Come si legge in un documento pubblicato nel 2002 dalla Commissione europea, «la quota del settore dei servizi nella produzione dell’Ue è passata dal 52% nel 1970 al 71% nel 2001, mentre nello stesso periodo la quota dell’industria manifatturiera è diminuita dal 30% al 18%».
Nel caso italiano, in particolare, questo ridimensionamento dell’attività manifatturiera si accompagna anche a una riduzione del numero di aziende ad alto contenuto tecnologico, come ben documentato dal fatto che il nostro paese risulta ormai al dodicesimo posto nella classifica relativa al numero dei brevetti presentati dai paesi dell’Europa a 15.
Il momento decisamente negativo vissuto dal settore manifatturiero italiano, tuttavia, coincide con un vero «boom» nel campo delle grandi opere infrastrutturali. Come osserva Marco Cedolin un’intervista rilasciata della rivista «Il Consapevole» nel dicembre 2007, «questo passaggio di risorse finanziarie da settori maggiormente impegnativi – ad alta competizione e ad elevato rischio d’impresa, quali quello industriale – in direzione di settori estremamente più remunerativi e praticamente privi di competizione quali quello delle grandi costruzioni, ha determinato il potenziamento degli strumenti necessari per portare avanti queste attività. La crescita dimensionale degli investimenti e degli strumenti ha determinato un sovradimensionamento dei progetti, ragione per cui le opere sono diventate sempre più grandi e costose, fino a staccarsi completamente dalle reali necessità delle comunità e dei territori, per rispondere unicamente alle necessità dell’economia: necessità legate alla loro costruzione e non al loro utilizzo. Il settore del “cemento e del tondino” connesso alle grandi opere è così diventato terra di conquista per i grandi potentati economici e finanziari, in quanto fonte di facile arricchimento a bassissimo rischio d’impresa. […] Nei gruppi imprenditoriali che gestiscono la costruzione delle grandi opere sono presenti interessi di ogni genere: dai maggiori istituti bancari e assicurativi mondiali, alle industrie degli armamenti, ai colossi metalmeccanici, petroliferi, alimentari, farmaceutici».
Al basso rischio d’impresa si aggiunge sia una grande esposizione finanziaria da parte dello stato sia episodi di vera e propria corruzione, come è particolarmente evidente nel caso della realizzazione di alcune tratte dell’alta velocità ferroviaria (Tav). Leggiamo a tale proposito un brano del saggio Corruzione ad Alta Velocità (Koinè 1999) dell’ex magistrato Ferdinando Imposimato:
«Fin dall’inizio si stabiliscono, nell’ambito del comune progetto dell’alta velocità, intrecci tra quattro società: le Ferrovie dello stato, la Tav, Italferr e il consorzio Tpl-av. Fin da subito, infatti, l’intrigo societario è al massimo. Esistono due distinti rapporti: da una parte c’è quello di Italferr con le Fs, dall’altra il rapporto che la stessa Italferr stabilisce con la Tav. Entrambi i rapporti hanno un solo oggetto: la progettazione di massima dell’alta velocità. Un’anomalia incredibile, anche perché la Italferr in qualche modo svolge un ruolo attivo nella progettazione per conto delle Fs, sia, contestualmente, un ruolo di verifica e controllo per conto della Tav. E questo andazzo va avanti sino al 1994. Contemporaneamente, sempre Italferr stipula con Tpl-Av – società di ingegneria facente capo a Lorenzo Necci che è anche presidente di Fs – un contratto che prevede le stesse prestazioni già affidate a Italferr. Si ha in questo modo un doppio incarico che crea doppi costi. A carico – manco a dirlo – della collettività. A partire dalla fine degli anni Ottanta opera nel settore economico e finanziario una struttura ben organizzata, composta da manager pubblici e privati che gestisce il controllo degli appalti e la successiva distribuzione di lavori per grandi opere. Lo scopo di questa gestione è quello di creare fondi fuori contabilità per pagare tangenti sia al potere politico che quei vertici manageriali aveva sponsorizzato. Ma perché il sistema funzioni, l’organizzazione dei predatori ha bisogno di alcuni strumenti. Tre per l’esattezza. Prima necessità: avere un manager pubblico in grado di garantire il mantenimento degli equilibri e assicurare continuità al flusso di denaro. Seconda necessità: disporre di una struttura di carattere finanziario capace di funzionare anche all’estero e di assicurare la creazione di fondi extracontabili. Terza e ultima necessità: individuare società di progettistica e ingegneria compiacenti alle quali distribuire le varie attività per la costruzione delle grandi opere».