissi italiani su tronchi stranieri
Un altro modo col quale la lingua tende a utilizzare gli elementi stranieri per soddisfare nuove esigenze comunicative ed espressive è quello consistente in una sorta di innesto che viene realizzato con suffissi italiani su tronchi stranieri. Questo tipo di procedimento viene adoperato soprattutto con quelle parole straniere che, entrate nel linguaggio comune nella loro forma originaria, richiedono poi degli adeguamenti grammaticali per poter essere usate con nuove funzioni. È il caso ad esempio di sportivo derivato da sport, di flirtare da flirt, di snobbare da snob, di camionista, camioncino e camionetta da camion, di golfino e golfetto da golf, di stoppare da stop. Data la sempre crescente presenza nel nostro linguaggio quotidiano di termini stranieri, questo genere di creazione sta diventando sempre più frequente ed è particolarmente usata dai più giovani: pensiamo a parole come mixare (dall’inglese mixer, nome dell’apparecchio elettronico usato per la miscelazione dei suoni, da to mix, miscelare) o sniffare (dall’inglese to sniff, odorare, giuntaci attraverso il linguaggio dei fumetti: sniff sniff).
Un fenomeno divertente è quello che tecnicamente si chiama paraetimologia o etimologia popolare e che si verifica quando il parlante, di fronte a parole della propria o di altre lingue che si presentano particolarmente strane e difficili, le fa risalire a parole o ad espressioni già note. È quello che è accaduto ad esempio a una forma usata per il brindisi nelle lingue slave e che sembra esserci giunta attraverso il serbocroato zdravica (pron. sdraviza), «[alla] salute», che in italiano è diventata, per associazione di suono e di significato, stravizio; o all’olandese stokvisch «pesce (visch) [seccato su] bastone (stok)» che è diventato stoccafisso per associazione con la parola «fisso» riferita alla rigidità di quel pesce. Monokini, derivato da bikini, è anch’esso frutto di questo fenomeno: qui la parola bikini è stata interpretata come costituita dal prefisso bi- (presente ad esempio in «bicicletta», «bireattore») e -kini, ignorando la sua provenienza dal nome di un famoso atollo dell’oceano Pacifico. Questo stesso fenomeno è molto probabilmente all’origine anche della parola bistecca dall’inglese beafsteak: in questo caso avrebbe agito l’associazione con «stecca», riferita all’osso solitamente presente in queste fette di carne.
Parole straniere e arricchimento espressivo delle parole indigene di valore affine
Fin qui abbiamo esaminato casi in cui la lingua acquisisce nuove parole o importandole senza modificarle, o adattandole in vario modo a seconda delle proprie possibilità ed esigenze. C’è però ancora una maniera in cui una lingua può arricchire le proprie capacità espressive: si tratta di un procedimento molto sottile, che consiste nell’aggiungere ai significati di una parola indigena anche i valori che una voce parzialmente affine ha in un’altra lingua. È il caso, ad esempio, del già citato realizzare che, oltre a «conseguire o concretizzare un fine desiderato», ha ormai acquisito anche il significato di «capire» assunto da quello dell’inglese to realize; o di decollare che, detto degli aerei, ci viene dal francese décoller «scollare, staccare» e, appunto, «staccarsi dal terreno» (all’origine in italiano, come anche in francese, significava «decapitare»: cfr. «san Giovanni decollato»). Congiuntura ci proviene invece dal tedesco Konjunktur: ma mentre in tedesco si riferisce ad una fase economica vuoi di espansione, vuoi di crisi, in italiano si è affermata con la sola designazione negativa.
Sono tantissimi i casi riconducibili a questo fenomeno, che è frutto di un intenso rapporto culturale e intellettuale fra due paesi: un fenomeno che il vasto processo di internazionalizzazione che stiamo vivendo nella nostra epoca sta rendendo sempre più spiccato. Questo uso improprio di parole italiane rappresentò uno dei principali bersagli dei puristi ottocenteschi. Il loro spirito nazionalista in un’epoca in cui erano sul tappeto l’indipendenza e la definizione dell’identità nazionale giustificano il loro atteggiamento nei confronti della lingua. Ma le esigenze della lingua non sempre, anzi quasi mai, coincidono con quelle dei puristi di ogni tempo. Come nel caso di questi difensori della lingua del secolo scorso, anche in quello dei sostenitori dell’autarchia della lingua di epoca fascista, la battaglia combattuta contro le parole straniere è riuscita a eliminare o a emarginare solo quelle che erano poco funzionali alle necessità dei parlanti.
Acquisizione di voci straniere e capacità creativa della lingua
Come sarà sembrato chiaro da quanto abbiamo detto finora, l’acquisizione di parole straniere, lungi dall’essere espressione, come potrebbe sembrare, di un comportamento passivo da parte della lingua, è, al contrario, un aspetto fondamentale della sua capacità creativa. Gli esempi che abbiamo citato hanno infatti messo in luce due esigenze fondamentali alle quali la lingua risponde nell’adottare parole straniere: 1) quella di trovare nuovi termini per esprimere nuove realtà, di natura sia concettuale, sia materiale; 2) quella di usare delle parole che, rimandando alla loro provenienza, ne evochino particolari aspetti che si vogliono sottolineare. Nel primo caso le parole straniere possono sia essere utilizzate nella loro forma originaria (ad esempio supermarket), sia essere adattate (supermercato). Questo dipende, come abbiamo visto, dalla natura della parola (tendono a conservare la loro forma originaria parole relativamente brevi e accessibili alla pronuncia italiana), o dalle condizioni storiche e culturali che possono più o meno favorire l’accettazione di forme straniere. Nel secondo caso si tende a conservare la forma originaria della parola. È frutto di quest’esigenza l’uso dei tanti termini che spinte psicologiche verso il prestigio del prodotto straniero ed esigenze commerciali hanno introdotto e continuano a introdurre da questo o quel paese.