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Virgilio

Poeta latino (Andes 70 a.C. – Brindisi 19 a.C.).

Poeta latino (Andes 70 a.C. – Brindisi 19 a.C.).

Publio Virgilio Marone apparteneva a un’agiata famiglia di possidenti terrieri, passò l’infanzia tra pastori e agricoltori amando la vita semplice dei campi, come avrebbe sempre continuato a fare.

Studiò a Cremona, Milano e Roma. Fu alunno del retore Elpidio e del filosofo epicureo (v. Epicuro) Sirone, come egli stesso riferisce nei Catalepton, 14 carmi ispirati alla poesia di Catullo. Ottenne presto la stima degli scrittori che allora primeggiavano a Roma (Asinio Pollione, Lucio Vario Rufo, Cornelio Gallo, Elvio Cinna) e che furono poi i componenti del circolo intellettuale di Mecenate. Durante le guerre civili tornò nel podere paterno, dove iniziò la composizione delle Bucoliche (o Egloghe). Di nuovo a Roma, conquistò il favore di Augusto (v. Augusto, Caio Giulio Cesare Ottaviano) e Mecenate proprio grazie alle sue 10 Egloghe, che gli valsero una casa a Roma e un podere in Campania. Ed è soprattutto a Napoli, lontano dai fragori delle armi e della vita politica, che si dedicò alla composizione dell’Eneide (29-19 a.C.), pubblicata postuma da Tucca e Vario per valere di Augusto. Nel 19 il poeta si recò in Grecia, ad Atene, per perfezionare la lingua del suo poema, e in Asia Minore, per visitare i luoghi toccati da Enea, protagonista dell’Eneide, nelle sue peregrinazioni. Ad Atene si incontrò con Augusto, che lo convinse a tornare la Roma con sé, reduce dai trionfi d’Oriente. Ammalatosi gravemente durante il viaggio, morì a Brindisi. Fu sepolto a Napoli, e sulla sua tomba fu inciso un epitaffio che lui stesso aveva composto.

Come opere giovanili gli sono attribuite, sotto il nome di Appendix Vergiliana, oltre al Catalepton, il Culex (Zanzara), il Ciris (uccello in cui fu trasmutata Scilla, figlia del re Niso, innamorata di Minosse), Copa (Ostessa), Moretum (Focaccia d’aglio), due poemetti di ispirazione agreste, l’elegia Maecenas, il poemetto Aetna, sulle eruzioni vulcaniche. La grande fama di cui godette in vita, nel medioevo, nel rinascimento così come ancora oggi è legata alle Bucoliche, alle Georgiche e all’Eneide.

Le Bucoliche (42-39 a.C.) sono 10 carmi pastorali in esametri in cui emerge un’intenerita e accorata aspirazione alla pace che solo la natura può dare, vi è riflesso l’animo del poeta, che ritrae paesaggi campestri e melanconici. È già presente la tendenza del poeta a trasportare sul piano del racconto fantastico i sentimenti e i dolori del suo tempo, ma è ancora assente la concezione drammatica e umana che sarà propria dell’Eneide.

Le Georgiche (37‑30 a.C.), di rara perfezione artistica, sono il capolavoro virgiliano, il canto della terra in cui si muovono le piante e gli animali tra il continuo travaglio degli uomini: la terra, per Virgilio, è sacra ma dura, per il contadino che deve lavorarla e per il poeta che voglia cantare il suo lavoro.

Nel 29 a.C., dopo la battaglia di Azio e l’instaurazione della tanto sospirata pax, per incitamento di Augusto, Virgilio cominciò a scrivere l’Eneide, ricollegandosi agli esemplari poetici precedenti, latini e greci (Nevio, Ennio, Catone, Cassio Emina, Omero). Egli diventava così il nuovo Omero, che cantava il nuovo Ulisse: Enea. Nella struttura, l’Eneide è modellata sull’Odissea, mentre per la materia epica è affine all’Odissea nei primi sei libri, che narrano le avventure di viaggio, e all’Iliade negli ultimi sei, che cantano la guerra di Enea contro i latini per trovare stabile rifugio agli dei di Troia nella terra laziale. Il poema virgiliano, complessivamente di 12 libri (9.896 esametri), voleva essere ed è l’esaltazione di Roma e del suo impero e la glorificazione di Augusto: era quindi un poema nazionale e un poema epico (v. epica), per questo doveva necessariamente richiamarsi ai suoi prototipi. Vi si riscontra anche, però, la visione della vita del poeta, per cui il dolore è la realtà che domina fatalmente uomini e cose, è qualcosa di ingiusto, oscuro e inspiegabile. Da ciò l’affannosa domanda che serpeggia per tutto il poema: il perché del pianto, della guerra, del male, del dolore, della morte, il perché della vita, della storia, dell’universo. Da questa luce i personaggi traggono la loro coerenza e la loro bellezza poetica: Enea, desideroso di una vita serena, è sempre risospinto dal fato (o dal dolore) a nuove lotte o a nuovi dolori; per Didone la legge d’amore (il suo fato), in contrasto con le leggi umane e divine, è causa di rovina e di morte; Creusa accetta rassegnata il distacco dall’amato perché egli possa raggiungere le più alte cose a cui il fato lo chiama; Andromaca lotta contro il fato conservando intatta nel suo cuore la santità familiare; così tutti gli altri personaggi, Pallante, Lauso e Camilla, Eurialo e Niso, Amata, Lavinia, Turno, Mezenzio e così via, tutti percossi e vinti dal fato. Il poeta, mentre celebra il frutto delle sofferenze umane, vi versa la sua pietà, che costituisce l’anima del suo poema e della sua poesia. Il suo linguaggio è ricco di vocaboli nuovi, la poesia è alta, severa, viva.