Saggio di redazione
Saggio di redazione
La cerimonia inaugurale
Inizia – in un’esplosione di luci, colori e percussioni martellanti – la XXIX edizione dei Giochi Olimpici. Di fronte ai volti stupiti dei novantamila spettatori presenti allo stadio Nido d’Uccello di Pechino (e dei quasi quattro miliardi che assistono davanti agli schermi di tutto il mondo), una bambina dalla voce angelica canta (in playback, si saprà poi) l’inno cinese, circondata da cinquantasei coetanei appartenenti alle diverse etnie cinesi in festa sotto l’alzabandiera. Sullo sfondo, intanto, il cielo e la città sono illuminati dai fuochi artificiali.
Sono solo alcuni dei momenti della imponente cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino, avvenuta l’8 agosto 2008 e diretta dal grande cineasta Zhang Yimou. Attraverso le quattro ore della performance, gli spettatori hanno potuto ripercorrere la favolosa storia della Cina – in bilico tra tradizione e innovazione, tra presente e futuro – assistendo, su uno sfondo dominato dal rosso, coreografie perfette di corpi indistinguibili capaci di muoversi con una coordinazione quasi magica.
Si è trattata di una manifestazione energica, emozionante ed elegante al tempo stesso, che ha avuto il chiaro intento di mostrare al mondo il volto sereno e solenne di una nazione che, dai fasti imperiali, si è inginocchiata alla sottomissione di invasori e dittature risollevandosi infine come riconosciuta potenza economica del pianeta. Il messaggio delle Olimpiadi, insomma, è questo: presentare la Cina moderna al mondo: nonostante il dramma del Tibet e la censura in internet; nonostante la persecuzione del movimento spirituale Falun Gong e i rapporti con la Chiesa cattolica; nonostante la politica di aborti delle figlie femmine e le esecuzioni capitali.
Dopo la spettacolare apertura è stato il momento della sfilata dei Paesi partecipanti: Grecia in testa, Cina in coda e tutte le altre nazioni in rigoroso ordine alfabetico (naturalmente, quello ideografico cinese). Solo a quel punto, la fiaccola dei dissensi – trasportata da Olimpia, in cui è stata accesa, sino a Pechino attraversando città, manifestazioni e tentativi di boicottaggio – è stata posta nel tripode nel cuore dello stadio, dove è rimasta accesa per tutta la durata delle gare. Emblema dell’ardente sforzo atletico, l’ultimo tedoforo della torcia è stato un ex atleta, Li Ning, primo cinese a vincere, nelle olimpiadi di Los Angeles, ben sei medaglie di cui tre ori.
I premi
Il bilancio, al termine delle gare, ha visto la Cina interpretare la parte del leone, forte di un gruppo di atleti preparati perfettamente e duramente sin dalla più tenera età. Al Sol Levante sono andate cento medaglie (di cui cinquantuno d’oro), seguita dagli Stati Uniti che, su centonove medaglie complessive, ha ottenuto trentasei ori. Molti i record che (come era prevedibile) sono stati doppiati, pochi ma sensazionali i colpi di scena.
Al giamaicano Usain Bolt il merito di aver stabilito i nuovi primati mondiali dei 100 e 200 metri piani, dimostrando una potenza fisica fuori dal comune; allo statunitense Michael Phelps quello di aver vinto ben otto ori che, sommati ai precedenti, fanno di lui l’atleta che ha ottenuto più podi nella storia delle olimpiadi. E, ancora: l’eccezionale argento nel kayak vinto da Josefa Idem, la quarantatreenne tedesca da anni gareggiante per l’Italia e l’oro nel trampolino da 10 metri, strappato all’ampio medagliere cinese dal ventenne australiano Matthew Mitcham.
Beijing
Mascotte ufficiali dei giochi olimpici sono state cinque fuwa, le bambole della fortuna disegnate da Han Meilin. Ogni bambola rappresenta un animale e un elemento della cultura cinese: Beibei è un pesce, Jinjing un panda gigante, Huanhuan rappresenta la fiamma olimpica, Yingying un’antilope tibetana e Nini è una rondine. Unendo la prima sillaba di ogni nome, si ottiene la frase Bei Jing Huan Ying Ni: «Pechino vi da il benvenuto».
Abitata da circa 14 milioni di persone, Pechino, o Beijing, è la «capitale del nord». La città dove si sono svolti i quattordici giorni olimpici è una delle città più popolose della terra, centro politico e amministrativo della Repubblica Popolare Cinese; ma anche centro culturale, patrimonio UNESCO, attraversata dalla Grande Muraglia e sede della Città Proibita.
Sottoposta al test olimpico, Pechino si è comportata magistralmente: organizzazione perfetta, sorrisi in abbondanza, città tirata a lucido. Per l’occasione sono stati effettuati importanti lavori di restyling che ne hanno modificato drasticamente la fisionomia, sono state costruite nuove strutture alberghiere ed edificati milioni di metri quadri di superfici. L’aeroporto internazionale è stato rinnovato e vi è stato aggiunto un terzo futuristico terminal portato a termine in soli tre anni.
È stata decisa, inoltre, la costruzione di uno stadio dedicato ai giochi, the Bird’s Nest, progettato dallo studio svizzero Herzog & de Meuron: la struttura, dalle forme leggere, aeree e morbide, è in realtà l’intreccio di tonnellate di cavi in acciaio ricoperte da nuovi materiali protettivi e rappresenta il nido (il nest appunto) in cui proteggere le migliaia di spettatori.
La ristrutturazione urbanistica che ha preceduto i giochi e che ha reso Pechino per quattordici giorni la vetrina della Repubblica Popolare asseconda e rimarca il ruolo nuovo della Cina come superpotenza economica mondiale. Secondo le stime della Fondazione Carnegie per la pace internazionale, nel 2035 il PIL della nazione supererà quello statunitense e, attualmente, tre imprese asiatiche rientrano all’interno della classifica del «Financial Times» tra le società più influenti a livello internazionale.
Eppure un impalpabile velo di tristezza ha strozzato la gioia e i fasti di quelle settimane: la sensazione malinconica di un dolore malcelato, nascosto nelle strade tra paura e sospetto, negli sguardi di chi ha perso i propri cari durante la rivoluzione, per l’ingestibilità di una situazione che accomuna la Cina intera, per l’incertezza di un futuro possibile solo a fronte di grandi cambiamenti volti al perseguimento di uno sviluppo sostenibile in quella che è divenuta la quarta potenza economica mondiale.
Questione tibetana e diritti umani
Nonostante la Cina abbia tentato un riscatto e un rilancio in senso moderno della propria immagine, di fronte agli occhi dell’Occidente non sono mancate le critiche e le proteste dirette alle politiche repressive cinesi: soprattutto in seguito agli scontri sanguinari – in realtà quasi una vera e propria guerra – che sono stati il costante retroscena delle settimane olimpiche.
Il 10 marzo del 2008 – a quarantanove anni dalla famosa insurrezione non violenta per la liberazione del Tibet occupato dal governo cinese e in prossimità dei Giochi che avrebbero offerto ampia visibilità – è scoppiata infatti la rivolta dei monaci buddisti. Partendo da Lhasa, capitale del Tibet, il movimento si è esteso velocemente a tutta la regione autonoma, raggiungendo i tibetani rifugiatisi in India. Le violente manifestazioni degli indipendentisti che hanno affiancato i monaci sono state represse nel sangue dalla polizia, la capitale è stata assediata, i monasteri sono stati presidiati dalle truppe antisommossa. I giochi olimpici, insomma, hanno rappresentato l’occasione ideale per riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’irrisolta questione tibetana.
La storia del Tibet, regione centrale della Cina, è stata caratterizzata dall’alternanza di periodi di indipendenza e periodi di sottomissione al governo cinese.
Nel 1912 il Dalai Lama, massima autorità in campo spirituale del buddismo tibetano, dichiarò la separazione dalla Cina e la costituzione di uno Stato indipendente di cui si mise alla guida. Nel 1951, tuttavia, l’esercito di liberazione popolare – forte della conquista mongola dei secoli precedenti e dunque della legittimità dell’appartenenza del territorio tibetano alla Cina – occupò i territori riannettendoli.
Gli sviluppi successivi costrinsero all’esilio indiano il Dalai Lama e si contraddistinsero per la violenza repressiva con cui il regime cinese si accanì nei confronti dei tibetani: stime rivelano che, durante il decennio della Rivoluzione Culturale, vennero uccisi più di un milione di tibetani.
Dopo la morte di Mao, il Dalai Lama fu invitato a tornare in patria ma, oltre a un blando tentativo di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni sottomessi, nulla è stato fatto di concreto dal governo cinese per ristabilire un pacifico equilibrio: al contrario, la politica imperante è stata quella di incrementare l’emigrazione di cinesi Han nella regione autonoma al fine di colonizzarla.
Le attuali richieste del XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, concernono ormai non più la creazione di uno Stato a se stante, bensì la gestione autonoma dei territori sciolta dal giogo della effettiva dittatura cinese. Mentre l’opinione pubblica mondiale si è fortemente schierata a favore dei monaci buddisti proponendo il boicottaggio delle XXIX Olimpiadi (anche alcuni atleti hanno manifestato il proprio dissenso) la Cina invece si è trincerata in un atteggiamento di forte chiusura, preferendo soffocare la questione con le armi della violenza e della censura delle informazioni.
Durante i giorni immediatamente successivi alla rivolta sono stati oscurati alcuni siti internet (tra cui YouTube, il noto portale per la pubblicazione di filmati amatoriali) e i giornalisti occidentali sono stati invitati a lasciare il Paese. Le stime ufficiali consegnate parlarono di poco più di una decina di morti durante gli scontri; quelle non ufficiali di un centinaio tra monaci e manifestanti arbitrariamente attaccati dalle forze dell’ordine.
La stessa popolazione cinese, del resto, considera il Tibet, popolato da una esigua percentuale di popolazione, parte integrante della Repubblica e ritiene che le richieste indipendentiste male si accordino con la situazione attuale: quella, cioè, che che fa della Cina una superpotenza fortemente nazionalista e non disposta a sottomettersi a «ricatti» separatisti.
Critiche internazionali
Va sottolineato, inoltre, che la reazione ipersensibile del governo cinese rispetto alle critiche mosse sulla sua politica interna ed estera (repressione dei separatisti tibetani, sostegno offerto ai governi sudanese, birmano e dello Zimbabwe) rientra all’interno di un panorama più vasto di ansietà.
L’inquietudine dovuta alla instabile sostenibilità del «miracolo economico» e le tensioni che ne derivano accentuano i già numerosi problemi sociali della Cina: le zone rurali sono rimaste estremamente povere, la disuguaglianza tra i ceti è sempre più marcata, la demografia è compromessa dalla politica del figlio unico maschio (e degli aborti di figlie femmine).
A tutto ciò si aggiungono, inoltre, il rapporto conflittuale con la natura, i problemi ecologici legati all’emissione dei gas serra, il mancato rispetto dei diritti umani che la Cina ancora non sente come problema di primo piano (tanto da disattendere gli impegni sottoscritti al momento dell’ottenimento dei Giochi).
Il governo cinese, d’altra parte, accusa l’Occidente di usare la questione dei diritti come pretesto per continuare a comportarsi come vuole e, per bocca del ministro degli Esteri Yang Jiechi, ha sfidato l’opinione pubblica straniera a «venire di persona a vedere come stanno le cose». E un esempio emblematico di come «stanno le cose» è rappresentato dalla vicenda della piccola cantante delle celebrazioni inaugurali: come si è già osservato, la bambina cantava in playback, mentre la vera esecutrice del brano è rimasta nascosta dietro le quinte, perché considerata non sufficientemente bella.
Il presidente del Comitato Olimpico, in ogni caso, ha dichiarato che, attraverso le Olimpiadi, «la Cina ha imparato qualcosa del mondo e il mondo ha imparato qualcosa della Cina». Ci si aspetta che da questa reciproca conoscenza la situazione da entrambi le parti evolva verso un reale miglioramento.
La cerimonia di chiusura
Il 24 agosto – dopo 16 giorni di gare e premiazioni – una spettacolare cerimonia di chiusura, speculare a quella di apertura, ha definitivamente sancito la fine di questi controversi giochi olimpici cinesi. La fiaccola olimpica, considerata da molti l’emblema di questa contestata kermesse, è stata spenta alle 21.24 (le 15.24 italiane) e al suo posto è stata eretta una torre in acciaio di 23 metri, in cima alla quale quasi 400 performer si sono esibiti in coreografie acrobatiche che ricordavano le fiamme appena spente.
In un clima di solennità carico di eterei e impalpabili significati, la torre, ormai smontata, è stata avvolta in teli arancio e sostituita da quello che voleva essere il simbolo della memoria: un fiore. La festa è terminata tra i festeggiamenti degli atleti che hanno invaso lo stadio, preceduti dalla sfilata delle bandiere nazionali delle delegazioni sportive.
Terminata la XXIX edizione, già si pensa alla XXX. La prossima tappa olimpica sarà Londra 2012 ed è per questo che, a fine cerimonia, il presidente del Comitato olimpico internazionale Jacques Rogge – assieme al sindaco di Pechino Guo Jinlong – ha passato la bandiera olimpica, fregiata con i cinque anelli, nelle mani del sindaco di Londra Boris Johnson: passaggio di testimone sottolineato ed esaltato dalle note di Whole Lotta Love, eseguita dalla cantante inglese Leona Lewis e dallo storico chitarrista dei Led Zeppelin Jimmy Page, arrivati in scena per l’occasione a bordo di un tipico autobus londinese.
Appuntamento tra quattro anni, dunque, per vedere se il Regno Unito sarà in grado di superare la maestosità di questi giochi spettacolo appena conclusi.