Nell’antica Roma, con il termine «patrizi» si indicavano gli appartenenti alle famiglie dei patres…
Nell’antica Roma, con il termine «patrizi» si indicavano gli appartenenti alle famiglie dei patres, dei membri, cioè, dell’antica classe dominante i cui capi sedevano in senato. Secondo una tradizione, i patrizi sarebbero sorti per motivi politici anteriormente alla civitas, i cui membri, anzi, si sarebbero uniti per formare la civitas, di cui si ritenevano all’origine i soli cittadini legittimi. Secondo un’altra tradizione, invece, sarebbero una formazione secondaria, costituitasi per solidarietà di interessi e per una presupposta antica parentela. Alla classe dei patrizi romani vennero ammesse anche genti estranee e si giunse poi alla distinzione tra patres maiorum gentium e patres minorum gentium, quei plebei, cioè, ammessi nel patriziato da Tarquinio Prisco, ma considerati inferiori rispetto ai primi. Durante la repubblica, mentre il senato era aperto anche ai plebei, con la legge Canuleia del 445 a.C. si fece del patriziato una classe chiusa con il divieto imposto ai patrizi di contrarre matrimoni con i plebei.
Questo provvedimento e le continue guerre successive condussero a un progressivo impoverimento del patriziato, così che delle 60 originarie gentes si giunse alle 14 della fine della repubblica, finché la legge Cassia del 45 o 44 a.C. e la legge Saenia del 30 a.C. dettero a Cesare e ad Augusto la possibilità di elevare al patriziato i plebei, facoltà poi esercitata dai censori e, scomparso questo istituto, direttamente dagli imperatori. Nei tempi più antichi i patrizi erano i soli a poter aspirare alle cariche pubbliche e al sacerdozio, ma anche quando un numero di tali cariche fu aperto ai plebei, alcune di esse rimasero sempre di esclusiva pertinenza del patriziato.
Quanto ai plebei, essi formavano quella parte del popolo dell’antica Roma che, al contrario del patriziato, non godeva di tutti i diritti cittadini. La distinzione tra patrizi e plebei va ricercata, secondo gli storici moderni, non tanto in una differenziazione etnica quanto in una differenziazione economica e sociale: il patriziato, cioè, era una nobiltà che, grazie alla sua superiorità economica, poteva avere cariche pubbliche da cui era invece esclusa la plebe, costituita da piccoli proprietari, artigiani, mercanti che entravano in contatto con i patrizi solo in rapporto di clientela. Vietato anche il diritto di connubio tra patrizi e plebei, questi ultimi cominciarono a organizzarsi eleggendo un tribunato. Dai tribuni la plebe era convocata in assemblee nelle quali eleggeva i propri capi ed emanava deliberazioni: queste, valide in un primo momento per la sola plebe, con la legge di Ortensio (286 a.C.) vennero estese all’intero popolo. Dopo una serie di lotte politiche, di cui un passo molto importante fu la codificazione delle Dodici tavole (V secolo) che sottrasse l’interpretazione del diritto consuetudinario ai magistrati patrizi, i plebei con le leggi Licinie Sestie (367) ottennero uno dei posti di consoli, quindi anche le altre magistrature (la censura nel 351 e la pretura nel 377). Più difficile fu l’accesso alle cariche sacerdotali, ottenute solo con il plebiscito Ogulnio (300 a.C.). Le famiglie plebee salite alle massime magistrature furono riconosciute nobiles e formarono la nuova nobiltà patrizio‑plebea, così che alla fine della repubblica il termine plebe assunse il significato di «folla» in opposizione ai senatori e ai cavalieri.