Saggio di Giuseppe Casale
Saggio di Giuseppe Casale
Il tumore maligno
Il cancro fa molta paura perché è legato alla sofferenza che ci si aspetta esso provochi.
Specialmente nella fase più avanzata, la cosiddetta fase terminale, quando a causa sua il paziente è condotto inevitabilmente all’exitus. A chiunque venga posta – uomini, donne, giovani o anziani – la diagnosi di cancro comporta un cambiamento di vita e si accompagna alla comparsa di una paura smisurata.
Nonostante il cancro colpisca una persona, l’intera famiglia ne viene coinvolta. Spesso appare come una bomba che scoppia in una casa. La diagnosi diviene come una condanna, ogni elemento della famiglia si trova a vivere una vita non più uguale a prima.
Che cos’è il cancro
Si tratta di una malattia genetica, data quindi dall’alterazione dei geni cellulari, nella quale si ha la proliferazione incontrollata e inarrestabile di una cellula.
Il cancro è una malattia che non colpisce solo l’uomo ma si ritrova in tutte le specie degli animali superiori. Generalmente è una malattia delle cellule che compongono il corpo. Esse sono piccolissime e non si vedono a occhio nudo. L’unica cellula che vediamo a occhio nudo è l’uovo. Proprio l’uovo della gallina infatti, ma anche qualsiasi altro, rappresenta una cellula normale gigante. La cellula è fatta proprio come un uovo: ha una membrana, ha l’albume, citoplasma, ha il tuorlo, nucleo. Le cellule che compongono i corpi sono infinitamente più piccole e non si vedono assolutamente a occhio nudo. Si possono osservare solo al microscopio, sono diverse e si differenziano a seconda di dove sono collocate. Infatti le cellule della pelle sono diverse dalle cellule epatiche che compongono il fegato, come sono diverse da quelle che compongono le ossa.
Ogni organo, ogni ghiandola del nostro corpo ha le proprie cellule. Esse hanno una proprietà: sono differenziate per ottemperare ad una funzione specifica e assumono così anche forme diverse. Le cellule del nostro corpo che assolvono ai vari compiti a cui sono destinate sono dette normali. Esse derivano tutte da una cellula madre detta cellula staminale la quale si modifica nell’organismo a seconda di dove si posiziona. Per esempio la cellula staminale che si trova nel fegato si differenzierà in epatocita (cioè cellula del fegato).
La cellula ha una sua vita: nasce, si trasforma, lavora – quindi produce –, si duplica e poi muore. Ovviamente nel nostro organismo questo avviene in continuazione, ma mai contemporaneamente, per cui esse vengono sostituite da nuove cellule che sollecitate da varie sostanze si differenziano e cominciano a lavorare normalmente.
Ogni cellula ha nel suo interno il nucleo che è rappresentato tra l’altro da un groviglio di filamenti che non sono altro che il DNA.
Il DNA è un filamento doppio costituito da alcune sostanze che sono sistemate in varie sequenze e che rappresentano un codice. Alcuni gruppi di sequenze sono stati chiamati gene e il codice è chiamato codice genetico. Ogni organismo ha un proprio codice genetico che differenzia la specie, la razza, il sesso ecc. Ogni individuo inoltre ha dei geni che gli appartengono che lo differenziano ulteriormente (ad esempio il colore dei capelli, degli occhi, altezza ecc.). Ogni cellula ha anche nel suo interno i geni che ne regolano la proliferazione, cioè regolano quante volte si deve replicare. Questi geni sono fondamentali altrimenti le cellule normali si moltiplicherebbero all’infinito. Proviamo a immaginare una cellula della pelle che non ha questo sistema di regolazione: un individuo vedrebbe accrescere la sua cute in maniera smisurata, idem per una cellula epatica o della mucosa dello stomaco. Il tumore non è altro che una malattia genetica in cui i geni deputati a far produrre alla cellula normale un determinato compito sono alterati e quindi nasce da una alterazione del DNA.
Le alterazioni del DNA possono essere causate da vari fattori interni per lo più già esistenti dalla nascita, sono delle vere e proprie aberrazioni genetiche e si riscontrano in alcune malattie legate a malformazioni cromosomiche o in tumori ereditari. Con maggiore frequenza le alterazioni avvengono per l’intervento di cause esterne, definite «cancerogeni» (sostanze che provocano il cancro: per esempio sostanze prodotte dal fumo di tabacco, sostanze contenute nei fumi dei motori a scoppio, radiazioni ecc.). Anche alcuni virus sono responsabili di queste alterazioni e sono detti virus oncogeni.
Ovviamente sappiamo che non si ammalano di tumore tutti quelli che fumano o che abitano in una città e questo perché le sostanze cancerogene vanno ad alterare in particolare due geni responsabili del controllo della crescita cellulare (proto-oncogeni e geni oncosoppressori) ma evidentemente alcune persone hanno dei livelli di protezione maggiori o sistemi di deregolazione meno accentuati. Queste alterazioni normalmente vengono riparate da vari fattori protettivi insiti nella cellula stessa, ma se sono più di due conducono a una alterazione della cellula che non sarà più normale ma nuova, diversa, alterata, che lavora male e si duplica fino a proliferare non più secondo uno schema precostituito ma in maniera abnorme, disordinata, fino a occupare lo spazio delle cellule normali. Questa è la descrizione della formazione di un tumore.
Che cosa accade quando si forma un cancro
Come un palazzo è formato da mattoni, così il nostro corpo è formato da miliardi di cellule. Queste cellule però, a differenza dei mattoni, si riproducono, si moltiplicano e inoltre producono diverse sostanze utili al corpo. In alcune persone può accadere che alcune cellule impazziscano (si trasformino) per diversi motivi (per l’intervento di sostanze cancerogene naturali o artificiali e per altre ragioni ancora non del tutto note): non sono più capaci di svolgere correttamente il compito che avevano prima e crescono di numero fino a danneggiare gli organi in cui si trovano alloggiate dando luogo alla formazione del tumore. Le cellule del tumore maligno a volte possono staccarsi dalla massa (il tumore primario) che si è venuta a creare e, attraverso vari canali (vasi sanguigni o altre vie), invadere un altro organo dove cominceranno a riprodursi di nuovo; si parlerà allora di metastasi (tumore secondario). Le terapie attualmente usate per distruggere il tumore e/o combattere la sua riproduzione sono la chirurgia (asportazione del tumore), la radioterapia (radiazioni), la chemioterapia (terapia antiblastica cioè a base di farmaci che distruggono le cellule), l’immunoterapia. A tutt’oggi, purtroppo, non si è riusciti ancora a selezionare un metodo per aggredire in maniera definitiva il tumore quando esso si trova allo stadio avanzato, mentre le suddette metodiche risultano valide nel bloccarne l’evoluzione nella fase iniziale.
Quando i metodi a disposizione non riescono, purtroppo, a risolvere la malattia una terapia palliativa risulta essere la più idonea. La classica frase «non c’è più nulla da fare» non è vera in quanto nei pazienti gravi c’è ancora molto da fare, non per guarire ma almeno per alleviare il dolore.
Epidemiologia
Il cancro rappresenta in tutto il mondo una delle maggiori cause di morte e la seconda in Occidente. Ogni anno nel mondo si ammalano di tumore maligno oltre 10 milioni di persone e circa 6 milioni di queste muoiono. In Italia negli ultimi 30 anni si è assistito ad un aumento dell’incidenza dei tumori sia per l’aumento della vita media, sia per l’aumento dell’industrializzazione, ma anche per il notevole miglioramento dei mezzi diagnostici.
In particolare quest’ultimo fattore ha fatto sì che fino a circa 30 anni fa la diagnosi di tumore si realizzasse per lo più solo quando il tumore era ormai in fase avanzata o molto più spesso la diagnosi di tumore era misconosciuta.
In Italia i tumori più frequenti sono quelli al polmone, allo stomaco, al colon-retto, alla prostata, alla vescica, alla mammella.
In Italia nell’anno 2005 (età 0-84) il numero dei nuovi casi di tumore è stato più di 135.000 nei maschi e più di 117.000 nelle femmine. Si calcola che la sopravvivenza per tumore a 5 anni dalla diagnosi sia dal 33% (anni ’70) al 39% (fine anni ’80) per miglioramento prognosi.
In Italia la mortalità è in costante diminuzione (nel 2000 il tumore ha causato il 30% del totale dei decessi) in particolar modo la mortalità è diminuita in età giovanili e adulte.
Definizioni
Oncologia: è la branca della medicina che studia i tumori.
Cancro: la parola deriva dal latino cancer, granchio. In antichità veniva così definito in quanto la massa tumorale spesso è circondata da vene turgide e varicose che lo fanno assomigliare al crostaceo.
Tumore: così chiamato in quanto appare come una tumefazione, una escrescenza.
Neoplasia: è una nuova formazione che prima non c’era.
Spesso si usano in medicina indifferentemente le ultime tre definizioni, ma generalmente quando si vuole definire un tumore maligno si usa la parola cancro.
Tumori maligni e benigni
Si possono riscontrare tumori benigni e tumori maligni.
Tumore benigno: non causa gravi danni all’organismo e una volta asportato chirurgicamente non ha bisogno di ulteriori terapie, in quanto è circondato da una capsula che permette la completa rimozione, non dà metastasi (per esempio benigni sono i polipi, i nei della pelle, i lipomi). Il tumore benigno può comportarsi da maligno solo in casi particolari, se si sviluppa, per esempio, in alcune zone del corpo dove crescendo e raggiungendo dimensioni importanti può ledere la funzione degli organi vicini ed è di difficile asportazione in quanto situato in zone nascoste (un esempio il meningioma, tumore benigno delle meningi, membrane che rivestono il cervello. In genere è facilmente asportabile ma esistono situazioni in cui il neurochirurgo ha difficoltà a raggiungerlo senza arrecare danni alla massa cerebrale che lo circonda, per cui continua a provocare danni anche se è un tumore benigno). Quando è possibile asportare il tumore benigno la guarigione è assicurata al 100%.
Tumore maligno: può svilupparsi in tutto l’organismo. Esso si caratterizza dal fatto che cresce senza controllo, in genere non ha una capsula che lo limita e può dare metastasi sia vicine alla sua sede principale che molto distanti. In genere la chirurgia da sola non è risolutiva e per la sua cura è necessario mettere in atto altre terapie con chemioterapici e con radiazioni. Il tumore maligno invade gli organi vicini e in genere più è grande più è difficile ottenere la guarigione completa.
Che cosa provoca un tumore maligno?
Cancerogenesi: processo multifasico, innescato da un cancerogeno che porta alla trasformazione della cellula normale in cellula tumorale.
Cancerogeno: è una sostanza (agente chimico, fisico, ambientale, farmacologico o ormonale) in grado di determinare un aumento significativo nella formazione di alcuni tumori (incidenza) in soggetti esposti rispetto a quelli non esposti. Per esempio il fumo di tabacco, per la presenza di alcune sostanze, è un agente che risulta statisticamente come cancerogeno in quanto è maggiore l’incidenza di tumore al polmone tra i fumatori rispetto ai non fumatori.
Proto-oncogeni: sono i geni (oncogeni) coinvolti nel normale controllo della proliferazione e differenziazione cellulare, capaci di contribuire all’induzione o progressione tumorale quando la loro struttura e/o funzione siano alterate. Sono geni dotati della capacità di controllo della crescita e/o proliferazione cellulare e di cui sia nota una versione attivata (oncogene) nei tumori umani.
Metastasi: sono dei veri e propri tumori che si formano a distanza o vicino al tumore principale, ripetendone le caratteristiche.
Metastasi a distanza: sono dovute a cellule che si staccano dalla massa principale per perdita di aderenza e attraverso i vasi ematici e linfatici si fermano in organi diversi dove colonizzano, prolificano, si riproducono e danno luogo ad un tumore simile al principale.
Metastasi vicine al tumore principale: sono dovute a invasione per contiguità dove si riproducono e anche qui formano delle masse tumorali.
Fasi della invasione e della metastatizzazione
- Invasione stroma interstiziale e permeazione parete vascolare.
- Passaggio e circolazione nella corrente ematica e linfatica.
- Arresto a livello dei vasi precapillari degli organi metastatizzati e stravaso.
- Colonizzazione metastatica – ruolo della neoangiogenesi, cioè formazione di nuovi vasi che trasportano nutrimento al tumore stesso.
Il tumore come qualsiasi corpo estraneo comporta una risposta immunitaria da parte del nostro organismo; esso infatti reagisce se entra in contatto di virus o batteri o se vengono per esempio introdotte sostanze o elementi estranei. Basti pensare ai trapianti: se si trapianta un rene non compatibile, quindi non riconosciuto dal nostro organismo, le nostre difese immunitarie – linfociti e gamma globulina – intervengono e aggrediscono l’estraneo dando luogo al cosiddetto fenomeno del rigetto. Questo dovrebbe avvenire anche per i tumori che si presentano al nostro organismo come estranei. Di fatto il nostro sistema immunitario non è in grado di reagire alla presenza del tumore e quindi rigettarlo.
Le motivazioni sono diverse: le cellule tumorali possono subire delle modifiche della membrana cellulare per cui non vengono riconosciute come estranee, oppure diventare immunoresistenti, cioè resistenti agli effetti linfocitari citotossici; può esercitare lo stesso effetto la secrezione di determinate sostanze con potere immunodepressivo.
Comunque la neoplasia induce una risposta immune. Infatti si riscontra all’esame microscopico una aumentata presenza di linfociti T, o macrofagi.
A dimostrazione di ciò si è evidenziato che i soggetti immunodepressi si ammalano di tumore più facilmente (per esempio i pazienti con AIDS).
Diagnostica
Esami bioumorali (equilibrio metabolico, marcatori tumorali)
Marcatori tumorali: ormoni (gonadotropina corionica umana, calcitonina); antigeni oncofetali (alfafetoproteina, antigene carcinoembrionale); isoenzimi (fosfatasi acida prostatica, enolasi neurono-specifica); mucine e altre glicoproteine (CA 125, CA 19-9, CA 15-3); proteine specifiche (Ig, antigene prostatico specifico).
Diagnosi anatomopatologica
Si esegue l’esame citologico mediante lo studio di cellule prelevate mediante l’abrasione di alcune zone del corpo (per esempio il pap test).
L’esame istologico che avviene attraverso l’esame microscopico permette di rilevare la presenza o meno di cellule tumorali.
Esami Strumentali
Stadiazione
Si utilizzano manovre diagnostiche clinico-strumentali e/o anatomopatologiche per definire l’estensione della malattia e quindi la sua gravità.
Si ricorre nella stadiazione al sistema TNM (T tumore primitivo, L linfonodi regionali, M metastasi). Per esempio un tumore con T1, N1, M0 equivale a un tumore piccolo poco invasivo e con un solo linfonodo vicino con presenza di metastasi
Fattori Prognostici: sono legati alle caratteristiche connesse alla neoplasia (dimensioni, tipo istologico, presenza di metastasi vicine e a distanza) e alle condizioni cliniche del paziente. I fattori prognostici sono in grado di condizionare l’evoluzione della malattia o di influenzare l’esito di un trattamento.
Prevenzione
Sono questi i gradi della prevenzione:
– primaria: allontanare i fattori di rischio.
– secondaria: diagnosi precoce, screening di massa e terapia.
– terziaria: riabilitazione.
La diagnosi precoce consiste nell’individuare al più presto un tumore ma ancora di più le cosiddette lesioni precancerose. Mediante esami di semplice esecuzione si possono individuare quelle lesioni che se rimosse in tempo evitano l’insorgenza di un cancro.
Un esempio per tutti è l’esecuzione di colonscopia che permette l’individuazione precoce di lesioni come i polipi che sono in alcune loro forme precancerose, cioè capaci di trasformarsi in cancro. La rimozione di un polipo per via endoscopica, cioè durante una colonscopia, permette di ottenere la guarigione completa.
Lo screening di massa è l’insieme delle indagini rivolte a un grande numero di cittadini sani su cui si tenta di individuare il più precocemente possibile lesioni precancerose o lesioni tumorali nella loro fase iniziale. Esempi di screening sono la mammografia a tutte le donne oltre i 40 anni, l’esecuzione di pap test, ricerca di sangue occulto nelle feci ecc.
Obiettivi dell’oncologia medica
– guarigione
– cura
– sopravvivenza
– integrazione terapeutica (oncologia medica, chirurgia, radioterapia, medicina palliativa)
– ottimizzazione terapeutica
– la migliore terapia di supporto
– la migliore qualità di vita
– il controllo degli obiettivi
Sopravvivenza libera da malattia: durata della sopravvivenza compresa tra l’inizio del trattamento e la prima recidiva di malattia
Sopravvivenza globale: comprende la durata della sopravvivenza libera da malattia e quella dal momento della prima ricaduta alla morte.
In oncologia vengono utilizzati dei «parametri di valutazione del trattamento medico» e sono:
Remissione completa: scomparsa della malattia, scomparsa di tutti i segni e i sintomi legati alla neoplasia per un periodo minimo di quattro settimane.
Remissione parziale: riduzione di almeno il 50% della neoplasia per un periodo minimo di quattro settimane.
Stabilizzazione: riduzione inferiore al 50%.
Progressione: aumento superiore al 25% o comparsa nuovi siti di malattia.
Sopravvivenza globale: intervallo di tempo tra la terapia primaria e il decesso.
Sopravvivenza libera da malattia: intervallo di tempo tra terapia primaria e prima ricaduta.
PRINCIPI DI TERAPIA ANTITUMORALE
Chirurgia
Può essere suddivisa in:
Chirurgia preventiva: trattamento di tutte le alterazioni ereditarie o familiari associate con elevato rischio di tumori (criptorchidismo, poliposi multipla del colon, rettocolite ulcerosa, lesioni precancerose ecc.).
Chirurgia diagnostica: asportazione di frammenti di tessuto patologico per diagnosi istologica.
Chirurgia terapeutica: può avere finalità radicale (asportazione radicale tumore primitivo e linfonodi regionali) oppure riduttiva (per facilitare successivo impiego di CHT o RT mediante riduzione della massa tumorale).
Chirurgia delle metastasi: tecnica riduttiva (adottata per facilitare il successivo impiego di CHT o RT mediante riduzione della massa tumorale) oppure palliativa (per il controllo del dolore o dei problemi meccanici).
Terapia radiante
Si avvale dell’uso di radiazioni ionizzanti.
Il protocollo ha intento guaritivo, precauzionale, palliativo e sintomatico. Le cellule neoplastiche riparano il danno subito dalle radiazioni più lentamente rispetto alle cellule normali. Le radiazioni determinano un effetto letale (inibizione della replicazione) nelle cellule proliferanti con cinetica di distruzione di tipo esponenziale (frazione costante e non numero costante di cellule distrutte).
La terapia radiante può essere associata alla CHT. Le cellule tumorali hanno una crescita di tipo gompertziano: la crescita diminuisce col tempo con l’aumentare della popolazione neoplastica ( più la massa cresce meno cellule si replicano). L’incremento di volume del tumore porta al passaggio di cellule dal compartimento proliferante a quello di temporaneo di riposo, con riduzione dell’efficacia dei farmaci antineoplastici che agiscono proprio nella fase di duplicazione. La maggior parte di tali farmaci è infatti attiva sulle cellule proliferanti.
La distruzione delle cellule neoplastiche da parte dei farmaci citotossici segue una «cinetica di primo ordine»: una certa dose di farmaco antitumorale uccide per lo più una frazione costante di cellule e non un numero fisso. Pertanto la completa eradicazione del tumore è possibile solo con dosi massime tollerate dei farmaci attivi, somministrate fino alla distruzione dell’ultima cellula neoplastica; la chemioterapia deve essere iniziata il più precocemente possibile. L’indice terapeutico dei farmaci antitumorali è basso (dose tossica/dose efficace).
Terapie mediche
Terapia precauzionale (o adiuvante): terapia sistemica (per via endovenosa) applicata a pazienti con rischio di recidiva dopo un intervento terapeutico loco-regionale radicale (chirurgia o RT).
Terapia primaria (o neoadiuvante): terapia sistemica effettuata prima di un intervento loco-regionale radicale (chirurgico o RT) per ridurre le dimensioni della neoplasia.
Terapia delle forme sistemiche o avanzate-chemioterapia adiuvante: trattamento medico applicato successivamente all’acquisizione del controllo, da parte della chirurgia o della radioterapia, del focolaio neoplastico primitivo (per esempio dopo un intervento per asportazione di un tumore alla mammella). Il trattamento adiuvante ha come finalità la distruzione delle micrometastasi disseminatesi nell’organismo a partire dalla neoplasia primitiva, incrementando la potenzialità di guarigione dell’individuo.
Terapia delle forme sistemiche (diffuse) o avanzate: trattamento i cui obiettivi sono la riduzione della massa neoplastica – per consentire interventi chirurgici radicali e interventi più conservativi – e la distruzione delle micrometastasi eventualmente disseminatesi; rappresenta un test in vivo di chemiosensibilità e di prognosi. Il trattamento oncologico palliativo, attraverso l’utilizzazione di farmaci antiblastici, antidolorifici e adiuvanti, ha il fine ultimo di curare i sintomi legati alla neoplasia per consentire la migliore qualità della vita nella fase terminale di malattia.
Resistenza temporanea: ridotto numero di cellule in ciclo o presenza di «santuari» farmacologici.
Resistenza permanente: ridotta risposta di un tumore alla chemioterapia per mutazioni genetiche spontanee.
Monochemioterapia: utilizzo di un solo farmaco antiblastico.
Polichemioterapia: associazione di più farmaci, per prevenire cloni farmacoresistenti (meccanismi di azione diversi e con meccanismi di resistenza diversi) e garantire la distruzione di cellule proliferanti e cellule quiescenti; sinergismo e modulazione biochimica.
Terapia endocrina: ormoni, analoghi di ormoni, antiormoni, inibitori della sintesi di ormoni (utilizzata nei tumori sensibili alla presenza di ormoni: p. es. mammella, ovaio, prostata).
Terapie biologiche: terapie volte a incrementare risposta antitumorale cellulare e umorale dell’ospite, aumentare la capacità dell’ospite di tollerare trattamenti antitumorali con farmaci mielotossici, indurre modifiche nelle cellule tumorali per incrementare immunogenicità, intervenire sull’angiogenesi
Effetti collaterali della terapia
Immediati (24-48 h dall’inizio della terapia): reazioni allergiche, nausea, vomito, flebiti.
Precoci (giorni o settimane dall’inizio della terapia): leucopenia, piastrinopenia, alopecia, stomatite, diarrea.
Ritardati (molte settimane o mesi dall’inizio della terapia): anemia, azoospermia (assenza di spermatozoi), fibrosi polmonare (può comportare grave insufficienza respiratoria), nella quale il tessuto polmonare viene sostituito da materiale fibroso che non permette una normale respirazione.
Tardivi (molti mesi o anni dall’inizio della terapia): sterilità, seconde neoplasie.
Vediamo in dettaglio alcuni degli effetti collaterali:
Alopecia: caduta dei capelli a volte in maniera drammatica fino alla completa calvizie. Alla sospensione della terapia i capelli ricrescono normali, addirittura in alcuni casi più folti. Farmaci: ciclofosfamide, adriamicina, epirubicina, taxolo, vincristina.
Anoressia: perdita del desiderio di alimentarsi, accompagnato da sazietà precoce, alterazioni del gusto e dell’odorato, avversione alla carne (sarcofobia), spesso nausea e vomito.
Sono cause di anoressia-cachessia «secondaria» alla chemioterapia o alla malattia tumorale:
– per ridotta assunzione orale: stomatite, xerostomia; disfagia, odinofagia; nausea cronica, vomito; stipsi severa, occlusione intestinale; dolore, dispnea, depressione; alterazioni cognitive.
– per ridotto assorbimento intestinale: malassorbimento; diarrea cronica; insufficienza pancreatica; esiti di CH, RT, o CT.
– patogenesi multicausale, riferibile a una causa comune (interazione tra tumore e ospite): produzione da parte del tumore di sostanze specifiche; meccanismi endocrini; azione di citochine.
Cachessia: sindrome caratterizzata da perdita di peso, severa malnutrizione proteico-calorica, perdita di massa magra. Non è solo dimagramento con perdita di massa grassa ma diminuisce la massa muscolare a volte in maniera severa. Il paziente è per lo più allettato.
Nella cachessia, il medico suggerisce un supporto nutrizionale artificiale nel caso in cui si verifichino i seguenti episodi: aspettativa di vita di almeno 6 settimane; assenza di coinvolgimento di organi vitali; assenza di sintomatologia importante non correlata alla nutrizione/stato nutrizionale; prognosi più immediatamente legata allo stato di nutrizione e all’impossibilità di alimentazione che non alla progressione della malattia.
Alterazioni del gusto: alterazioni nella percezione del gusto, avversione per alcuni cibi, sapore «metallico», dovuti alla somministrazione di farmaci come 5-FU (fluorouracile), cisplatino, dacarbazina, vincristina. Si può intervenire curando l’igiene del cavo orale e la preparazione dei cibi, rispettando i gusti del paziente; consumare cibi freddi.
Nausea e vomito grave: tra i farmaci («altamente emetizzanti») che causano questi effetti si citano il cisplatino, la dacarbazina, la ciclofosfamide e l’adriamicina. Il meccanismo di base che li regola è la stimolazione di alcuni recettori che provocano questi sintomi (5-idrossitriptamina tipo 3 della CTZ) da parte delle sostanze chimiche presenti nel sangue e nel liquor e stimolazione dei recettori (5-HT3) nel tratto gastrointestinale.
Nausea e vomito anticipatori
Neutropenia, piastrinopenia, anemia: vari gradi di tossicità ematologica; si possono avere severe reazioni infettive. Il midollo presente nelle ossa contiene materiale ematopoietico che è il produttore di globuli rossi, globuli bianchi, piastrine; è quindi un compartimento a rapida proliferazione, particolarmente sensibile per questo motivo alla chemioterapia. L’effetto si manifesta 8-14 giorni dopo l’inizio della terapia. Si affronta con una terapia di supporto (emotrasfusioni, infusione di piastrine, controllo complicanza infettive), sospensione del trattamento.
Caduta delle difese organiche: tra le cause si ricordano la cachessia e la malnutrizione, il deficit dell’immunità cellulare (leucopenia, neutropenia) nei pazienti con LH o splenectomizzati, trattamenti antineoplastici-CHT e RT, la terapia steroidea e il deficit dell’immunità umorale (anticorpi) nei pazienti con LLC o MM.
Alterazione delle barriere anatomiche: trattamenti chemioterapici, radioterapia, gravi lesioni da decubito.
Manovre invasive: cateterismo venoso (centrale o periferico); cateterismo vescicale; stent ureterali e biliari, pazienti sottoposti a trapianto di midollo osseo (tmo), pazienti oncologici che hanno ricevuto chemioterapia citotossica pazienti sottoposti a trapianto di organi solidi.
Stomatite e mucosite: sono fattori di rischio l’azione lesiva diretta dei farmaci, l’anamnesi positiva per infezioni orali croniche, una scarsa igiene orale, uno stato nutrizionale carente, la pregressa radioterapia, l’alcool, il fumo di sigaretta, la terapia steroidea. La terapia si basa sulla rimozione dei foci infettivi, sull’igiene del cavo orale, sull’uso di anestetici topici, sulla profilassi per le infezioni fungine.
Diarrea: sono cause legate alla malattia nelle neoplasie GI, i carcinoidi, le fistole, l’occlusione intestinale («diarrea paradossa»), l’insufficienza pancreatica; le cause iatrogene sono i lassativi (++), gli antibiotici, i FANS, farmaci antiacidi e il malassorbimento post-CH; infezioni e malattie infiammatorie intestinali sono invece cause concomitanti.
Fecaloma («diarrea paradossa»), Stipsi: tra le cause si ricordano i farmaci oppioidi (morfina o simili), gli antiemetici e gli anticolinergici (antispastici); le disabilità legate sono l’allettamento, la malnutrizione, la disidratazione e la perdita di privacy. Sono cause legate della malattia masse addominali o pelviche, la disfunzione SNA, l’ipercalcemia, e sindromi neurologiche.
Tra le patologie accessorie si citano le emorroidi, le ragadi anali, le fistole. Il trattamento prevede l’uso di lassativi che aumentano la massa fecale (crusca), non usati spesso in cure palliative per il ridotto apporto idrico, lassativi lubrificanti (paraffina liquida), lassativi da contatto (senna, bisacodile) per effetto stimolante diretto. Trattamento di 1° scelta nella stipsi da oppioidi (possibili coliche); lassativi osmotici (lattulosio). Trattamento di 2° scelta, frequentemente associato a lassativo da contatto.
Il termine Palliativo viene spesso associato ad affermazioni come «inutile», «poco efficace», «marginale» ecc. In realtà il termine palliativo deriva da pallium, il mantello che costituiva la divisa dei cristiani dei primi secoli. Altre definizioni sono «…si prende cura di ciò che avvolge…», «…assistenza e accudimento…», «…rimedio che attenua il male senza guarirlo…», «…assistenza attraverso la somministrazione di cure attive e complete alla persona affetta da una malattia non più responsiva alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore, degli altri sintomi, e delle problematiche psicologiche, sociali e spirituali è di prevalente importanza».
Secondo l’European Association for Palliative Care: «…molti aspetti inerenti le cure palliative sono applicabili anche più precocemente nel corso della malattia, in parallelo con le terapie causali.»
«…affermano il valore della vita, considerando la morte un evento naturale. Il loro scopo non è di prolungare, né abbreviare la vita del malato. Offrono un sistema di supporto che sia in grado di aiutare il malato a vivere più attivamente fino alla morte (miglior qualità di vita possibile) e di sostenere la famiglia durante la malattia del congiunto e nel momento del lutto.
Tre i criteri contemporaneamente presenti:
Terapeutico: assenza, esaurimento o inopportunità di trattamenti curativi specifici.
Sintomatico: presenza di sintomi invalidanti che comportino una riduzione del «performance status» (<50 sulla scala Karnofsky).
Evolutivo: rapida evolutività della malattia con imminenza della morte (in genere entro 3 mesi)
Malato terminale
Si dice «malato terminale» il paziente affetto da una patologia attiva e progressiva a rapida evoluzione per cui ogni terapia causale non è possibile né appropriata, e il decorso della malattia stessa è infausto.
La previsione di vita di questi pazienti può variare da pochi giorni a diversi mesi (generalmente meno di 90-180 giorni).
Individuazione del setting terapeutico; assistenziale per il singolo paziente
Ridurre i rischi del sovratrattamento (accanimento terapeutico).
Ridurre i rischi del sottotrattamento (abbandono terapeutico).
Accurato bilanciamento tra obiettivi e qualità di vita.
Approccio olistico al malato, inteso come «prendersi cura» (to care).
Risposta ai bisogni, intesi come stato di necessità, del malato e della sua famiglia.
La casa, e non l’ospedale, è infatti il luogo in cui la personalità e l’individualità del morente può essere difesa fino all’ultimo; il nucleo familiare, con l’aiuto competente e solidale di una équipe multidisciplinare può garantire che gli ultimi giorni di vita trascorrano nella minore sofferenza possibile. La maggior parte dei malati preferirebbe passare gli ultimi giorni a casa piuttosto che in ospedale (91%) per motivazioni quali la maggior comodità (79%), la vicinanza dei familiari (87%), la maggior possibilità di distrazione (49%).
L’assistenza domiciliare CP prestata al malato in fase critica è in grado di agevolarne la permanenza a domicilio. Offre un aiuto e supporto competente alla famiglia, assistenza infermieristica adeguata, possibilità di erogare servizi 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno, utilizzo di personale opportunamente formato che lavori in équipe multidisciplinare, il buon controllo dei sintomi (competenza specifica).
Le condizioni minime per ammettere un paziente in assistenza domiciliare sono il consenso del paziente e della sua famiglia, la presenza continuativa ed adeguata di un familiare di riferimento, la diagnosi di patologia cronica ed evolutiva definita irreversibile, condizioni di non autosufficienza (KPS <50), una aspettativa di vita presunta non superiore ai 90-180 giorni, un livello di complessità sanitaria delle cure da erogare compatibili con l’ambiente domestico.
I malati che richiedono una degenza sono pazienti completamente soli (senza parenti di primo o secondo grado), pazienti con nucleo familiare fragile, incapace o senza motivazione a provvedere ad una assistenza domiciliare, pazienti che richiedono trattamenti complessi, non compatibili con l’ambiente domestico, condizioni abitative non adeguate.
La struttura residenziale di ricovero è a sé stante, con completa autonomia strutturale e funzionale, è dedicata esclusivamente alle cure palliative con particolare riguardo agli aspetti medico-infermieristici e psicologici e riservata ai malati in fase terminale che non possono temporaneamente o definitivamente essere assistiti a casa.
L’architettura è diversa dall’ospedale tradizionale: le stanze sono singole, ampie, con bagno personale, concepite per consentire al familiare di risiedere con il malato e di dormire con lui, possono essere anche personalizzate.
Non esistono limitazioni di orario alle visite: possono entrare i bambini e persino gli animali. Sono disponibili spazi comuni, dove i familiari possono restare col malato o tra loro, cucinare, leggere…
I TUMORI PIÙ DIFFUSI
Tumori del polmone
Epidemiologia
L’età più colpita è tra i 55 e i 65 anni. La sopravvivenza a 5 anni varia tra il 10% e il 30% in base allo stadio della malattia alla diagnosi. Ciò indica una mortalità ancora elevata (in Italia si stima che ci siano 35.000 morti/anno per cancro del polmone). L’incidenza del tumore del polmone è regolarmente e inesorabilmente aumentata nel corso degli anni: oggi, al contrario delle altre neoplasie, fa registrare un incremento annuo pari a circa lo 0.5%.
In Italia, con 35-40.000 nuovi casi all’anno, il cancro del polmone rappresenta la prima causa di decesso per neoplasia maligna e si rende responsabile del 29.3% delle morti per tumore nei maschi e il 7.9% nelle femmine.
I principali fattori di rischio per i tumori polmonari sono l’inquinamento atmosferico, l’esposizione ad agenti tossici di origine industriale (asbesto, radon, idrocarburi aromatici policiclici) e soprattutto il fumo di tabacco.
È stimato che il fumo di tabacco sia responsabile dell’80-90% dei nuovi casi di cancro del polmone. Inoltre l’80% dei morti nel sesso maschile e il 75% nel sesso femminile sono da associare al fumo. È stato calcolato che un uomo di 35 anni che fuma più di 25 sigarette al giorno ha il 13% di rischio di morire per cancro al polmone prima dei 75 anni, il 10% di morire per patologia cardiovascolare e il 28% per altre patologie associate al fumo. Sembra inoltre che il rischio di sviluppare il cancro del polmone in soggetti che fumano più di 40 sigarette al giorno sia di 60 volte superiore rispetto ai non fumatori. Il rischio di neoplasia polmonare aumenta con il numero di sigarette fumate al giorno, con gli anni di fumo, l’inizio del vizio in giovane età, il contenuto di nicotina e l’utilizzo di sigarette senza filtro. Mentre per annullare il rischio cardiovascolare legato al fumo sono necessari 3-4 anni, per annullare il rischio oncologico ne sono necessari 10-15.
Anche l’esposizione passiva al fumo di sigaretta è associata a un rischio relativo del 30-50% di sviluppare un carcinoma polmonare. L’attività carcinogenetica è data sia dalla componente corpuscolata (benzopirene, dibenzantracene, nicotina, nitrosamine, amine aromatiche) che dalla fase gassosa (idrazina, clorido di vinile).
Classificazione istologica
I tumori maligni del polmone si distinguono in carcinoma polmonare non a piccole cellule CPNPC
(75-80% dei casi) e carcinoma polmonare a piccole cellule CPPC o microcitoma polmonare (20-25%). La diagnosi istologica differenziale tra CPPC e CPNPC è di grande importanza clinica per la diversa strategia terapeutica da attuare. Il microcitoma polmonare spesso già alla diagnosi è disseminato con metastasi presenti ai linfonodi regionali, al midollo osseo, al fegato, al surrene, all’encefalo. Data la natura neuroendocrina delle cellule che danno origina al CPPC spesso esso si associa alla presenza di sindromi paraneoplastiche indotte da ormoni peptidici come la vasopressina e l’ormone adrenocorticotropo.
Diagnosi e terapia
Per una corretta diagnosi di tumore al polmone è importante indagare su segni e/o sintomi generici (astenia, tosse secca, emoftoe, dispnea, dolori toracici, raucedine) e più specifici (sindrome di Pancoast in caso di neoplasie dell’apice polmonare, sindrome oculo-palpebrale di Claude-Bernard-Horner, sindromi paraneoplastiche) per poi passare a indagini ematochimiche e strumentali (RX Torace, TC Torace) e, laddove possibile, alla definizione istologica della neoplasia (tramite agobiopsia e/o esame citologico) per poter ottenere una corretta valutazione dell’estensione della malattia stessa e programmare un adeguato piano terapeutico.
Nel CPNPC la chirurgia rappresenta la modalità terapeutica più efficace in grado di condurre a guarigione. La radioterapia è riservata ai pazienti non eleggibili all’intervento chirurgico ed è impiegata come terapia adiuvante alla chirurgia e come terapia palliativa per i pazienti con malattia disseminata (p. es. metastasi intracraniche e scheletriche). La polichemioterapia è utilizzata come modalità di terapia neoadiuvante, adiuvante e palliativa. Il farmaco di elezione è il cisplatino utilizzato con altri farmaci citotossici in associazione (p. es. docetaxel, vinorelbina, gemcitabina).
La polichemioterapia (il cisplatino associato ad altri farmaci) costituisce il trattamento di scelta del CPPC. Tale trattamento ottiene risposte globali dell’85-95% nella malattia limitata e del 65-85% nella malattia estesa.
Tra le terapie di ultima generazione che mirano a colpire soprattutto le cellule malate e non quelle sane si stanno utilizzando, in fasi avanzate di malattia già trattata, terapie con inibitori del recettore dell’EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor) tipo erlotinib, molecola espressa sulla superficie di cellule epiteliali normali e polmonari.
Tumori del colon-retto
Epidemiologia
Rappresenta la quarta neoplasia per incidenza nel mondo con circa 20.000 nuovi casi l’anno negli uomini e 17000 nelle donne; si presenta maggiormente nei paesi economicamente più avanzati. L’incidenza è in costante e in continuo aumento. Come causa di morte il tumore del colon-retto occupa il secondo posto dopo il cancro del polmone nei maschi e il terzo posto nelle donne dopo il cancro della mammella e del polmone. È prevalente nel sesso maschile (rapporto 2:1) ed è una malattia dell’età avanzata, con picco di incidenza trai 60 e i 70 anni con localizzazione nel retto nel 25-30% dei casi, a livello del sigma nel 15-20% dei casi, nel 20% nel discendente, 12% a livello del traverso e 15-20% nel colon prossimale.
I parenti di primo grado dei pazienti affetti da carcinoma del colon retto hanno un rischio 2-4 volte maggiore di sviluppare la malattia e alcune sindromi ereditarie come la poliposi adenomatosa familiare (FAP), la sindrome di Gardner, la sindrome di Turcot e la sindrome di Lync, tutte sindromi associate a forme di poliposi del colon, che portano a un elevato rischio di sviluppo di tali tumori. Importanza rilevante assume la dieta che, se ricca di grassi e povera di fibre, induce un aumento nella frequenza dei tumori del colon-retto.
Il tipo istologico più comune è rappresentato dall’adenocarcinoma (98% dei casi).
Diagnosi e terapia
Segni e sintomi importanti da non sottovalutare per una corretta diagnosi sono dolore, anemia e presenza di massa addominale nei tumori del colon destro; segni di ostruzione, turbe dell’alvo ed emorragia nei tumori del colon sinistro e del retto. Per una corretta stadiazione risultano utili l’esplorazione rettale, la rettosigmoidocolonscopia e/o il clisma opaco, l’ecografia transrettale e l’utilizzo di marcatori quali il CEA e il CA 19-9.
La terapia chirurgica è indicata negli stadi iniziali a scopo guaritivo, nella malattia in fase avanzata nel caso di interventi palliativi di deviazione intestinale in caso di tumori localmente avanzati non operabili o resezione di metastasi epatiche, o in caso di complicanze in urgenza.
La radioterapia adiuvante sulla pelvi, insieme alla chemioterapia, va considerata come trattamento standard aggiuntivo all’intervento chirurgico. Inoltre la radioterapia viene utilizzata nel trattamento delle recidive pelviche da carcinoma del retto come intervento palliativo per le localizzazioni sintomatiche oppure come trattamento isolato o combinato alla chemioterapia nelle forme localmente avanzate inoperabili.
La chemioterapia viene utilizzata sia in regime adiuvante dopo l’intervento chirurgico o insieme alla radioterapia nei tumori in fase iniziale, sia nei casi di malattia in fase avanzata.
I farmaci più utilizzati sono il 5-fluorouracile (con acido folinico e methotrexate), l’oxaliplatino, l’irinotecan e la capecitabina in varie combinazioni. L’anticorpo anti EGR (cetuximab) ha un’azione sinergica con alcuni di questi farmaci.
Tumori del sistema nervoso centrale
Epidemiologia
I tumori del SNC sono complessivamente rari e rappresentano circa il 2% di tutti i tumori. I gliomi rappresentano il 60% dei tumori del SNC il più comune dei quali è il glioblastoma multiforme, seguito dal meningioma e dall’astrocitoma. L’encefalo è spesso sede di metastasi di vari tumori quali il polmone (49%), la mammella (16%), tumori gastrointestinali (9%) e genitourinari (8%).
I tumori del SNC rappresentano la seconda causa di morte per cancro nei pazienti di età inferiore a 15 anni e la terza negli uomini adulti. Sono più frequenti nel sesso maschile.
Si è osservata un’aumentata incidenza dei tumori del SNC in casi di sindromi familiari quali la neurofibromatosi, la sclerosi tuberosa, la sindrome di Von Hippel-Lindau e alcune alterazioni cromosomiche sono state identificate in vari tipi di tumori cerebrali.
I tumori primitivi del SNC possono avere un’origine neuroectodermica (cellule gliali) o mesodermica (meningi, vasi ematici). I tumori neuroectodermici del SNC non possono essere mai considerati «benigni» in quanto, per la sede particolare in cui si sviluppano, possono condurre a morte l’ospite.
Diagnosi e terapia
I segni e i sintomi sono in rapporto alle dimensioni, alla sede e alla velocità di crescita del tumore e possono manifestarsi sintomi generali (cefalea, disturbi mentali, convulsioni generalizzate, nausea e vomito) o focali in relazione alla sede della neoplasia (epilessie localizzate, debolezza muscolare, disturbi sensoriali, del linguaggio e della vista). Utile quindi un accurato esame obiettivo clinico e neurologico con esame del fondo oculare e, come completamento della diagnosi, esami come la RMN e/o la TAC. L’esame istologico è indispensabile per escludere l’eventuale natura metastatica della lesione.
La prognosi peggiore si ha nei casi di glioblastoma multiforme in cui la sopravvivenza mediana è di 10-12 mesi e quella a 2 anni è del 10%.
Il trattamento di scelta è chirurgico mentre la radioterapia primaria è utilizzata nei pazienti non operabili. La chemioterapia rimane l’unica alternativa terapeutica nei pazienti che ricadono dopo il trattamento chirurgico e/o radioterapico. Le nitrosuree, essendo liposolubili, attraversano la barriera ematoencefalica per cui sono i farmaci più utilizzati in monochemioterapia.
Nei pazienti con astrocitoma anaplastico o oligoastrocitoma anaplastico in ricaduta di malattia, è utilizzata la temozolomide, agente implicato nella metilazione degli acidi nucleici e quindi nella sintesi del DNA cellulare. Tale composto ha prodotto risposte oggettive nel 35% dei casi con una sopravvivenza globale mediana di circa 13 mesi.
Steroidi ad alte dosi e terapia anticonvulsiva e diuretica sono efficaci nel ridurre l’ipertensione endocranica e la sintomatologia convulsiva.
Melanomi cutanei
Epidemiologia
Costituiscono il 3% di tutte le neoplasie maligne. L’incidenza più elevata si riscontra in Australia.
L’incidenza è in rapido aumento.
Patologia frequente nei giovani adulti, l’incidenza aumenta fino ai 50 anni. Il melanoma è una patologia soprattutto della popolazione bianca e di carnagione e capelli chiari e le sedi più frequenti sono il tronco nei maschi e gli arti inferiori nelle femmine.
I parenti di primo grado dei pazienti affetti da melanoma hanno un rischio maggiore di sviluppare la malattia; esistono inoltre rare forme di melanoma cutaneo ereditario. Lesioni cutanee da tenere sotto controllo perché più frequentemente associate allo sviluppo di melanomi cutanei sono: nevi displastici, nevi congeniti, lo xeroderma pigmentoso, pregressi melanomi.
L’esposizione ai raggi ultravioletti (UV) è un fattore importante per lo sviluppo del melanoma e questo non è solo in rapporto al livello cumulativo di esposizione solare ma anche al tipo di esposizione, col rischio più elevato associato a esposizioni acute, intense e intermittenti esitate in gravi scottature.
Il melanoma cutaneo può originare dalla trasformazione maligna dei melanociti dello strato basale dell’epidermide o da una precedente lesione pigmentata (70% dei casi).
Diagnosi e terapia
I segni e i sintomi iniziali del melanoma cutaneo sono costituiti da modificazioni a carico di una lesione pigmentata preesistente in relazione a colore, configurazione, dimensioni, superficie, cute circostante, sensazione, consistenza. Pertanto ogni lesione pigmentata che va incontro a trasformazione richiede un esame bioptico.
Il metodo più diretto quindi per ridurre la mortalità per melanoma è la diagnosi precoce, tramite un primo attento auto-esame delle modificazioni di una lesione pigmentaria facilmente visibile. A ciò si associano esami medico specialistici quali la microscopia a epiluminescenza e gli esami di stadiazione che permettono una corretta definizione dell’estensione della malattia.
La capacità di progressione è direttamente correlata allo spessore della lesione primitiva, al sito di insorgenza (risultando più sfavorevoli le lesioni sul collo e al torace) la presenza di ulcerazione, la crescita di tipo nodulare, la presenza di invasione vascolare e/o linfatica, il numero di linfonodi interessati.
La terapia del melanoma localizzato è chirurgica. La linfoadenectomia viene sempre praticata in caso di evidenza clinica di metastasi linfonodali. Nei casi di linfonodi regionali clinicamente indenni, ma ad alto rischio di metastatizzazione, viene praticata una linfoadenectomia elettiva. Vi è oggi grande interesse per tecniche di linfoadenectomia selettiva dopo esame istopatologico estemporaneo dei linfonodi sentinella identificati con linfoscintigrafia o linfografia intraoperatoria. La terapia della malattia disseminata si fonda sull’impiego di farmaci citotossici (dacarbazina, fotoemustina) e/o di strategie terapeutiche di tipo immunologico. Il melanoma infatti è una delle poche neoplasie umane in grado di indurre una risposta immune documentabile da parte dell’organismo; per tale motivo vengono utilizzate nelle forme avanzate e/o metastatiche terapie con Interferone, Interleuchine, Anticorpi monoclonali e vaccini.
Tumore della mammella
Il tumore della mammella rappresenta la neoplasia più frequentemente diagnosticata nelle donne dei paesi occidentali. In Italia ogni anno colpisce 31.000 donne causando 11.000 decessi.
Sebbene l’incidenza del cancro della mammella sia in continuo aumento, la mortalità, almeno a partire dagli anni ’90, sembrerebbe in diminuzione: solo in Europa tale diminuzione è stata del 7%. Questo incoraggiante decremento è attribuibile allo screening, a un maggior numero di diagnosi precoci, alle innovazioni nella terapia chirurgica e radiante e all’utilizzo di efficaci trattamenti adiuvanti.
L’eziologia del carcinoma della mammella, come per la maggior parte delle neoplasie, è multifattoriale. Tra i fattori di rischio quelli più rilevanti sono rappresentati:
Storia familiare: ben il 5% dei tumori della mammella è oggi infatti ritenuto ereditario, ossia direttamente correlato a mutazioni genetiche (tra cui i geni BRCA1 e BRCA2). Sono attualmente disponibili servizi di counseling genetico per studiare (tramite un banale prelievo di sangue) l’eventuale presenza della mutazione nell’individuo affetto dalla neoplasia e rispondente a determinati criteri di eleggibilità (p. es. età, numero di familiari affetti). Qualora venga rinvenuta la mutazione questa può essere ricercata anche nei familiari sani per poter, in caso di positività, pianificare la più idonea strategia preventiva (screening accurato, chemioprevenzione, chirurgia di profilassi).
Fattori ormonali (vista l’ormono-dipendenza della neoplasia mammaria): nubilato, menarca precoce, menopausa tardiva, nulliparità.
Stile di vita e fattori dietetici: elevato consumo di grassi, di carne, di alcool, ridotto apporto di fibre, vitamine e minerali.
Fattori ambientali: radiazioni ionizzanti.
Il quadro clinico del tumore della mammella, soprattutto all’inizio della sua storia naturale, è piuttosto povero di segni e sintomi (da qui l’importanza di seguire programmi di prevenzione ecomammografici).
Nella maggior parte dei casi il primo segno è rappresentato da un nodulo duro palpabile che, se espressione di una malattia ancora circoscritta al parenchima mammario e ai linfonodi regionali, guarisce quasi nel 100% dei casi con adeguato trattamento chirurgico ed eventualmente radioterapico complementare. La radioterapia postoperatoria permette, ormai da diversi anni, di eseguire trattamenti chirurgici altrettanto efficaci ma molto meno demolitivi, rispettando l’estetica femminile.
La radioterapia trova indicazione, oltre che dopo chirurgia conservativa, anche nel trattamento delle recidive locoregionali e della malattia metastatica a scopo palliativo (p. es. controllo del dolore nelle metastasi ossee).
Qualora il tumore della mammella sia già localmente avanzato, cioè infiltrante la cute o la parete toracica, gli attuali piani terapeutici prevedono un trattamento chemioterapico preoperatorio, al fine di ridurre la dimensione del tumore e consentire interventi chirurgici conservativi (quadrantectomia invece di mutilanti mastectomie). Questa chemioterapia, cosiddetta primaria, ha dimostrato da ormai numerosi studi clinici di aumentare sensibilmente il numero di interventi chirurgici conservativi e di ottenere una sopravvivenza libera da malattia e globale almeno simile a quella ottenuta con la chemioterapia adiuvante.
Si definisce, a tal proposito, chemioterapia adiuvante il trattamento postoperatorio atto a diminuire il rischio che alcune cellule tumorali, provenienti dal tumore primitivo ormai operato, possano essere già nel torrente ematico pronte a metastatizzare in altri organi (principalmente a livello osseo, encefalico, polmonare ed epatico). La terapia adiuvante del carcinoma mammario radicalmente operato rappresenta uno dei fiori all’occhiello dell’oncologia degli ultimi trent’anni. Ciò, come già precedentemente accennato, è dimostrato dalla riduzione della mortalità per tumore mammario negli ultimi vent’anni a fronte di un aumento di incidenza. In particolare la polichemioterapia (l’impiego di più farmaci contemporaneamente) riduce il rischio annuale di morte del 27% nelle pazienti con meno di 50 anni e dell’11% in quelle di età superiore.
I farmaci chemioterapici, ovviamente dopo adeguata valutazione del rapporto costi-benefici, trovano spazio anche nel tumore della mammella metastatico con l’obiettivo non di guarire ma di controllare l’evoluzione del tumore e migliorare la qualità di vita della paziente.
In tutti e tre i setting di malattia citati (circoscritta, localmente avanzata e metastatica) trova spazio, proprio in virtù della già ricordata ormono-dipendenza del tumore della mammella, la cosiddetta ormonoterapia. Risulta chiaro che l’espressione del recettore per gli estrogeni nel tumore è un importante criterio per la scelta della terapia ormonale: più elevato è il contenuto di recettori del tumore maggiore è l’efficacia della terapia ormonale.
Farmaco storicamente di riferimento della terapia ormonale, prima ancora dei recenti inibitori dell’aromatasi, è il tamoxifene che nel trattamento adiuvante si è dimostrato ridurre il rischio annuale di morte del 28% nelle pazienti con tumore primitivo positivo per il recettore estrogenino e ridurre significatamene l’incidenza di tumore mammario controlaterale. Da qui il notevole interesse della terapia ormonale anche nella chemioprevenzione, ossia nelle donne sane con mutazioni genetiche (BRCA1 o BRCA2) predisponesti ai tumori della mammella e dell’ovaio.
Per concludere, anche nel tumore della mammella trovano spazio le moderne terapie molecolari, come il trastuzumab, ossia terapie indirizzate contro specifici bersagli espressi dal tumore. Tali terapie rappresentano oggi la speranza più fondata di migliorare la prognosi e la qualità di vita di queste pazienti, riducendo inoltre gli effetti collaterali delle chemioterapie tradizionali.
Tumore della prostata
Il tumore della prostata è una delle neoplasie più frequenti nel sesso maschile. L’incidenza nella popolazione mondiale è variabile, più comune in Europa e ancor più negli USA rispetto all’Asia, e aumenta con l’età a partire dai 45 anni, facendo pensare alla presenza di fattori di rischio ambientali e legati allo stile di vita.
In Italia sono diagnosticati circa 11.000 nuovi casi l’anno con circa 6000 decessi annui.
Controverso rimane ancora oggi la validità degli esami di screening (esame rettale e valutazione sierica del PSA) nella diagnosi del tumore della prostata. Serie autoptiche hanno infatti mostrato che il 64% dei maschi tra i 60 e i 70 anni era portatore di tumori prostatici non diagnosticati in vita e quindi privi di segni e sintomi di rilievo; al contrario spesso le terapie antitumorali determinano invalidanti effetti collaterali come incontinenza urinaria e disfunzione erettile.
La scelta dell’opzione terapeutica dipende comunque dallo stadio della malattia, dall’età, dalle condizioni generali e dai livelli del PSA. La sola sorveglianza può essere indicata nei tumori agli stadi precoci e nei soggetti anziani.
La rimozione chirurgica della prostata, o prostatectomia, è il trattamento di elezione per i tumori prostatici negli stadi precoci e per i tumori non rispondenti alla radioterapia. L’intervento chirurgico radicale prevede come complicazioni tardive l’incontinenza urinaria e l’impotenza ma ha dimostrato sopravvivenze libere da malattia a 15 anni nell’85-95% dei casi negli stadi precoci. Anche la radioterapia trova uno spazio di rilievo nel trattamento del tumore della prostata. In particolare negli stadi molto precoci i risultati non sono dissimili da quelli ottenibili con la chirurgia. Nei tumori localmente avanzati al contrario i risultati sono meno favorevoli sia in termini di controllo locale che di sopravvivenza. Nel tumore della prostata ormai metastatico alle ossa la radioterapia ha un ruolo palliativo nel sollievo dal dolore.
La terapia ormonale, largamente utilizzata nel tumore della prostata, di rado è curativa perché di solito il tumore sviluppa resistenza nell’arco di uno o due anni. Tale terapia è dunque di solito impiegata quando il tumore si è espanso oltre la prostata; può impiegarsi anche in alcuni pazienti sottoposti a radioterapia o a chirurgia per prevenire le recidive. Il trattamento ormonale neoadiuvante, ossia prima dell’intervento chirurgico e al fine di migliorarne la radicalità, è stato valutato in diversi studi e con risultati incoraggianti.
Infine la chemioterapia è impiegabile, sebbene con risultati ancora insoddisfacenti, nella malattia metastatica diventata ormono-resistente al fine di ridurre la progressione e palliarne i sintomi.
Tumore dell’ovaio
Il carcinoma dell’ovaio è la seconda più comune forma di tumore ginecologico (17 ogni 100.000 donne ogni anno) e la principale causa di morte tra le neoplasie ginecologiche. Il picco massimo di incidenza è tra i 55 e i 65 anni di età. L’80% di questi tumori origina dall’epitelio, cioè dal tessuto che riveste l’ovaio; al contrario le donne giovani sono più facilmente colpite dai meno comuni tumori germinali.
Tra i fattori di rischio, oltre a fattori endocrini e ambientali, si riconoscono, come per il tumore della mammella, fattori genetici tanto che nel 5-13% dei tumori ovarici è stata riscontrata una predisposizione genetica più frequentemente in comune con quella determinante proprio il tumore mammario (geni BRCA1 e BRCA2).
La rimozione chirurgica il più radicale possibile rappresenta la terapia fondamentale per il carcinoma ovarico. Ai fini della sopravvivenza il volume tumorale residuo rappresenta il fattore più importante. È stato, infatti, dimostrato che le pazienti con residuo tumorale inferiore a 2 centimetri hanno una sopravvivenza a 5 anni pari al 42% mentre in quelle con residuo tumorale superiore a 2 centimetri la sopravvivenza è del 15%.
Tale intervento chirurgico prevede l’asportazione dell’utero, delle tube di Falloppio, del tessuto peritoneale (sito di metastatizzazione elettiva del tumore ovarico), linfonodi e a volte tratti più o meno lunghi dell’intestino. Questi reperti chirurgici vengono poi analizzati per accertare la presenza di eventuali cellule neoplastiche. Questa fase è decisiva per il successivo trattamento della malattia. Nella malattia avanzata, estesa cioè ad altri tessuti pelvici o con metastasi a distanza, l’obiettivo principale della chirurgia è la citoriduzione, ossia la rimozione di quanto più tessuto tumorale possibile per rendere più efficaci le terapie successive. In presenza di un’ampia massa può essere utile effettuare una chemioterapia primaria per ridurre il volume della neoplasia e rendere più agevole il compito del chirurgo.
Il carcinoma ovarico è infatti una neoplasia chemiosensibile. L’uso della chemioterapia negli ultimi anni ha incrementato la sopravvivenza mediana in caso di malattia avanzata, passando dai 10 ai 12 mesi degli anni settanta ai 37,5 mesi del 2000. In questi casi l’efficacia della chemioterapia è correlata al volume residuo dopo la chirurgia primaria.
Tumore dell’esofago
Il carcinoma dell’esofago è una neoplasia relativamente rara ma diffusa in tutto il mondo con un’incidenza superiore nei paesi asiatici. È più frequente nel sesso maschile e l’età media di insorgenza è intorno ai 65 anni.
I fattori di rischio sono quelli comuni ad altri tumori: alcool, fumo, dieta errata.
Il trattamento del tumore dell’esofago prevede in primo luogo la chirurgia che deve essere pianificata ed eseguita vagliando attentamente il rapporto costi benefici, ossia l’effettiva possibilità di guarigione (correlata alla localizzazione del tumore e all’interessamento di organi vicini come bronchi o trachea), la presenza di eventuali metastasi a distanza, le condizioni cliniche a volte già debilitate del paziente e la presenza di altre malattie.
L’intervento di solito consiste nell’asportazione del tratto di esofago interessato dal tumore, di un pezzetto dello stomaco e dei linfonodi regionali. Nei pazienti non operabili la chemioterapia accompagnata da radioterapia è il trattamento di scelta, dato che la combinazione delle due cure aumenta la sopravvivenza rispetto alle singole opzioni.
Tumore dello stomaco
Il tumore dello stomaco rappresenta una delle neoplasie più frequenti con circa 800.000 nuovi casi annui nel mondo e rappresenta ancora la seconda causa di morte per tumore. Negli ultimi anni, tuttavia, il numero di casi diagnosticati nei paesi occidentali è in diminuzione, un fenomeno che sembra dovuto, almeno in parte, al miglioramento dell’alimentazione e alla diminuzione del consumo di cibi conservati sotto sale o affumicati.
La diagnosi di carcinoma gastrico è purtroppo spesso tardiva e questo comporta l’impossibilità ad applicare terapie con intento curativo ma solo quelle di tipo sintomatico o palliativo. In linea generale comunque nei casi di malattia loco-regionale la chirurgia rappresenta il presidio terapeutico principale al quale è possibile associare la radio e la chemioterapia a scopo aggiuntivo.
Gli studi dimostrano risultati incoraggianti, anche per il tumore dello stomaco, dei cosiddetti farmaci intelligenti ossia a bersaglio molecolare (es. cetuximab).
Tumore del pancreas
Il tumore del pancreas ha tipicamente un decorso molto aggressivo e rappresenta la quarta causa di morte per tumore nel mondo occidentale. Colpisce maggiormente il sesso maschile e la popolazione anziana.
Negli ultimi decenni l’incidenza del cancro pancreatico è sensibilmente aumentata, sia in seguito al miglioramento delle tecniche diagnostiche, sia per un aumento generalizzato della aspettativa di vita.
La chirurgia rappresenta oggi il solo mezzo in grado di offrire ad una certa percentuale di pazienti (anche se relativamente piccola) una possibilità di cura. Nel 75% dei casi lo stadio della neoplasia al momento della diagnosi è già così avanzato che sono possibili solo provvedimenti palliativi.
Qualora le condizioni cliniche del paziente lo consentano al trattamento chirurgico si fa seguire un trattamento chemioterapico che rimane l’unica scelta possibile, sebbene non con lo scopo di allungare la sopravvivenza, nel trattamento della malattia avanzata.
Interessanti risultati si sono ottenuti, in questo setting di malattia, dall’associazione della gemcitabina, farmaco storico nella terapia del cancro pancreatico, con l’erlotinib.
Tumori del distretto cervico-facciale
Epidemiologia
Rappresentano il 3% di tutti i nuovi casi di tumori con un’incidenza massima tra i 70-75 anni. Sono più frequenti in alcune aree geografiche come nel sud-est asiatico (20 volte più frequenti che in Europa) per motivi legati all’ambiente o all’igiene di vita. Circa la metà delle neoplasie della testa e del collo si sviluppa nel cavo orale, il 30% nel laringe, il 7% nell’ipofaringe, il 10% nell’orofaringe.
L’uso del tabacco è il fattore di rischio più importante per i tumori della testa e del collo. L’aumento del rischio è direttamente proporzionale al numero di sigarette fumate al giorno e al numero di anni di abitudine al fumo. Il rischio è aggravato in maniera esponenziale dalla contemporanea esposizione all’alcool tanto che soggetti fumatori e bevitori sviluppano neoplasie di questo tipo con frequenza fino a 30 volte superiore in confronto ai soggetti non fumatori e non bevitori.
Nel caso dei tumori del nasofaringe esistono evidenze che in questa sede il virus di Epstein-Barr sia un potente cancerogeno. Anche i fattori irritativi cronici (cattivo stato della dentizione o protesi non corrette) come una scarsa igiene sono stati associati con un’aumentata incidenza di tumori del cavo orale.
Diagnosi
La sintomatologia varia a seconda della sede della neoplasia anche se i sintomi sono spesso tardivi e alcune forme sono asintomatiche. Nelle forme infiltranti vi può essere dolore, alterazioni motorie (tumori del pavimento della bocca e della lingua) e disfonia. Nelle forme vegetanti si possono osservare disfagia, rinolalia, paralisi di un nervo cranico, esoftalmo, sanguinamento. Di solito la diagnosi viene posta in seguito alla comparsa di uno o più di questi sintomi: dolore, tumefazione, funzione lesa. Dato che i tumori della testa e del collo hanno un’alta invasività locale, dopo la diagnosi istologica, è utile stabilire l’estensione della malattia con TC e RMN. Utile un RX torace per rilevare le eventuali metastasi polmonari frequenti in questi tumori.
La sopravvivenza a 5 anni è dell’80-90% nei primi stadi di malattia e del 30% negli stadi più avanzati. All’interno dei singoli stadi la prognosi è condizionata dall’interessamento linfonodale: a parità di stadio la prognosi è sensibilmente aggravata dalla presenza di linfonodi metastatici.
Terapia
Nella malattia limitata la chirurgia e la radioterapia radicale garantiscono un’alta percentuale di guarigione. Le neoplasie limitate alla mucosa possono essere trattate con intento radicale anche con la radioterapia con lo scopo di una migliore conservazione funzionale. Nelle neoplasie in fase localmente avanzata è praticato il trattamento combinato di tipo chirurgico-radioterapico. Nelle neoplasie avanzate l’approccio standard è il trattamento chirurgico associato alla radioterapia postchirurgica.
La radioterapia neoadiuvante è utilizzata allo scopo di riportare neoplasie voluminose entro i limiti della radicalità chirurgica. La chemioterapia con cisplatino, 5-fluorouracile, methotrexate è indicata nelle neoplasie avanzate con presenza di metastasi.
DIAGNOSTICA PER IMMAGINI IN ONCOLOGIA
RX torace
I raggi X passano facilmente attraverso gli spazi aerei e in qualche millesimo di secondo di esposizione si può effettuare l’esame radiografico standard del torace in stazione eretta (se le condizioni del paziente lo permettono) in due proiezioni postero-anteriore e latero-laterale. Tale indagine ci può dare una prima utile indicazione sulla presenza di alterazioni primitive o secondarie (opacità, calcificazioni, versamenti pleurici) del parenchima polmonare, delle vie aeree e dei grossi vasi.
Tomografia computerizzata (TC)
L’immagine tomografica è un’immagine radiografica a tutti gli effetti. Mentre la radiografia convenzionale dà un’immagine sintetica di tutte le strutture che il fascio di raggi X incontra, la tomografia permette di «separare» le strutture presenti nei diversi piani dando così un’immagine analitica di strutture presenti in strati pre-selezionati. Ciò permette di stabilire in maniera più precisa sede ed estensione di masse tumorali e il coinvolgimento di linfonodi e/o di strutture contigue o distanti dalla massa tumorale. Per migliorare la risoluzione delle immagini spesso si fa uso di mezzi di contrasto come sospensioni baritate a bassa concentrazione o mezzi di contrasto iodati.
Risonanza magnetica nucleare (NMR)
Questa tecnica non fa uso di radiazioni ionizzanti ma solamente di campi magnetici e onde a radiofrequenza con l’opportunità di orientare il piano di sezione a piacere. Utile complemento della TC soprattutto nello studio delle componenti quali tessuti molli e legamenti.
Pet
La Pet è una tecnica radiologica che utilizza radioisotopi (cioè molecole che emettono radiazioni rilevabili dall’esterno una volta immesse nell’organismo fornendo notizie non solo anatomiche ma soprattutto metabolico-funzionali) che possono essere incorporati in un numero illimitato di composti organici senza alterarne le caratteristiche biochimiche ma consentendo di acquisire in vivo immagini a contenuto biochimico-metabolico. In oncologia è spesso utilizzata per valutare il grado di malignità di un tumore in base al consumo di glucosio o per individuare tessuti neoplastici non visibili con le altre tecniche diagnostiche.
Ecografia
È una tecnica che utilizza gli ultrasuoni che vengono prodotti sfruttando la proprietà di alcuni cristalli di entrare in vibrazione ad alta frequenza quando eccitati da impulsi elettrici. È una tecnica innocua, pratica e rapida, molto utile per individuare alterazioni epatiche, poco utile per studiare encefalo, torace e tubo gastroenterico per presenza di osso, aria alveolare e gas intestinali che non permettono una giusta risoluzione delle immagini. Numerose manovre invasive diagnostiche e/o terapeutiche (biopsie, aghi aspirati, apposizione percutanea di drenaggi biliari, iniezione mirata di antibiotici, chemioterapici, antiblastici) possono essere eseguite sotto guida ecografica.
Scintigrafia ossea
Si esegue mediante iniezione endovenosa di composti fosfatici (pirofosfato) marcati con tecnezio-99 e scansione dopo 2-4 ore. Questi composti sono captati dalla matrice dell’osso in misura proporzionale al flusso ematico e al ricambio minerale del distretto interessato (iperconcentrazione fisiologica in sterno, colonna vertebrale ed articolazioni sacro-iliache). Questa tecnica è utile sia per lo studio di tumori ossei e del mieloma multiplo, sia per l’individuazione delle metastasi ossee frequenti in caso di tumori della mammella, del polmone, della prostata.
Endoscopia
I differenti tipi di endoscopia sono l’esofagogastroduodenoscopia (gastroscopia), la colonscopia, la rettoscopia, la broncoscopia, la cistoscopia, l’isteroscopia, la laringoscopia e la laparoscopia.
L’utilizzo di strumenti a fibre ottiche offre la possibilità di fare delle diagnosi precise e puntuali non solo grazie alla possibilità di un esame visivo ma anche perché tutti gli strumenti danno la possibilità di effettuare biopsie delle lesioni sospette. Sono esami invasivi e vengono effettuati sedando il paziente al fine di evitare qualsiasi disturbo.
LE CURE PALLIATIVE
Oggi si dibatte sull’accanimento terapeutico, sull’eutanasia, sulle cure palliative, ma sempre in maniera molto ideologica, come se si discutesse di partiti politici. Dibattiti e mass media si occupano di tutto ciò in modo molto distaccato e non sempre eticamente corretto.
Il termine palliativo deriva dal latino pallium che significa mantello. Le cure palliative quindi si pongono come un mantello sul paziente prendendosene cura in quanto persona. Sono riconosciute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che le definisce cura attiva che non ritarda né accelera la morte, come la forma più corretta per prendersi cura del malato in fase terminale. Esse accettano la morte come evento naturale, sono contrarie fermamente all’accanimento terapeutico, si prendono cura del paziente nella sua totalità come persona e non solo come portatore di una malattia letale, intervengono quando le terapie specifiche non danno risultati, si prendono cura della famiglia e pongono molta attenzione alle fasi del lutto.
Le cure palliative per il malato in fase terminale vista la complessità della natura umana intervengono con una équipe multiprofessionale con personale esperto e con una formazione specifica.
Il paziente in fase terminale presenta una varietà di patologie più o meno correlate alla neoplasia per cui l’operatore in cure palliative deve avere ampia conoscenza della clinica al fine di predisporre interventi idonei e personalizzati. Le cure palliative riposizionano l’uomo, in quanto tale, in primo piano e per questo motivo identificano la sofferenza che lo attanaglia nella fase terminale della vita come una forma di dolore non soltanto fisico ma complesso, la somma cioè di una serie di problematiche concatenate e/o concomitanti. Questo tipo di sofferenza, che coinvolge sia il fisico sia la psiche, è definita dolore totale.
IL DOLORE TOTALE
Dolore totale è una complessa definizione che abbiamo semplificato in dolore fisico e psichico ma che, in realtà, racchiude in sé varie sfaccettature. Possiamo suddividerlo in sette diverse componenti nel tentativo di schematizzare la complessità della sofferenza di un malato oncologico in fase terminale:
- dolore somatico
- dolore legato ai sintomi
- dolore psicologico
- dolore sociale
- dolore spirituale
- dolore burocratico
- dolore familiare
Il dolore somatico
È il sintomo che fa più paura. Esso attanaglia il paziente e può rendere la vita residua del paziente, atroce se non trattato adeguatamente. Il dolore impedisce al paziente di dormire, mangiare, parlare e pensare. È una tortura che grazie ai farmaci oggi disponibili è possibile annullare quasi completamente e quasi nel 100% dei casi. Il dolore è considerato una malattia nella malattia.
Il dolore legato ai sintomi
Il paziente in fase terminale può avere un corredo sintomatologico talmente importante da rendere la sua vita invivibile per le sofferenze. Dispnea, nausea e vomito, fatigue, costipazione e altri ancora sono tra i sintomi più frequenti e non vanno sottovalutati.
Il dolore psicologico
Il paziente perde la coscienza di sé. Perde fiducia in se stesso, si sente solo. Vive la sua vita al minuto, non riesce a programmare il futuro, non riesce a pensare al domani. Si chiude in se stesso. Piange. È angosciato. È inquieto. Ha paura. A volte si sente allontanato, altre volte compatito. Ansia e depressione incidono in maniera determinante sulla qualità di vita e spesso amplificano i vari sintomi.
Il dolore sociale
La persona malata in qualche maniera perde il suo ruolo nella società e la persona anziana in particolare non riveste più in essa per la maggior parte delle volte un ruolo attivo. A volte è vista come un peso, non è accettata nella casa dei figli o, se questo avviene, è relegata in una stanzetta. Partecipa poco alla vita familiare e se è ammalata di cancro in fase terminale non ha più un ruolo ma diviene il povero vecchio malato. Il paziente si sente inutile per una società che non trova un posto dove collocarlo, molto spesso si trova al centro di particolari dinamiche familiari, diviene oggetto di discussioni, ragionamenti, di amore e odio. Quando la famiglia invece è costituita solo dal partner anziano diviene tutto più difficile. Gli amici spesso spariscono, il malato non è più la persona con cui si possono scambiare quattro chiacchiere, parlare di calcio o di politica, è ritenuto malato e oltretutto morente per cui si preferisce evitare di andarlo a trovare.
Il dolore spirituale
Il paziente e la sua famiglia, credenti o non, attraversano un momento particolare della loro vita. Sono afflitti da crisi profonde che riguardano l’esistenza di Dio, il significato della vita, il significato della sofferenza.
Chi non accetta la malattia, e tanto meno la morte, cerca comunque un responsabile, molte domande sono «Perché Dio ce l’ha con me?», «Che peccati ho fatto per meritare tutto questo? », «Se Dio esistesse dovrebbe fare qualcosa?». Al contrario talvolta la consapevolezza della fine avvicina molti alla preghiera o alla ricerca di Dio.
Il dolore burocratico
Attanaglia tutti noi. Il paziente spesso vive gli ostacoli burocratici come ostacoli insormontabili. Le lentezze di alcune pratiche sono estenuanti, anche per le cose semplici. Per molti di noi sono banali, mentre per chi sta vivendo in uno stato di malessere diventano oggetto di ansia, angoscia, paura. Basti pensare alla richiesta di un semplice farmaco: fare la ricetta, andare dal medico di famiglia chiaramente nell’orario di studio, andare in farmacia. Questo ovviamente spetta al familiare che spesso deve lasciare il paziente solo in casa ad aspettare ansioso e pauroso. Quando invece occorre un presidio sanitario la lungaggine è enorme. Andare dal medico, portare un preventivo, andare alla ASL in orari non sempre sequenziali. Ogni cosa è complicata da una pratica da espletare in più sedi e per portarla a termine spesso occorrono ore e ore e in più giorni.
Il dolore familiare
È dovuto soprattutto alla mancanza di serenità della famiglia. La sofferenza, l’ansia, la paura della famiglia vengono trasmesse al paziente e questo incide sulla sua serenità in maniera determinante. Molte famiglie creano una specie di muro d’omertà attorno al paziente sia per quanto riguarda la diagnosi che, ancora di più, la prognosi. Si caricano di una responsabilità enorme poiché chiamati a prendere decisioni importanti quali: come, dove e da chi far curare il paziente.
La corsa a dover risolvere tutti i problemi del paziente e l’assoluto rifiuto dell’evoluzione della malattia o della morte causano inoltre la richiesta in maniera quasi ossessiva al personale che assiste il proprio caro di fare qualcosa che possa aiutare il paziente.
In altri casi inizia una corsa alla ricerca, come già accennato, della medicina che guarisce a tutti i costi o alle terapie miracolose. Tutto questo comporta per il paziente l’essere sottoposto a terapie inutili, a volte pericolose e che senz’altro comportano una forma di accanimento terapeutico senza senso accentuando la sofferenza. Spesso, in caso di peggioramento del paziente, si ricorre a ricoveri ospedalieri inutili, nascono litigi nelle decisioni familiari.
Questa breve disamina è solo una parte di tutto ciò che può derivare dalle varie dinamiche familiari Ma il dolore più forte per il paziente è provocato dall’indifferenza della famiglia a quello che accade, che lo ricovera in ospedale o in un cronicario o in un hospice perché non ha tempo di prendersi cura di lui.
Trattamento
Si evince dalla breve descrizione quanto possa essere complesso un trattamento per il «dolore globale». La semplice prescrizione di un farmaco o di gruppi di farmaci non risolve la sofferenza del paziente e della sua famiglia. Si crede ancora che saper fare un’iniezione di morfina dia al paziente la giusta risposta, che possa morire tranquillo. Si comprende inoltre che non è sufficiente un solo professionista per affrontare dei disturbi che riguardano la complessità della natura umana. Solo una serie di esperti potranno affrontare la situazione in maniera globale.
La sofferenza, essendo una cosa complessa, va affrontata nella sua totalità affinché si possa dire di aver contribuito attivamente a ridare dignità agli ultimi giorni di vita di un malato. Per comprendere meglio la sofferenza basti pensare ad un ragazzo innamorato che è lasciato dalla sua partner. Soffre e molto, gli serve a poco la pacca sulla spalla (l’iniezione), è un sollievo momentaneo, ha paura, è angosciato, si sente inutile, vede tutto buio davanti a se ecc. Ha bisogno di qualcosa di più, ha bisogno di essere compreso, aiutato, di avere qualcuno che sappia condividere, comunicare con parole adatte, che sappia ascoltare o che semplicemente sappia toccare la mano. In poche parole bisogna dare qualità alla vita rispettando il principio fondamentale che la qualità della vita è soggettiva, e la migliore è quella desiderata da ogni persona per se stessa.
Per un trattamento adeguato è quindi necessaria l’esistenza di una équipe multi professionale con competenze giuste e la preparazione specifica in cure palliative, che sia organizzata, che abbia la possibilità di riunirsi, che permetta agli operatori di condividere il proprio lavoro con gli altri membri nella massima libertà. Il gruppo ideale dovrebbe essere organizzato secondo una gerarchia orizzontale. Le decisioni e gli obbiettivi devono essere condivisi da tutti gli operatori e dal paziente ricordando che egli è il punto focale dell’assistenza insieme alla sua famiglia.
Gli addetti all’assistenza di un paziente in fase terminale sono spesso ben consci di intervenire dove tutti gli altri scappano, simili in questo compito ai vigili del fuoco. Come i vigili infatti devono saper lavorare in squadra, spesso in condizioni disagiate e ugualmente devono fare attenzione a non scottarsi. Il rischio che corrono gli operatori che si prendono cura di un malato terminale è il burn-out. Solo la condivisione e la competenza del gruppo può dare una risposta adeguata e soddisfacente ai bisogni del paziente e della sua famiglia ed evitare agli operatori stessi uno stato di sofferenza L’équipe multiprofessionale definita Unità Operative di Cure Palliative (UOCP) deve essere pertanto costituita da vari operatori: medici, infermieri, assistente sociale, psicologi, fisioterapisti, assistenti spirituali, volontari per garantire in completa sinergia al paziente una qualità di vita residua degna di essere vissuta e alla famiglia un supporto adeguato al lutto. Attualmente, come si era accennato, il paziente, specialmente se anziano ed in fase terminale, per lo più è assistito in casa presso cui ovviamente va assicurata una assistenza domiciliare o, più precisamente, delle cure palliative domiciliari.
Nei casi in cui questo non è possibile sono stati previsti, per ospitare i pazienti, dei posti letto dove in strutture molto simili ad una casa: gli hospice.
Cure palliative a domicilio
L’assistenza a domicilio va programmata e organizzata in modo da evitare al paziente e alla sua famiglia il senso di abbandono e di solitudine. Il paziente si trova a essere assistito in casa dopo che è stata posta una diagnosi infausta e dopo che, per arrivare alla diagnosi e per effettuare terapie specifiche è stato ricoverato in ospedale o è stato seguito in regime di day hospital.
La famiglia a casa spesso non trova un punto di riferimento nel suo territorio che sappia gestire la sua situazione complessa in modo soddisfacente, non si sente protetta, anzi si sente «buttata fuori» dall’ospedale. Per evitare tutto ciò è auspicabile che si sviluppi la cosiddetta dimissione protetta.
Dimissione protetta
Attualmente accade che il passaggio dall’ospedale al territorio avviene in maniera estremamente anonima, meccanica. Spesso infatti la dimissione protetta è identificata in un fax di segnalazione all’équipe domiciliare in cui sono riportati pochi parametri clinici. Il paziente non conosce gli operatori domiciliari né sa a chi sarà affidato, così per lui e per la sua famiglia inizia un periodo di paura e ansia. Se l’équipe non è ben strutturata il paziente richiede un nuovo ricovero ospedaliero per iniziare di nuovo l’iter.
Sarebbe ideale che il paziente e la famiglia avessero ben chiara l’evoluzione della malattia, che conoscessero gli operatori prima, in tempo utile quando il paziente è ancora ricoverato. La dimissione sarebbe senz’altro più dolce, meno traumatizzante e l’équipe di cure palliative domiciliari sarebbe inoltre integrata con l’équipe ospedaliera attuando così una vera forma di continuità assistenziale e ottenendo finalmente una dimissione protetta. A casa il paziente deve trovare già tutto predisposto affinché non si senta sperduto e affinché i suoi familiari non vaghino alla ricerca di farmaci o quant’altro. Utilizzando questi semplici accorgimenti si eviterebbe senz’altro una permanenza inutile del paziente in ospedale, o nella peggiore delle ipotesi, forme di dimissione forzata.
Criteri per l’attuazione di assistenza domiciliare
Per l’attuazione di una adeguata assistenza, tanto il paziente e la sua famiglia quanto la UOCP devono rispondere a dei requisiti ben precisi. L’assenza di queste caratteristiche espone in altissima percentuale al fallimento l’assistenza stessa.
I requisiti richiesti a paziente e famigliari sono la volontà del paziente di essere assistito in casa; la conoscenza dell’evoluzione infausta della malattia; che il paziente sia convivente con persona abile e collaborante; che il paziente abbia una famiglia ben strutturata e sia da essa accettato; che la casa sia adeguatamente ampia (almeno con una stanza da letto), sia su un solo livello o con barriere facilmente risolvibili e che la famiglia goda di condizioni economiche sufficienti.
Caratteristiche della UOCP per l’assistenza domiciliare
I requisiti che vengono richiesti all’organizzazione (segreteria, gestione logistica ecc. ) sono i seguenti:
– accettazione semplificata (ridotta burocrazia)
– la personalizzazione di un programma assistenziale
– una équipe multi professionale, formata da medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, fisioterapisti, assistenti spirituali, volontari
– il continuo aggiornamento della situazione del paziente tra i vari componenti dell’équipe
– un’adeguata attrezzatura portatile
– la borsa medico/infermiere contenente farmaci e presidi necessari all’assistenza e attrezzatura adeguata evitando cose inutili
– una cartella clinica medico infermieristica di facile consultazione da parte di tutti gli operatori
– l’elaborazione dati
– la formazione continua specifica in cure palliative e assistenza domiciliare
– la reperibilità medico infermieristica 24 ore su 24
– la fornitura farmaci, sangue ed emoderivati
– la fornitura di presidi sanitari come letto ospedaliero, sedia a rotelle, materassino antidecubito, pannoloni ecc.
– l’educazione sanitaria della famiglia
– la risoluzione delle problematiche burocratiche
– la capacità di tutto il personale di interagire con il paziente e la sua famiglia (counseling);
– la valutazione quantitativa e qualitativa dei risultati ottenuti (scomparsa o attenuazione sintomi, serenità nell’affrontare le varie situazioni che il paziente presenta ecc.) attraverso questionari, interviste ecc.
L’assistenza domiciliare va garantita tempestivamente in modo che non esista quel vuoto assistenziale che provoca ulteriore disagio al paziente e ai suoi familiari.
Consigli indispensabili per organizzare l’assistenza
– Individuare il familiare leader (care giver)
– modificare il meno possibile la stanza del paziente se è quella in cui lui è abituato a vivere
– non lasciare farmaci e presidi nella stanza o sui mobili (alcune stanze anche se belle sono ridotte a una sorta di infermeria magazzino)
– avere a casa tutti i farmaci ed i presidi che occorrono e che potrebbero occorrere nelle urgenze
– rimuovere eventuali ostacoli lungo i percorsi (tappeti, mobili ecc.);
– garantire al paziente la massima igiene personale, del letto e della stanza
– insegnare ai familiari, quando possibile, la mobilizzazione del paziente
– insegnare ai familiari e al paziente a tenere un diario per eventuali controlli
– ricordarsi sempre che la casa è del paziente e che non è una corsia ospedaliera
– rispettare la privacy
– adeguare gli orari di accesso domiciliare quanto più possibile alle esigenze del paziente e della sua famiglia
– lasciare i recapiti telefonici ben chiari e orari di reperibilità
– lasciare la terapia scritta in modo leggibile e se multipla schematizzare nomi dei farmaci e gli orari di somministrazione
– raggrupparli quando possibile per orari
– comunicare sempre chiaramente quando saranno effettuati gli accessi successivi e i nomi degli operatori.
Hospice
Quando non esistono i presupposti per una assistenza domiciliare o quando ormai la famiglia è stanca e stressata per il carico assistenziale si può prevedere un ricovero in hospice.
L’hospice dovrebbe essere un prolungamento della casa, con ambienti confortevoli, una stanza per paziente e con la possibilità di ospitare un parente; sono previsti ambienti comuni dove passare del tempo in compagnia. Laboratorio di ricerca e formazione, l’hospice deve essere fortemente inserito nella rete assistenziale. Non si tratta quindi di un luogo nel quale portare le persone a morire, ma di un ricovero dove i pazienti trovino la massima assistenza, dove la loro vita sia valorizzata fino all’ultimo secondo.
È inoltre un luogo che può aiutare ed alleviare il peso che grava sulle famiglie. L’inserimento in una rete assistenziale inoltre è indispensabile soprattutto per fare in modo che il paziente non si senta abbandonato dagli operatori che sempre lo hanno seguito a domicilio. In realtà la soluzione migliore sarebbe realizzare una unica équipe assistenziale che operi sia all’interno della struttura sia a domicilio. Il medico di famiglia dovrebbe essere inserito di diritto nella équipe assistenziale alla pari di qualsiasi altro operatore. Si sottolinea anche in questa sede che per la realizzazione di un vero hospice è fondamentale la formazione del personale. Sono fondamentali la competenza, l’umanità e la compattezza del gruppo. L’équipe è sottoposta giornalmente a forti stress, vede morire molte persone e questo può comportare diversi problemi comportamentali se non tenuti debitamente da conto e se non valutati per tempo (burn out).
È buona norma prevedere una figura esterna all’équipe in grado di intervenire nei gruppi a rischio (psicoterapeuta di gruppo).
Day Hospice
L’hospice deve prevedere anche l’assistenza diurna ai soli pazienti deambulanti che necessitano di monitorare particolari terapie o sintomi.
Per l’accesso in hospice è necessario che si verifichino le seguenti condizioni:
– il paziente è solo o con convivente non in grado di ottemperare alle problematiche domiciliari
– il desiderio desidera il ricovero
– la familiare manifesta stress
– la famiglia non è in grado di collaborare a domicilio
– il paziente non risponde ai requisiti per l’assistenza a domicilio
– la UOCP non risponde ai requisiti per l’assistenza a domicilio.
Si sottolinea che tra i criteri non sono contemplate problematiche di tipo sanitario. Si ritiene infatti che l’équipe domiciliare, se ben preparata, può risolvere a casa la maggior parte dei problemi che il paziente presenta durante l’evoluzione della malattia.
Considerazioni economiche
Le cure palliative oltre a garantire la migliore qualità di vita desiderata dal paziente, alti livelli assistenziali e terapie adeguate risultano anche essere la migliore via per realizzare un risparmio adeguato. Una giornata di assistenza domiciliare 24 ore su 24 costa mediamente un quarto del costo ospedaliero, in hospice un terzo.
TERAPIA DEI SINTOMI
Il trattamento della sintomatologia comprende in primo luogo la valutazione dei sintomi, quindi l’attento studio delle modalità di somministrazione dei farmaci.
A questo riguardo, si raccomandano nel trattamento di un malato terminale modalità di somministrazione semplici, gradevoli per il paziente e i familiari, facilmente gestibili e, non ultimo, a costi contenuti. La terapia deve aiutare il paziente e recargli beneficio, non deve essere una complicazione, per cui bisogna evitare i trattamenti invasivi inutili.
È da privilegiare la via orale, transdermica, per passare, quando questo è necessario, alla via sottocutanea e, solo se è indispensabile, alla via endovenosa. Vista la tipologia dei pazienti, la via intramuscolare, che nel nostro paese è molto utilizzata, dovrebbe essere usata solo in casi eccezionali.
Il dolore somatico
Considerazioni generali
Il dolore viene generalmente suddiviso in dolore somatico, viscerale, neuropatico. Il trattamento comunque è spesso sovrapponibile.
Va sempre condotta una accurata anamnesi: sito del dolore, descrizione dell’intensità e della durata, tempi di insorgenza, legame con movimento o azione, legame con la neoplasia, indipendenza da essa o preesistenza. Il dolore va sempre trattato; tuttavia ancora oggi questo importante sintomo non trova un adeguato trattamento in circa il 50% dei pazienti affetti da cancro.
Il dolore è un sintomo strettamente soggettivo. Va sempre considerato quello che il paziente riferisce; bisogna credere al paziente. Ogni scelta terapeutica va attentamente vagliata e spiegata in modo corretto al paziente ed ai suoi familiari; soprattutto vanno spiegate con chiarezza le aspettative. Tutto ciò va effettuato al fine di far partecipare il paziente e/o la sua famiglia nella scelta più adeguata.
Trattamento non farmacologico
Rientrano in questo ambito:
– un giusto posizionamento del corpo
– materassi comodi, cuscini adeguati
– la fisioterapia
– corpetti di sostegno ecc.
– tecniche di rilassamento
– la psicoterapia
– la radioterapia palliativa (spesso la radioterapia con spot brevi riesce a risolvere la sintomatologia dolorosa in caso di metastasi ossee).
Trattamento farmacologico
I farmaci vanno somministrati sempre a orari fissi. È preferibile evitare il trattamento al bisogno. Tra i mezzi da utilizzare si ricordano i comuni FANS, gli oppioidi minori, gli oppiacei coadiuvati da cortisonici e/o gli antidepressivi e gli ansiolitici.
L’OMS ha proposto uno schema a tre gradini per il trattamento farmacologico del dolore oncologico. Va subito specificato che è uno schema di minima.
FANS
Al primo gradino troviamo i farmaci non oppioidi (FANS, acronimo di «farmaci antinfiammatori non steroidei») con o senza adiuvanti. Sono tra i più comuni analgesici (acido acetilsalicilico, nimesulide, diclofenac, ibuprofene ecc.). Hanno effetti collaterali che vanno sempre prevenuti, senza aspettare che compaiano (tra questi ricordiamo lesioni gastroduodenali, alterazioni della coagulazione, danni a livello renale).
Nel trattamento del dolore cronico, la terapia analgesica è sempre accompagnate dall’uso di protettori della mucosa gastrica.
Per i FANS esiste il cosiddetto «effetto tetto»: questo tipo di medicinali presenta infatti un limite legato alla dose per il quale l’efficacia dell’analgesia non aumenta con l’aumentare la dose, mentre aumentano gli effetti collaterali.
Oppioidi deboli
Al secondo gradino troviamo i cosiddetti oppioidi deboli associati ai FANS con i farmaci adiuvanti.
In questo gruppo sono stati inseriti diversi farmaci tra cui la pentazocina, la buprenorfina, ultimamente anche il tramatodolo. Sono farmaci che hanno una buona azione sul sintomo dolore. Effetti collaterali sono sonnolenza, stipsi, dissociazione, ipotensione. In particolare, l’uso della pentazocina non è raccomandabile ed è da evitare nel trattamento del dolore oncologico cronico in quanto occupa i siti recettoriali deputati ad essa, per cui il successivo trattamento con oppioidi forti può scatenare delle vere e proprie crisi di astinenza senza ottenere alcuna forma di analgesia.
La buprenorfina risente come i FANS del cosiddetto effetto tetto. Il tramatodolo è un farmaco paragonabile ai FANS, con minore effetti collaterali sul sistema gastroenterico. Può causare problemi seri in associazione agli oppioidi.
Oppioidi
Terzo gradino: oppioidi forti associati più o meno ai FANS e agli adiuvanti.
Sono gli analgesici più potenti e meglio responsivi. Tuttavia esiste molta reticenza nell’uso di questi farmaci. Per molti operatori, ancora oggi, il loro uso va infatti limitato alle ultime ore di vita. Tale è la disinformazione che in molti casi pazienti e familiari, informati della terapia con gli oppioidi, si convincono che resti pochissimo tempo.
È bene ricordare alcuni principi fondamentali:
– gli oppioidi sono i migliori analgesici in nostro possesso
– non sono tossici anche nei trattamenti prolungati
– non danno depressione respiratoria per via orale, sottocutanea ed intramuscolare (solo sopradosaggi elevati per via endovenosa o subaracnoidea possono essere pericolosi, ma si controllano facilmente con il naloxone, loro antagonista)
– non esiste dipendenza nel trattamento del dolore (la dipendenza fisica si stima in 4 su 12.000)
– non esiste l’effetto tetto, per cui si possono raggiungere anche dosaggi molto elevati
– la dipendenza psicologica è abbastanza rara
Sono effetti collaterali la stipsi (può divenire un sintomo ed è molto importante prevenirla), la sonnolenza, la dissociazione, le allucinazioni (questi ultimi di solito regrediscono con il tempo).
Altri farmaci (utilizzati soprattutto in presenza di metastasi ossee)
Rientrano in questo gruppo i difosfonati, il sodio pamidronato e l’ormonoterapia (per esempio nel carcinoma prostatico). Nei casi resistenti di carcinoma prostatico si utilizza lo strontium 89 con buoni risultati.
I farmaci adiuvanti
Tra i molti farmaci adiuvanti usati nella terapia del dolore si ricordano gli ansiolitici e gli antidepressivi; di uso comune è specialmente il cortisone, il quale associa il suo potere antiedemigeno ed antinfiammatorio all’effetto ormonale con conseguente aumento di tono, di appetito ecc.
Come somministrare i farmaci
Via orale
Se possibile, si raccomanda la somministrazione per via orale. Anche per gli oppioidi l’OMS raccomanda questa via soprattutto dopo la comparsa di morfina a lento rilascio e di gocce o sciroppi di morfina. La via sub-linguale viene anche utilizzata abbastanza frequentemente nel dolore incidente.
Via sottocutanea
È, dopo quella orale, la via migliore e la meno invasiva. È utilizzata in alternativa alla via endovenosa soprattutto per gli oppioidi. Si utilizza un ago a farfalla o un’agocannula collegati a pompe infusionali (il massimo volume iniettabile è 1ml/ora). La tecnica permette l’utilizzo nelle 24 ore e garantisce la massima copertura del sintomo. Si consiglia una dose start pari ad ¼ della dose giornaliera.
La via rettale
Si possono utilizzare supposte o microclismi medicati. Tale metodica, anche se dà ottimi risultati, non è di solito ben accetta dal paziente (il dosaggio da utilizzare è sovrapponibile a quello per via orale).
Via endovenosa
È la metodica più efficace ed immediata; per il trattamento in infusione continua si preferisce l’utilizzo di pompe attraverso un catetere venoso centrale (se già inserito precedentemente).
Via spinale
è utilizzata per dolori intensi, localizzati per esempio in sede pelvica, arti inferiori ecc. che richiederebbero un elevato dosaggio di oppiacei. Funziona con infusione continua – con pompe – o intermittente mediante cateteri con porth o reservoir sottocutanei (è una terapia invasiva e fastidiosa, con effetti collaterali non trascurabili. La durata dell’efficacia va dai 30 ai 60 giorni).
Via transdermica
Effettuata con apposizione di cerotti (fentanyl transdermico) che hanno la durata di circa 72 ore.
Il trattamento è molto utile se la cute è integra. All’inizio, sono necessarie 15 ore per ottenere un risultato analgesico adeguato. Il cerotto ha gli stessi effetti collaterali della morfina, ma minore effetto sulla stipsi.
Il dolore neuropatico
Gli oppioidi da soli hanno scarso effetto; utile è l’associazione con gabapentin o carbamazepina e cortisonici. In alcuni casi, dopo un certo periodo la morfina non riesce più a garantire la copertura del sintomo dolore. Pertanto è utile l’alternanza degli oppioidi per poi ritornare alla morfina.
La dispnea
È un sintomo presente nel 70% dei pazienti in fase terminale e può essere legato a malattie pregresse o al tumore stesso. La sensazione di fame d’aria è uno dei sintomi che attanaglia il paziente, gli impedisce il movimento, il colloquio. Crea un senso di panico, paura, ansia, che a loro volta, come un circolo vizioso, aumentano la dispnea stessa.
Trattamento
Rientrano nel trattamento della dispnea:
– un posizionamento semiseduto
– adeguate tecniche di rilassamento
– la ginnastica respiratoria
– eventualmente la toracentesi
– l’ossigeno terapia (in alcuni casi risulta efficace, ma non sempre),
– l’uso di broncodilatatori, cortisonici, diuretici, morfina per via orale o sottocutanea.
L’ossigeno in alcuni casi è una scelta più di tipo psicologico per i parenti che per il paziente stesso, poiché non dà alcun sollievo. In molti casi la dispnea è dovuta ad un accumulo di liquido nella cavità toracica. La toracentesi (evacuazione del liquido tramite infissione di un ago nella parete toracica) potrebbe essere giustificata se con i mezzi farmacologici non si riesce a controllarne la produzione. Spesso però le toracentesi devono essere ripetute troppo frequentemente. In alcuni casi si ovvia con il talcaggio (immissione di talco nella parete toracica che provocando una pleurite secca impedisce il riformarsi di liquido) o con altri irritanti chimici, metodiche che dovrebbero essere limitate al paziente con ancora un «performance status» buono (I.K. 60 /70).
La dispnea nelle ultime 48 ore dovrebbe ricevere un trattamento solo con morfina. Se presente muco in abbondanza, che il paziente non riesce ad espellere, vanno evitati fluidificanti e impiegati esclusivamente farmaci atropino-simili per ridurne la produzione. Sono da evitare assolutamente le aspirazione endotracheali, che risultano in questi casi una inutile tortura, nonché l’utilizzo di anestetici locali nebulizzati, che non danno alcun beneficio mentre aumenta il rischio di broncocostrizione.
Il singhiozzo
È un sintomo frequente, difficilmente oggettivabile e spesso sottovalutato, che comporta per il paziente un disturbo evidente con conseguente insonnia, astenia, anoressia, depressione, ansia.
Trattamento
Valgono i celebri «consigli della nonna» (bere sette sorsi d’acqua senza respirare, una condizione di paura, respirare in un sacchetto ecc.). Tutti comunque sono orientati empiricamente al trattenimento del respiro. In realtà hanno un effetto in quanto il centro del singhiozzo è inibito dall’aumento della concentrazione di CO2 (anidride carbonica).
Tra i farmaci utili per la cura del singhiozzo si citano i farmaci antagonisti della dopamina, la metoclopramide, l’aloperidolo, la clorpromazina, i GABA antagonisti, il baclofene.
L’utilizzo della clorpromazina o dell’aloperinolo va limitato ai casi più resistenti.
La stipsi ostinata
Lo scarso movimento e il cambiamento della alimentazione accentuano un sintomo spesso già presente in precedenza, che è ulteriormente accentuato da terapie con oppioidi, antispastici, sedativi, diuretici ecc. È un sintomo che si può prevenire per evitare al paziente, già fortemente provato, manovre fastidiose per la formazione di fecalomi.
Trattamento
Nel trattamento di questo sintomo è bene osservare le seguenti accortezze:
– rispettare la privacy e l’intimità
– accompagnare il paziente nel bagno
– preferire sempre la comoda alla padella
– consigliare l’assunzione di frutta cotta
– evitare l’assunzione di crusca o alimenti integrali (possono peggiorare la stipsi).
Sono farmaci utili i seguenti:
– la senna
– i lassativi osmotici (lattulosio, mannitolo ecc., che però possono causare meteorismo e o dolore addominale)
– i lubrificanti (olio di paraffina), caratterizzati però da un sapore sgradevole
– i lassativi salini, anche se possono causare forti dolori addominali
– il domperidone e la metoclopramide.
Trattamenti locali
Si usano principalmente supposte di glicerina, clismi di glicerina (da evitare in presenza di emorroidi).
Trattamento dei fecalomi
Queste le pratiche previste in caso di presenza di fecalomi (accumulo di feci che non riescono ad essere espulse):
– svuotamento manuale (da effettuare sempre dopo premedicazione locale e generale con gocce di analgesico per via sublinguale o sciroppo di morfina)
– enteroclismi (ampolla vuota, utilizzare una sonda rettale morbida lunga, acqua tiepida con olio di arachidi o paraffina, oppure un clisma salino con olio).
Nausea e vomito
Sintomi che ovviamente hanno diverse componenti che possono essere di tipo centrale e/o periferico. Conducono facilmente all’anoressia. A volte sono responsabili i fenomeni subocclusivi o l’occlusione intestinale franca.
Trattamento
– evitare «pappe», sapori sgradevoli, odori sgradevoli.
– preferire pasti piccoli e frequenti, cibi e bevande fredde ( i cibi caldi stimolano il vomito)
– presentare il cibo con attenzione (evitare piatti enormi e stracolmi)
– personalizzare i cibi (cucinati come sempre o come piace al paziente).
I farmaci utili sono la metoclopramide, l’ondansetron o simili. Il sondino nasogastrico sarebbe da evitare il più possibile in quanto fastidioso e invasivo; meglio limitarne l’uso ai casi di occlusione intestinale.
In caso di nausea, i farmaci possono ancora essere somministrati per via orale, ma in presenza di vomito vanno somministrati per via parenterale, preferibilmente per via sottocutanea. In caso di occlusione è da valutare attentamente la reidratazione in quanto tale (è come riempire un recipiente bucato). A volte basta limitarsi a togliere il senso della sete e reintegrare eventuali elettroliti.
La fatigue
Di solito viene definita «astenia». È un fenomeno multidimensionale che si sviluppa nel tempo e si caratterizza per l’estrema stanchezza, il senso di debolezza, la mancanza di energia, il bisogno di riposare in maniera non proporzionale alle attività sostenute. La mancanza di energia interferisce con le capacità mentali e psicologiche del paziente. Nel paziente con tumore, la fatigue è da ritenere il secondo sintomo in ordine di importanza dopo il dolore. L’anemia sembra avere una correlazione importante ed è direttamente proporzionale alla fatigue.
Trattamento
Sono importanti i diversivi, come la musica, la lettura, le parole incrociate, la terapia occupazionale ecc. è bene gestire lo stress tramite tecniche di rilassamento ed esercizio mentale.
I farmaci utilizzati per correggere questo sintomo sono l’acido folico, l’eritropoietina, i cortisonici; all’occorrenza si ricorre all’emotrasfusione.
Anoressia/cachessia
È uno dei sintomi che fanno parte del processo naturale del morire; strettamente correlato alla prognosi, crea molti problemi emozionali nel paziente e nei suoi familiari.
Trattamento non farmacologico
Questi gli interventi da prevedere:
– educare i familiari ( il cibo non deve essere l’argomento principale)
– curare l’igiene buccale
– mobilizzare il paziente, non farlo mangiare da solo, utilizzare le pietanze che più gradisce
– evitare piatti strapieni.
Trattamento farmacologico
Tra i farmaci usati nella cura di questo sintomo si segnalano:
– i cortisonici, che hanno effetto per brevi periodi e non incidono sul peso
– il medrossiprogesterone acetato e il megestrolo acetato; sono ben tollerati e danno aumento di peso e senso di benessere.
– la melatonina (a volte porta aumento di peso e senso di benessere)
– nutrizione artificiale (enterale parenterale); un mezzo invasivo che incide in maniera negativa importante sulla qualità di vita mentre non sembra incidere assolutamente sul senso di benessere; non dà aumento di peso ed è difficile da gestire.
ANTEA
Antea è un’associazione ONLUS nata nel 1987 a Roma. È stata una delle prime associazioni in Italia a prendersi cura e assistere i malati in fase terminale a casa 24 ore su 24. Con i suoi 15 medici, 22 infermieri, 2 fisioterapisti, 2 psicologi, un assistente sociale, 3 operatori di segreteria sanitaria, 5 operatori sociosanitari e 80 volontari, ha assistito gratuitamente circa 32.000 persone: 8000 pazienti e le loro famiglie. Gli operatori di Antea sono stati definiti come «i vigili del fuoco» che intervengono dove tutti gli altri scappano. Attualmente l’associazione assiste oltre 1000 pazienti per anno, dai bambini agli ultranovantenni. Tra questi spesso ci sono delle persone completamente sole. Nel 1999 il Ministero della Sanità ha stanziato dei fondi per la realizzazione delle strutture hospices.
Nel 1999 la Regione Lazio ha finanziato il progetto ANTEA e nel 2000 abbiamo inaugurato il nostro hospice. L’hospice è integrato in una rete domiciliare, l’équipe, di cui fanno parte in primis il paziente, la famiglia e il medico di base, ed è la stessa sia che operi a casa sia in hospice.
Il paziente in fase terminale ha bisogno, viste le sue esigenze, di vari professionisti che sappiano lavorare in squadra. In questo modo si è evitato di realizzare una «casa della morte» o un «moribondaio», un luogo cioè completamente isolato, dove nascondere le persone malate. Con l’hospice il tasso di ricovero ospedaliero per i pazienti che seguivamo a domicilio è sceso dal precedente 18% a circa l’1%.
ANTEA ha progettato una dimissione protetta che garantisce un passaggio in cura più dolce e allo stesso momento una conoscenza più approfondita della situazione clinica e psicosociale del paziente. Il personale lavora in squadra, con una forte motivazione, ha la formazione specifica e la competenza necessaria per garantire alle persone assistite; che stanno affrontando l’ultimo percorso della loro vita, la dignità ed il valore della vita stessa.
Uno degli scopi dell’ANTEA è formare personale esterno al fine di diffondere le cure palliative su tutto il territorio nazionale.
Per questo ha realizzato un centro studi per la ricerca e la formazione, ANTEA formad, convenzionato con diverse università. Antea formad ha realizzato per la prima volta in Italia master universitari in medicina palliativa per medici e infermieri. Ha formato oltre tremila operatori sanitari. Ha sviluppato inoltre l’area della ricerca al fine di studiare e ricercare i migliori farmaci, la migliore organizzazione ed il miglior atteggiamento per prendersi cura di un paziente che ha bisogno delle cure migliori per affrontare gli ultimi mesi della sua vita senza una sofferenza inutile.