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Teatro

Con il termine «teatro» si definiscono sia l’edificio destinato a rappresentazioni di opere drammatiche e musicali, sia le rappresentazioni stesse.

 

Con il termine «teatro» si definiscono sia l’edificio destinato a rappresentazioni di opere drammatiche e musicali, sia le rappresentazioni stesse. 

Il teatro come forma d’arte. Le origini del teatro come forma d’arte hanno radici lontanissime, e anche se in ogni civiltà esse si verificarono in modi e in tempi diversi, è probabile che il teatro sia nato dovunque come espressione dei riti religiosi, come elemento e occasione di celebrazione di qualcosa appartenente alla comune fede o alla comune storia.

Le radici del teatro occidentale possono essere ritrovate nella Grecia antica, e precisamente nell’Attica, tra I’VIII e il VII secolo a.C. La sua nascita si ricollega alle feste in onore del dio Dioniso, al quale era consuetudine chiedere protezione e benevolenza con sacrifici e riti propiziatori. Il sacrificio veniva probabilmente accompagnato da un inno, detto tragoidía (canto del capro), che in un primo tempo era intonato da tutti i fedeli, i quali in seguito si divisero in due semicori, dando vita a una primitiva forma di dialogo.
Successivamente, uno dei fedeli (forse il sacerdote stesso che celebrava il rito) si contrappose ai due semicori, intervenendo nel dialogo, e fingendo di essere lo stesso dio Dioniso. Nacque così il personaggio, e con esso la possibilità di raccontare e rappresentare una storia, che in un primo tempo ebbe per oggetto solo il dio, ma che poi si allargò ad accogliere temi diversi, con altri dèi o altri eroi per protagonisti.

Secondo la tradizione, risale al 534 a.C. la data della rappresentazione della prima tragedia vera e propria: la nascita, cioè, del teatro come arte autonoma, svincolata ormai dalle sue originarie funzioni religiose. In quell’anno il mitico attore Tespi presentò ad Atene, interpretando via via tutti i personaggi che intervenivano a dialogare con il coro, un racconto di cui non ci è noto l’argomento. In un secondo momento, un altro attore fu introdotto accanto al primo, allargando così le possibilità di dialogo e d’azione; e poi un terzo, e così via, mentre il coro, che prima era protagonista, andava riducendo le proprie funzioni a commentatore delle vicende vissute dai personaggi.
Parallelamente alla tragedia nacque la commedia (da komoidía, canto del villaggio), e tra i due generi si formò subito una suddivisione di compiti: la tragedia aveva il compito di educare e di elevare l’uomo nel ricordo e nella celebrazione dei grandi miti religiosi e dei grandi eventi nazionali; la commedia invece si assunse il compito di parlare della vita quotidiana, portando sulla scena i padroni e i servi, i soldati e i mercanti, i padri avari e i figli scapestrati; sbeffeggiava i difetti degli uomini, e giungeva a contrapporre alla solennità di tutto ciò che è autorevole e sacro un senso della vita giocondo e sanguigno, beffardo e ribelle, che di tutto si fa gioco e che di tutto rivela il lato comico e grottesco.

Il teatro raggiunse presto la sua piena maturità, e già nel V secolo a.C. visse uno dei suoi momenti di assoluto splendore, sia nella tragedia, con l’opera di Eschilo, Sofocle ed Euripide, sia nella commedia, con quella di Aristofane.

Nella Grecia antica fu la pólis, e cioè la collettività, a costruire teatri col danaro pubblico che potevano ospitare dal 75% al 100% dei cittadini (mentre i teatri di una città moderna accolgono soltanto l’uno o due per cento della popolazione), e al tempo di Pericle fu ancora la pólis a sovvenzionare l’attività teatrale con un sussidio dato a coloro che non potevano permettersi la spesa dell’ingresso a teatro.
Perfettamente all’altezza di quella funzione fu la letteratura drammatica sia nel genere tragico, che affrontò i grandi temi della religione e della storia nazionale e i fondamentali conflitti morali dell’esistenza individuale e collettiva, sia nel genere comico, che, da Aristofane a Menandro, utilizzò l’arma della satira con costruttivi intenti di critica delle istituzioni e dei costumi.

Assai diverse furono le sorti del teatro nell’antica Roma. I romani amavano, più che il teatro, i giochi del circo e le corse delle bighe; e se la commedia di Plauto e di Terenzio ebbe qualche seguito, la tragedia di Seneca fu destinata più alla lettura che alla rappresentazione, pura letteratura. L’esercizio dell’attività teatrale fu giudicato dai romani una cosa indegna per un cittadino, e pertanto la pratica fu riservata agli schiavi, ai liberti e agli stranieri. Quando il cristianesimo iniziò la sua campagna moralizzatrice contro la corruzione della decadenza romana, uno dei bersagli fu proprio il teatro o, più esattamente, l’attività di attore professionista che, nel frattempo, aveva sviluppato un proprio modo di vivere sostanzialmente anarchico, nomade, libero nei costumi, del tutto contrario agli ideali e alle norme di vita che il cristianesimo andava predicando. Fu così che questi fu escluso dai diritti di cittadinanza.

La Chiesa, da parte sua, proseguì l’attività di condanna del ruolo dell’attore professionista e più in generale del teatro, rinnovando, con la scomunica, la condanna che il mondo romano aveva proclamato. Fu allora l’attività che teatrale si interruppe bruscamente, anche sotto l’effetto delle invasioni barbariche e del conseguente abbassamento del livello culturale; ma anche nell’ambito della Chiesa gli spiriti più illuminati ebbero sempre ben presenti quali possibilità il teatro avrebbe potuto avere come strumento di propaganda e di formazione morale; e anche durante questi secoli di silenzio non mancarono uomini di Chiesa, come Giovanni Damasceno (675 circa-750 circa) o Gregorio di Nazianzo (330 circa-390 circa), e (nel X secolo) quella singolare e isolata figura di monaca che fu Rosvita di Gandersheim, che utilizzarono la forma della tragedia classica per raccontare la vita ed esaltare la virtù dei martiri cristiani. E proprio nell’ambito della Chiesa e della liturgia cristiana, infatti, il teatro rinacque in tutta l’Europa, dopo la lunga parentesi del medioevo.

Si fa risalire intorno ai secoli IX o X la messa in scena, in una sconosciuta chiesa d’Europa, da parte di uno sconosciuto sacerdote, durante la messa pasquale, dell’episodio evangelico delle Marie al Sepolcro, con cui si annuncia la resurrezione di Gesù. Questa novità ebbe una straordinaria fortuna, e si diffuse rapidamente in tutto il mondo cristiano. Nacque così la sacra rappresentazione, che le grandi cattedrali, le ricche abbazie e le prospere confraternite cittadine degli artigiani e dei mercanti allestirono in occasione delle grandi ricorrenze cristiane. A interpretare i personaggi erano i chierici e i diaconi delle cattedrali e dei conventi, gli studenti delle prime università; e sede dello spettacolo erano i sagrati, le piazze dei mercati, i paesi tutti.

La più tipica e diffusa di queste rappresentazioni era quella che si svolgeva il venerdì santo e aveva per oggetto la passione di Cristo.

Con l’umanesimo e il rinascimento rinacque anche la commedia profana: ma anche questa volta, i protagonisti del nuovo teatro non furono gli attori professionisti (ridotti a poche e sparute compagnie di guitti e saltimbanchi, che vivevano ai margini della vita civile), bensì i cortigiani e i letterati delle grandi corti italiane che, per proprio divertimento, allestirono le ritrovate commedie di Plauto, e ne scrissero altre su quel modello.
Fin dagli inizi del XVI secolo, in Italia la commedia profana ebbe un suo primo momento di successo, e i maggiori rappresentanti di quel successo furono Ludovico Ariosto, Pietro Aretino e Niccolò Machiavelli, che utilizzarono le antiche forme ereditate dai classici per raccontare però vicende ambientate nell’Italia del tempo, esercitando sui contemporanei il salutare strumento della satira. Ben presto dall’Italia la commedia passa in Francia, in Spagna, e in tutta Europa, svincolandosi dai modelli classici e acquistando una sempre maggiore autonomia di forme e di contenuti.
Lo stesso accadde, anche se in misura minore, per la tragedia, che i letterati coltivarono sull’esempio della tragedia di Seneca. Due modi di concepire la messa in scena e, più in generale, il teatro, entrambi esercitati al livello dilettantistico, erano animati da un profondo impegno, che era morale nel caso del teatro sacro, e culturale e letterario nel caso del teatro profano. Ma mentre il teatro sacro era autenticamente popolare, poiché faceva leva sul patrimonio culturale e ideale della più vasta collettività possibile, il teatro profano era invece un fatto di élite, riservato ai ristretti ambienti delle corti, delle accademie e delle università.
Ma anche le masse popolari ebbero un loro teatro profano: un teatro d’origine oscura e non documentabile, ma che era nato dai guitti e dai vagabondi del medioevo, e che fu il primo esempio di teatro professionistico moderno. Questi attori furono detti comici dell’arte (v. commedia dell’arte), dove comico vuol dire attore, e arte è parola medievale che vuol dire professione o mestiere. Portavano sulla scena i tipi più significativi della società contemporanea, stilizzandoli in una serie di maschere, la loro arte mirava unicamente a divertire il pubblico, dalla cui generosità dipendevano per il pane quotidiano.
Tra il XVI e il XVII secolo, le migliori compagnie, per lo più italiane, diffusero il teatro dell’arte presso le corti e i popoli di tutta l’Europa, contribuendo dovunque alla nascita delle varie drammaturgie nazionali. In Inghilterra, per esempio, la formula e la struttura del teatro religioso medievale si allargarono fino a trattare temi storici e profani; e tra il XVI e il XVII secolo, ci fu la straordinaria fioritura del teatro elisabettiano, che vide in William Shakespeare il suo più alto rappresentante. I fasti del teatro inglese si spensero però quando la rivoluzione puritana provocò, nel 1640, la chiusura dei teatri e la cessazione d’ogni attività teatrale, durata fino al 1660.

Dal XVII al XX secolo, sul continente europeo, in Francia e in Italia in particolare, le drammaturgie nazionali rispecchiarono la profonda divisione che si andava instaurando tra le classi sociali: mentre le masse continuarono ad applaudire sulle piazze dei mercati le compagnie dell’arte, l’élite culturale e sociale proseguì nello sviluppo della commedia e della tragedia di ispirazione classica. Nella Francia del XVII secolo, i momenti di maggior successo si ebbero con le opere di P. Corneille e di J. Racine. Soltanto Molière, grande commediografo, tentò di ispirarsi direttamente alla realtà sociale del tempo più che alle formule e ai personaggi fissi della tradizione letteraria.

Il teatro d’élite favorì la nascita della sala teatrale, resa possibile dalla volontà di fare del teatro nel chiuso dei palazzi o in sale appositamente costruite, anziché all’aperto come era consuetudine fare. Questo portò all’enorme progresso tecnico della scenografia in prospettiva, della macchineria per gli effetti speciali, di una recitazione più attenta alle sfumature e alla psicologia, ma accentuò anche la separazione ormai definitiva tra il teatro dell’aristocrazia e quello delle masse popolari.

Quando un ceto medio, la borghesia, si inserisce in questo contesto, nasce l’esigenza di un teatro che rispecchi i propri interessi, fondati sui valori della famiglia, del tranquillo e industrioso lavoro. Grande protagonista di questa affermazione del teatro borghese fu Carlo Goldoni, che con grande realismo partì dalla commedia delle maschere per ricondurne i personaggi a rappresentare non più le stereotipate immagini del padrone o del servo e via dicendo, bensì i padroni e i servi della concreta realtà sociale del tempo.
La ricerca e la rappresentazione della realtà, che stavano alla base del successo del teatro borghese, decaddero intorno alla fine XIX secolo con il prevalere del naturalismo. Fatta eccezione per i due più grandi autori del naturalismo, H. Ibsen e A. Strindberg, il teatro a cavallo tra i due secoli fu caratterizzato da un piatto documentarismo e soprattutto fu privo di ogni fantasia. Tutto questo portò, nei primi decenni del XX secolo a tutta una serie di reazioni. Nacquero il futurismo, l’espressionismo e il Simbolismo.
Il teatro sperimentò tutte le mode e i gusti correnti, esaltando ora la libertà della parola, ora quella dell’attore o della scenografia, svincolando lo spettacolo dall’esigenza forzata di aderire alla realtà quotidiana, giungendo anche in certi casi, come per esempio nell’opera di Luigi Pirandello, a contrapporre il teatro alla realtà, e ad affermare che ciò che avviene sul palcoscenico, creato dalla fantasia dell’autore, è più vero e autentico di ciò che accade nell’ingannevole vita di tutti i giorni.

Ma la più vitale opposizione alla decadenza del teatro borghese si ebbe riaffermando l’esigenza di un ritorno a un realismo autentico: un realismo che affrontasse i grandi temi dell’attualità individuale e sociale senza copiarla ma analizzandola e interpretandola al fine di aiutare lo spettatore a comprenderla meglio e più profondamente.
Il teorico e l’interprete più coerente di questa tendenza fu B. Brecht che auspicava un ritorno al realismo, con l’esigenza di contrapporre al teatro della borghesia un teatro più democratico e popolare.
Tutti i più validi movimenti teatrali di questi ultimi decenni, sia in Europa sia nelle Americhe, seguono il filone del realismo, caratteristica che accomuna il teatro di Edoardo De Filippo a quello dei giovani arrabbiati britannici, il teatro di Dario Fo a quello di Jean-Paul Sartre, le drammaturgie dell’America latina a quelle dell’Europa orientale. E questo senza negare la validità o l’importanza di quelle correnti, come per esempio il teatro dell’assurdo di E. Ionesco e di S. Beckett, che in uno stile e con un linguaggio surreale mirano a sottolineare certi aspetti tragici o grotteschi della realtà contemporanea e della condizione umana.
Quando la televisione e i grandi mezzi di comunicazione di massa si sono diffusi, nel teatro si è avvertita l’esigenza di un ripensamento e di una ridefinizione di ambiti, caratteristiche, linguaggi, finalità, mirando a una valorizzazione delle sue possibilità di comunicazione diretta e di interazione con il pubblico, arrivando, in alcuni casi, ad abbattere anche fisicamente i confini della scena, che dilagava fuori dagli edifici teatrali, nelle strade, nelle scuole, sui mercati e all’uscita delle fabbriche. Il teatro rivendica con forza la sua libertà, interpretando il proprio ruolo di portatore di dissenso sociale e culturale, proponendosi come esperienza formativa di conoscenza e di riflessione, arrivando fino a essere modello di uno stile di vita alternativo, apertamente critico dei valori sociali prevalenti: uno dei casi più noti è quello del Living Theatre, comunità anarchica e pacifista.
Da un lato c’è perciò il bisogno di ricercare una propria identità affermando la propria peculiarità, dall’altro si sviluppa la massima apertura nell’acquisizione di linguaggi, tecniche, forme espressive prese a prestito da altre arti: la danza, la musica, le arti visive e molti spunti ripresi dai teatri tradizionali di altre culture, in particolar modo quelle orientali.
L’astratta stilizzazione del Nó, del Katha-kali, del Kabuki dal Giappone ha influenzato i teatranti occidentali non soltanto attraverso l’acquisizione di tecniche o di stili, ma più in profondità, inducendo nuove riflessioni sulle convenzioni linguistiche fondanti di un’arte. Nella prima metà del Novecento, le prime tournée delle compagnie indiane a Parigi, avevano dato ad A. Artaud materia di riflessione teorica ed egli a sua volta, attraverso i suoi scritti, aveva influenzato le avanguardie teatrali europee e statunitensi.
Negli anni Sessanta e Settanta si afferma la moda dei viaggi in Oriente, ciò contribuisce a diffondere la cultura teatrale asiatica nel pragmatico occidente, potenziandone gli aspetti rituali e mistici. Gli spettacoli di E. Barba, di J. Grotowski, di Leo De Bernardinis, assumono il coinvolgente aspetto di cerimonie laiche, o percorsi iniziatici. I rapporti tra il teatro e la filosofia diventano sempre più stretti, col sorprendente risultato di rendere popolari e comprensibili per istinto dal vasto pubblico le ardite speculazioni filosofiche di un attore-autore-pensatore come Carmelo Bene. Si afferma che il teatro è innanzitutto uno strumento di conoscenza, che qualche volta si caratterizza come minuziosa esplorazione linguistica ed espressiva: pensiamo a Bob Wilson negli Stati Uniti o, in Italia, a Carlo Quartucci, fino all’espressione più commerciale dell’Actor’s Studio di Stella Adler e Lee Strasberg, da cui provengono attori famosi come Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro.

Negli anni Ottanta, la tecnologia televisiva (v. televisione), mette la videoregistrazione alla portata delle compagnie teatrali che ne fanno oggetto di sperimentazione per circa un decennio. Sul finire del secolo il panorama teatrale è caratterizzato da un forte eclettismo. Coesistono e si sviluppano forme teatrali estremamente variegate. Fenomeno di rilievo sembra essere l’affermarsi di un rinnovato interesse per la drammaturgia. Da un lato come riscoperta del teatro classico, cui accostarsi con messe in scena attualizzate, ma rispettose. Dall’altro con il lavoro di nuovi autori. Molte anche le trasposizioni teatrali di opere letterarie, come se si fossero scoperti dei punti di contatto tra il pubblico che legge e quello che va a teatro e tra i due fosse in corso una auspicabile forma di sinergia.

L’edificio teatrale. I primi edifici costruiti espressamente per accogliere rappresentazioni teatrali e pubblico furono i teatri greci, tuttavia le prime strutture fisse destinate allo svolgimento di cerimonie o feste alla presenza di pubblico, si trovano nei cosiddetti palazzi della civiltà minoico-micenea, in cui sono presenti aree rettangolari con gradinate su un lato o ad angolo (Cnosso, Festo).
È probabile che il teatro greco arcaico derivi da quello cretese, anche se trasformato in un edificio autonomo, con un’organizzazione complessa dello spazio e dalla forte caratterizzazione architettonica e ambientale. Le parti principali del teatro greco erano: la cavea, destinata agli spettatori, con pianta a semicerchio a volte prolungato, divisa in epoca classica in orizzontale e in verticale mediante corridoi e realizzata a gradoni digradanti (il primo con i sedili d’onore per sacerdoti, capi ecc.), sempre addossati a un pendio naturale, se necessario modificato per garantire la visibilità della scena a tutti gli spettatori; l’orchestra, destinata al coro, con pianta circolare o a volte poligonale, circondata per metà dalla cavea; i passaggi per coro e spettatori tra le testate della cavea e la scena, trasformati in porticati in età ellenistica; la scena, destinata agli attori, all’inizio molto semplice e provvisoria (tende), poi trasformata (con l’aggiunta della fossa per gli scenari, della pedana, o palco, per gli attori e del fondale con tre porte), prima lignea poi in muratura, con forme architettoniche e corridoio per depositi. Verso il V secolo a.C. si aggiunsero i parasceni, avancorpi laterali, che definirono il proscenio.
In epoca ellenistica (v. ellenismo) la scena ebbe una struttura architettonica più elaborata, il proscenio fu racchiuso con portico a colonne, e il fondale, con tre o cinque aperture, si arricchì di colonne, nicchie, statue. I resti monumentali dei teatri greci, alcuni ancora utilizzati (Atene, Eleusi, Siracusa, Taormina), trasmettono un’immagine molto attenuata dello splendore e della magnificenza raggiunti: mancano quasi completamente la scena (si conservano solo parte delle strutture murarie), la decorazione della cavea (sedili d’onore e, soprattutto, i grandi vasi bronzei e le statue collocati alla sommità, in base alle leggi dell’acustica, per amplificare la voce degli attori) e i colori (giallo, azzurro, oro, porpora) con cui erano dipinte architetture e sculture. L’immagine architettonica era ulteriormente sottolineata dall’eccezionalità dell’ambiente, spesso più scenografico della scena stessa (per esempio il mare a Siracusa).

Il teatro romano derivò da quello greco (il primo costruito a Roma fu quello di Pompeo), ma con differenze significative: lo spazio riservato al teatro diventa più piccolo, perché alla rappresentazione teatrale non partecipava tutta la cittadinanza. Le rappresentazioni erano costituite da un semplice spettacolo, in concorrenza, tra l’altro, con altre ben più popolari rappresentazioni (corse di cavalli, giochi gladiatori), il teatro, inoltre, era ubicato quasi sempre all’interno della città.
La cavea fu costruita di preferenza artificialmente (non addossata, cioè, a pendii naturali), racchiusa da murature raccordate alla scena e a volte coperta; l’orchestra, semicircolare, fu parzialmente occupata dai sedili dei personaggi ufficiali (sacerdoti, magistrati, ecc.); la scena raggiunse l’altezza della cavea e si arricchì di decorazioni a più piani con colonne, nicchie, esedre, e nel proscenio furono aggiunte due scalette di accesso al palcoscenico. Molti teatri greci ed ellenistici furono trasformati in epoca romana sul modello definito dalle teorie di Vitruvio.

Dopo la sua scomparsa durante il periodo della decadenza e per tutto il medioevo, con il rinascimento si ridefinì l’idea di edificio teatrale, che fu visto come grande sala coperta, con posti fissi organizzati in modo da garantire la visione e l’ascolto migliori dello spettacolo. I primi esempi di teatro rinascimentale ripresero, adattandolo alle nuove esigenze, lo schema classico con cavea a semicerchio, scena fissa e palcoscenico, come il teatro Olimpico del Palladio a Vicenza (iniziato nel 1580), il teatro Olimpico di Vincenzo Scamozzi (1552-1616) a Sabbioneta (1590) e quello Farnesiano di Giovanni Battista Aleotti (1546-1636) a Parma (1618-1619).
Mentre fuori d’Italia la rappresentazione teatrale restava spesso ancora legata a esperienze medievali, come avveniva per i teatri elisabettiani in Inghilterra (il primo teatro di Shakespeare fu il cortile di una locanda, con scena fissa che penetrava in platea e il pubblico presente anche sulla scena oltre che sui ballatoi che si trovavano intorno al cortile), e i corrales in Spagna. Nel XVII e soprattutto nel XVIII secolo si affermò la tipologia del teatro con pianta a ferro di cavallo e il pubblico collocato parte in platea (lo spazio delimitato dalle pareti curve e dalla scena) e parte nelle logge separate e sovrapposte (palchi o palchetti) ricavate nelle pareti curve.

Il palcoscenico era separato dal pubblico da un ampio arco, detto «boccascena» che, durante i cambi di scena e gli intervalli, veniva chiuso dal sipario. Gli edifici del teatro del Seicento e del Settecento, spesso grandiosi, erano prevalentemente in legno con decorazioni in stucco dipinto e dorato: materiali molto infiammabili al pari degli scenari e dei costumi, e nei fatti spesso andavano a fuoco bruciati dalle fiamme di candele e lampade a olio usate per l’illuminazione.
L’esempio forse più noto di questo tipo di teatro è il teatro alla Scala di Milano, assunto ben presto a modello di moltissimi altri teatri e di quasi tutti quelli destinati alla lirica, più che per la ricchezza delle decorazioni per le soluzioni particolarmente razionali degli spazi riservati al pubblico (atrio, foyer o ridotto, spogliatoi, disimpegni ecc.), per il palcoscenico (che con le sue attrezzature occupa ormai lo spazio maggiore, anche se il pubblico ne vede solo una parte minima) e per la direzione del teatro stesso (uffici, botteghino dei biglietti ecc.): nel XVIII secolo, infatti, il teatro aveva cessato di essere appannaggio delle corti, ed era diventato un’attività economica gestita prevalentemente da privati, che si impegnavano anche nella costruzione dell’edificio.
Le trasformazioni successive della tipologia del teatro borghese (con proscenio come quarta parete), derivata da quella settecentesca, dipesero dalle nuove concezioni della rappresentazione, che comportavano differenti rapporti spettatori-attori o sala-palcoscenico, come nel teatro Wagneriano a Bayreuth (1876), in cui scomparvero i palchi e ricomparvero le gradinate curve, mentre l’orchestra sprofondava nel golfo mistico, invisibile al pubblico che non doveva essere distratto dalla rappresentazione; e negli esempi successivi, dal progetto del Totaltheater dell’architetto W. Gropius per E. Piscator (il rinnovatore del teatro tedesco ed europeo tra le due guerre mondiali), ai teatri a scena centrale (come il piccolo Sant’Erasmo a Milano), ai progetti di sale multiple, trasformabili in funzione dello spettacolo sia come dimensioni e capienza sia come disposizione della scena e degli spettatori grazie a pareti mobili e ad altri accorgimenti tecnici.