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L’astronomia negli ultimi dieci anni

Saggio di Luca Amendola

Saggio di Luca Amendola

Gli ultimi dieci anni di astronomia sono stati testimoni di autentiche rivoluzioni nella conoscenza del sistema fisico cosmico. Nuove missioni spaziali, grandi telescopi, radiotelescopi e rivelatori di particelle,  importanti sviluppi teorici, hanno permesso all’occhio umano di esplorare il cuore delle stelle e delle galassie e alla sue mente di comprenderne i meccanismi.
Dal sistema solare ai pianeti di altre stelle, dai raggi cosmici ai lampi gamma, dai buchi neri stellari e supermassivi al fondo cosmico di radiazione e alla materia e ed energia oscura, gli astronomi non hanno cessato di porre audaci domande e ottenere sorprendenti risposte.
Nelle prossime pagine percorreremo insieme i momenti più eccitanti degli ultimi anni, le scoperte che hanno aperto nuovi percorsi e quelle che hanno chiarito enigmi di lunga data.

Il sistema solare
Una delle motivazioni principali della ricerca astronomica è sempre stata lo studio degli altri pianeti. Potremmo anzi dire che l’astronomia moderna comincia quando Galileo osservò per la prima volta al telescopio Giove e i suoi satelliti e la Luna. La sua precisa descrizione della Luna mostrò chiaramente un paesaggio per molti aspetti simile a quello terrestre, con montagne, valli e pianure  che potevano essere confrontate con l’orografia del nostro pianeta.

Fino a pochi anni fa, la planetologia, la branca dell’astronomia che studia i pianeti e gli altri corpi del sistema solare (satelliti, asteroidi, comete, polveri etc) si limitava esclusivamente al nostro sistema solare. Negli ultimi dieci anni, grazie a numerose missioni dirette verso la Luna (come il Lunar Prospector della NASA, lanciato nel 1998), Marte (ad esempio il Phoenix della NASA, arrivato sulla superficie marziana nel 2008 e il Mars Express dell’ESA del 2003), alcune comete (missione Rosetta dell’ESA e Deep Impact della NASA), Saturno e le sue lune (missione internazionale Cassini-Huygens, lancio avvenuto nel 2005), l’esplorazione del sistema solare ha permesso di scandagliare da vicino sia i pianeti rocciosi di tipo terrestre (ad esempio Marte e Venere) sia quelli di tipo gassoso (come Giove e Saturno).
Tra le scoperte più importanti effettuate con queste missioni citiamo l’evidenza di tracce orografiche riconducibili a flussi di acqua allo stato liquido sulla superficie di Marte, flussi probabilmente prodottisi milioni di anni fa. Allo stato attuale, l’acqua potrebbe essere ancora presente sotto forma di ghiaccio nel sottosuolo marziano, così come di altri corpi del sistema solare come il satellite Enceladus  di Saturno e Callisto ed Europa di Giove. Su Marte sono stati anche rinvenuti depositi di ghiaccio superficiale e a piccole profondità, forse come conseguenza dall’impatto di comete  sulla superficie marziana. Si ritiene generalmente che la presenza di acqua sia una precondizione per lo sviluppo di forme di vita; inoltre, giacimenti di acqua o ghiaccio potrebbero facilitare in futuro la colonizzazione umana degli altri pianeti.  

Una delle motivazioni principali che guidano la planetologia è certamente proprio quella di esaminare le condizioni necessarie per l’origine e l’evoluzione della vita. A questo proposito è cresciuta negli ultimi anni la consapevolezza del ruolo diretto dell’ambiente astronomico sulla vita terrestre. Esempi eccellenti di questa simbiosi Terra-Sistema Solare sono l’irradiazione solare e gli impatti con asteroidi e comete.
L’irradiazione del Sole verso la Terra, sia nelle bande ottiche che in quelle ultraviolette, è certamente la principale forma di interazione tra il nostro pianeta e l’ambiente esterno. Da essa dipende non solo la sintesi clorofilliana, e quindi le risorse agroalimentari, ma anche in ultima analisi l’energia raccolta nei combustibili fossili così come nelle fonti rinnovabili come quella idroelettrica, eolica, e naturalmente solare. Le variazioni dell’irraggiamento solare sono anche correlate ai cicli climatici di lungo termine e sono quindi oggetto di attenta analisi  al fine di separare gli effetti antropogenici da quelli naturali.

Un deciso passo in avanti nella comprensione delle complesse interazioni Sole-Terra è stato compiuto col satellite europeo-americano SOHO (Solar and Heliospheric Observatory) lanciato nel 1995 e tuttora in orbita a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. SOHO ha misurato con estrema precisione la “costante solare, ovvero l’irraggiamento del Sole nelle varie bande elettromagnetiche e ha scoperto nuovi fenomeni come le onde coronali e i tornado solari. Ha inoltre analizzato l’evoluzione delle macchie solari durante un intero ciclo undecennale e ha inaugurato l’era della “meterologia solare”, ovvero lo studio delle variazioni di breve durata dell’emissione solare di raggi ultravioletti e di particelle ionizzanti (vento solare) dovute alle eruzioni solari. Grazie a SOHO è infatti ora possibile prevedere con alcuni giorni di anticipo l’arrivo sulla Terra di forti impulsi di particelle cariche e di minimizzarne quindi gli effetti sulle telecomunicazioni.

Anche l’interazione tra Terra e corpi minori del sistema solare ha influito notevolmente sullo sviluppo della vita. L’evoluzione della vita terrestre è iniziata circa 3,5 miliardi di anni fa, subito dopo la fine dell’intenso bombardamento di asteroidi e comete che è all’origine della stessa formazione del pianeta Terra. Asteroidi e comete sono ciò che rimane  della nube primordiale in cui si sono formati i corpi del nostro sistema; poiché sono anche gli oggetti che meno hanno subito trasformazioni chimiche e geologiche, ci forniscono importanti indizi sull’origine dei pianeti. È molto probabile che questi corpi abbiano contribuito in modo decisivo al fenomeno della vita apportando sulla superficie terrestre grandi quantità di carbonio e acqua, fondamentali per lo sviluppo dei primi organismi.
Allo stesso tempo però, le collisioni accidentali con asteroidi o comete sono anche probabilmente responsabili di alcune delle estinzioni di massa che hanno punteggiato l’evoluzione darwiniana, come quella del terziario-cretacico avvenuta 65 milioni di anni fa e che ha visto l’estinzione dei grandi dinosauri e ha avviato la prevalenza dei mammiferi. La progressiva consapevolezza che il rischio di una collisione catastrofica è piccolo ma non nullo ha motivato diversi progetti internazionali di monitoraggio dei corpi minori del sistema solare.

Tra i miliardi di asteroidi e comete in orbita nel sistema solare particolare attenzione è stata rivolta ai corpi la cui orbita ha un perielio (punto più lontano dal Sole) minore di 1,3 unità astronomiche, pari a circa 200 milioni di chilometri. Questi corpi, detti Near Earth Objects (NEO), sono infatti quelli che possono in teoria intersecare l’orbita terrestre e costituire una minaccia potenziale.
Si conoscono al momento circa 5500 NEO (a fronte di circa 200.000 asteroidi noti), di cui le comete sono solo una piccola minoranza. Le loro dimensioni spaziano  da alcune decine di metri fino a qualche chilometro. Si pensa che più o meno altrettanti NEO siano ancora da scoprire. Circa 1000 NEO sono stati catalogati come “asteroidi potenzialmente pericolosi” o PHA (potentially hazardous asteroids), ovvero corpi di almeno 140 metri di diametro e  la cui orbita si prevede possa passare entro 7,5 milioni di chilometri da quella terrestre. Asteroidi di diametro inferiore ai 50m circa sarebbero disintegrati dall’atmosfera prima di raggiungere la supericie terrestre. Un impatto con corpi di 100 m di diametro potrebbe causare catastrofi a livello regionale, come quello avvenuto a Tunguska in Siberia nel 1908, in una zona per fortuna disabitata. Si pensa che impatti di questo tipo si verifichino in media una volta ogni mille anni. Impatti di portata planetaria come quello legato all’estinzione dei grandi sauri potrebbero invece prodursi in media ogni 10-100 milioni di anni.
I NEO sono monitorati in continuazione e le loro orbite continuamente aggiornate dai progetti Spacewatch, LINEAR, l’italiano CINEOS e altri in tutto il mondo. Benché il passaggio di corpi minori a distanze pari o inferiori a quella lunare (400.000 km) sia abbastanza frequente, tutti i corpi finora noti non presentano alcun rischio reale di collisione per i prossimi cento anni. Tra i corpi che passeranno più vicino alla Terra citiamo l’asteroide 2005YU55 che l’8 Novembre 2011 passerà a circa una distanza lunare dalla Terra, e l’asteroide Apophis che il 13 Aprile del 2029 passerà a soli 40.000 km dalla Terra, ovvero un decimo della distanza Terra-Luna. È interessante notare che, almeno in teoria, un preavviso di una decina d’anni potrebbe metterci in grado di deviare l’asteroide pericoloso.

Pianeti extrasolari
Grazie alle numerose missioni spaziali abbiamo oramai una discreta comprensione della fisica e geologia del nostro sistema solare. Le conoscenze attuali ci portano ad escludere la presenza di forme di vita evolute, anche se non possiamo rigettare del tutto la possibilità di rinvenire fossili di batteri o altri organismi semplici, ad esempio su Marte, sviluppatisi in qualche epoca passata in cui le condizioni climatiche permettevano all’acqua di esistere allo stato liquido. La ricerca attuale si sta perciò indirizzando verso un compito molto più ambizioso: la presenza di condizioni abitabili in pianeti extra-solari, ovvero pianeti che orbitano intorno ad altre stelle.

Un pianeta extra-solare non può essere individuato direttamente allo stato attuale della tecnologia, perchè la sua luminosità (riflesso della luce ricevuta dalla stella ospite) è in genere milioni di volte inferiore a quella della stessa stella. È però possibile individuare tali pianeti attraverso misure indirette di  velocità e luminosità della stella ospite. Il pianeta orbitante induce infatti delle oscillazioni gravitazionali sulla sua stella dell’ordine di alcuni metri al secondo; tali oscillazioni possono essere rivelate attraverso misure di spostamento Doppler (variazione della lunghezza d’onda) della radiazione emessa dalla stella. Un secondo metodo sfrutta il transito del pianeta davanti al disco della stella: questo genera infatti una leggerissima diminuzione della luminosità del sistema, che naturalmente dipende dal raggio del pianeta. Tale fluttuazione, paragonabile a quella di una  eclissi parziale della stella, è rilevabile con i moderni fotometri.
Infine, un sistema stellare formato da una stella e uno o più pianeti può essere individuato anche misurando il cosiddetto “effetto lente gravitazionale”: quando il sistema si trova lungo la linea di vista tra la Terra e una stella più lontana, la luce emessa dalla stella lontana viene perturbata per qualche ora o giorno dal campo gravitazionale del sistema planetario. La caratteristica curva di luce che si viene a produrre, ovvero la variazione di luminosità in funzione del tempo, permette di risalire alla massa del pianeta e al raggio della sua orbita.

Impiegando il metodo dello spostamento Doppler, nel 1995 due astronomi dell’Osservatorio di Ginevra, M. Mayor e D. Queloz, hanno scoperto per la prima volta un pianeta extrasolare orbitante con periodo di soli 4.2 giorni intorno alla stella 51 Pegasi. Nel 1999 è stato scoperto il primo sistema a più pianeti, Upsilon Andromedae. Da allora gli astronomi hanno scoperto con varie tecniche circa 300 pianeti extra-solari, di cui una ventina in sistemi multiplanetari,  a distanze fino a qualche centinaio di anni-luce dal Sole.

Quasi tutti i pianeti finora scoperti sono di tipo gigante gassoso, cioè simili al nostro pianeta Giove, poiché la loro grande massa rende più facile rivelare lo spostamento Doppler. Per la stessa ragione, la grande maggioranza dei pianeti noti orbita molto strettamente intorno alla stella centrale. Si pensa che i pianeti gioviani, come vengono indicati, si formino per instabilità gravitazionale del disco protoplanetario all’esterno del sistema (dove troviamo in effetti i nostri pianeti giganti) e migrino poi per ragioni dinamiche verso l’interno.
Ci sono al momento solo pochissimi pianeti noti con masse paragonabili a quella terrestre. La ricerca di queste “super-Terre” è estremamente attiva perché  pianeti rocciosi di tipo terrestre potrebbero possedere atmosfere simili alla nostra e quindi essere, almeno almeno in teoria, abitabili da organismi viventi.

Nei prossimi anni i pianeti extra-solari potranno essere osservati direttamente da  telescopi a grandissima apertura dotati di nuova strumentazione. L’ESO (European Southern Observatory) sta progettando un telescopio da 42 metri di diametro, denominato European Extremely Large Telescope (EELT) che potrà osservare direttamente pianeti di tipo terrestre. Il satellite spaziale James Webb Space Telescope della NASA, successore del famoso Hubble Space Telescope, che sarà lanciato intorno al 2012, potrà rivelare centinaia di nuovi pianeti extra-solari e ricavare preziosi dati statistici sulla loro natura e abbondanza. L’osservazione diretta  permetterà di ottenere spettrogrammi delle atmosfere extrasolari e quindi di conoscere la loro composizione chimica. La scoperta di ossigeno, acqua e di molecole complesse nei pianeti extrasolari potrebbe per la prima volta fornire all’umanità evidenza diretta di condizioni ambientali non ostili alla vita fuori del nostro pianeta.

Buchi neri e nuclei galattici attivi
La possibilità teorica di corpi dalla gravità così forte da impedire perfino alla luce di emergere è stata studiata sin dalla fine del diciottesimo secolo, applicando a situazioni estreme le leggi della gravità Newtoniana.
È solo con lo sviluppo della teoria della Relatività però che le speculazioni sui buchi neri, ovvero corpi dalla gravità estrema, poterono trovare fondamenti saldi. Grazie agli studi pioneristici di K. Schwarzschild e poi di e G. Nordstrom, J. Wheeler, K. Thorne, G. Gibbons, S. Hawking negli anni ’60 e ’70, la teoria dei buchi neri e della loro formazione ed evoluzione ricevette una forma accurata e sufficientemente completa, includendo proprietà come la carica, la rotazione, l’emissione di radiazione per effetti quantistici. Finalmente  nell’ultimo decennio l’effettiva esistenza dei buchi neri è stata  dimostrata con quasi assoluta certezza.

Un buco nero (termine proposto per la prima volta da J. Wheeler nel 1967) è la forma più estrema di campo gravitazionale. Qualunque corpo, se compresso entro una dimensione caratteristica detta raggio di Schwarzschild, crea un campo gravitazionale così intenso che nessuna particella o onda, neppure la luce, può sfuggirne. Secondo la Relatività Generale, il buco nero deforma lo spazio-tempo in modo così radicale che il suo interno potrebbe separarsi completamente dal nostro Universo. In generale, il buco nero si sviluppa quando le altre forze della natura, la forza elettromagnetica e le forze indicate col nome di interazione debole e forte, non sono in grado di resistere al collasso gravitazionale. L’equilibrio che rende stabili i corpi astrofisici  viene quindi a spezzarsi e, dopo una serie di complessi fenomeni, si può formare un buco nero.
Nella maggior parte dei casi, gli astrofisici  hanno  considerato il buco nero come forma finale dell’evoluzione di singole stelle molto massicce (più di otto masse solari), quando la pressione della radiazione termonucleare si esaurisce e la stella collassa su se stessa. La stella allora finisce con l’esplodere  come supernova mentre il suo cuore freddo si comprime fino a rinchiudersi entro un  raggio di Schwarzschild di dimensioni dell’ordine di qualche chilometro, momento in cui si forma il buco nero vero e proprio.

I satelliti americani Hubble Space Telescope e Chandra X-ray Observatory e l’europeo XMM-Newton hanno ottenuto nell’ultimo decennio diverse evidenze osservative indirette di buchi neri in sistemi stellari doppi. Osservando infatti questi sistemi sia nella bande ottiche che nei raggi X si può osservare radiazione emessa quando la materia strappata dalla stella compagna cade sul buco nero.
Dall’intensità della radiazione e dall’orbita della stella visibile si possono dedurre indirettamente le proprietà del corpo invisibile e stabilirne la natura. Si parla allora di candidati buchi neri: un esempio famoso è la sorgente Cyg X-1 a circa 7000 anni luce nella direzione  della  costellazione del Cigno, una delle più potenti sorgenti di raggi X dell’intero cielo. Ci si aspetta che nelle fasi finali di coalescenza di sistemi binari di buchi neri e stelle di neutroni vengano emesse  onde gravitazionali con intensità sufficiente ad essere rivelate sulla Terra dalle antenne gravitazionali.

I buchi neri stellari, di massa pari a 5-20 volte quella solare, non sono però gli unici buchi neri del nostro Universo. Al centro di moltissime galassie, compresa la Via Lattea, esistono infatti buchi neri di massa enorme, pari a decine o centinaia di milioni di masse solari, raccolti in diametri dell’ordine di alcune centinaia di milioni di chilometri. Questi buchi neri potrebbero essersi formati insieme alla galassia ospite nelle regioni centrali e più dense del nucleo galattico. Col passare del tempo il buco nero centrale ha inghiottito stelle, polveri e gas al ritmo di diverse masse solari all’anno crescendo fino  alle dimensioni attuali.
In molte galassie i buchi neri supermassivi sono in relativa quiete, avendo ormai già immagazzinato la maggior parte della materia immediatamente circostante. In altre galassie però, e in particolare in quelle più giovani (cioè a distanza tale che le loro immagini risalgono a miliardi di anni fa), il buco nero centrale sta tuttora accrescendo massa a grande velocità. Gas e polveri risucchiati dal nucleo della galassia ospite entrano in orbita su un disco o ciambella di accrescimento intorno al buco nero in rapida rotazione e in un alone di nubi a varia distanza da esso. L’intensa radiazione X che si genera quando la materia si riscalda per frizione nel processo di accrescimento viene emessa preferenzialmente nella direzione dell’asse di rotazione del sistema e quindi in forma concentrata, insieme a particelle cariche ad alta energia cinetica. Nella direzione dell’asse di rotazione si possono formare quindi dei getti di plasma e radiazione X e attraverso ulteriori meccanismi vengono emesse fortissime radiazioni nella banda radio. Tutte queste forme di emissione energetica sono in ultima analisi ascrivibili alla gigantesca energia gravitazionale del buco nero centrale. Il fenomeno è quindi di grande importanza perché permette agli astrofisici di osservare eventi di gravità estrema non riproducibili in laboratorio e neppure osservabili nelle stelle ordinarie (che basano i loro processi energetici sulla fusione termonucleare).

La complicata struttura dei buchi neri supermassivi (buco nero centrale, ciambella di accrescimento, nubi calde, getti di plasma, interazione con il mezzo ambiente del nucleo galattico), la loro variabilità temporale e l’ampio spettro di fenomeni energetici e di radiazione, genera quindi uno zoo di sorgenti astrofisiche che vengono collettivamente chiamate nuclei galattici attivi. Nelle galassie lontane la radiazione emessa dal nucleo attivo è così forte da oscurare completamente la galassia ospite: il nucleo visibile appare allora come una sorgente puntiforme, a prima vista non dissimile da una stella. Per questa ragione i primi nuclei attivi vennero indicati col nome di quasi-stelle o quasar.
I nuclei galattici attici sono oggi classificati in varie categorie a seconda di come appaiono all’osservatore. Questo schema di classificazione viene indicato col nome di modello unificato dei nuclei galattici attivi. Se un nucleo attivo è orientato in modo che il suo getto di plasma punta verso di noi allora l’emissione radio ci appare molto forte e con righe di emissione ampie, dovute al gas ad alta velocità che orbita in prossimità del buco nero (nuclei attivi di tipo 1); se il sistema è orientato in modo che la radiazione emessa in prossimità del buco nero è schermata dal disco o toro di accrescimento allora la luminosità è ridotta e le righe di emissione sono più strette a causa  della minore energia cinetica (nuclei di tipo 2). A seconda della luminosità radio i nuclei galattici attivi si distinguono poi in varie classi: Seyfert (bassa luminosità radio, oggetti relativamente più vicini), radiogalassie (alta luminosità radio, oggetti lontani). Altre classi sono denominate blazars, quasi-stellar objects, etc. 

Le esplosioni di raggi gamma
I raggi gamma sono la forma di radiazione elettromagnetica di maggiore energia e minore lunghezza d’onda. Un’emissione gamma ha lunghezza d’onda minore di circa 10pm (picometri) ovvero circa 100.000 volte minore della luce visibile. In natura i raggi gamma si producono durante il decadimento radioattivo dei nuclei atomici e in generale nelle reazioni nucleari naturali (ad esempio nel Sole) ed artificiali. Fortunatamente, l’atmosfera terrestre assorbe molto bene i raggi gamma, schermandoci così dalla pericolosa radiazione gamma solare.

Proprio per questa ragione, l’astronomia gamma ha dovuto aspettare le prime osservazioni dallo spazio per emergere. Nel 1967 i satelliti americani Vela rivelarono per la prima volta radiazione gamma dallo spazio sotto forma di forti impulsi di brevissima durata (da frazione di secondi a minuti), ma per ragioni militari solo nel 1973 ne venne annunciata pubblicamente la scoperta. Per molti anni però l’astronomia gamma si scontrò con il problema di identificare le sorgenti di questi impulsi, poiché è estremamente difficile identificare con precisione la direzione di arrivo della radiazione gamma e quindi risalire alla sorgente e alla sua distanza. A parte alcune sorgenti stellari relativamente vicine, come la Pulsar nella Nebulosa del Granchio, non era quindi possibile comprendere la natura dei “lampi gamma” (gamma-ray bursts o GRB), di cui si ignorava perfino se provenissero dal nostro sistema solare, dalla Via Lattea o da sorgenti più remote.

Nel 1997 finalmente il satellite italo-olandese Beppo-SAX (che prese il nome dal fisico Giuseppe Occhialini detto Beppo) riuscì ad individuare con  precisione di qualche minuto d’arco la direzione di provenienza di alcuni lampi gamma; successive osservazioni con  strumenti in altre bande elettromagnetiche  permisero finalmente di chiarire che le sorgenti gamma sono in gran parte a distanza cosmologiche, ovvero a decine o centinaia di milioni di anni-luce, ben al di là della nostra Galassia e delle galassie vicine. Insieme alla radiazione gamma, gli eventi esplosivi emettono radiazione a tutte le lunghezze d’onda, dal radio all’ottico ai raggi X, e con ogni probabilità anche neutrini e onde gravitazionali.

Dopo Beppo-SAX altre missioni spaziali hanno studiato il cielo nello spettro gamma: il satellite SWIFT della NASA (in collaborazione con istituzioni italiane e britanniche) lanciato nel 2004 sarà per diversi anni il più sensibile osservatorio gamma nello spazio.
Le esplosioni gamma sono tra gli eventi più energetici dell’Universo. Ogni esplosione emette in pochi secondi tanta energia quanto il nostro Sole durante tutta la sua vita. In un certo senso sono anche molto frequenti: si registra infatti circa un lampo gamma al giorno, ma naturalmente questo può avvenire in una qualsiasi delle miliardi di galassie attualmente osservabili. La probabilità di un lampo gamma nella nostra Via Lattea è quindi estremamente bassa, ed ancora minore la probabilità che la radiazione gamma venga emessa nella direzione della Terra, dando luogo a fenomeni catastrofici. Alcuni astronomi stimano questa probabilità in un evento ogni cento milioni di anni, ma i margini di errore  sono ancora molto alti.

Le osservazioni delle sorgenti associate ai lampi gamma indicano che la radiazione si origina in genere da stelle appartenenti a galassie molto distanti, letteralmente ai confini dell’Universo osservabile. In alcuni casi si sono  osservati lampi gamma in associazione con altri eventi altamente violenti, come le supernovae. Le teorie attuali infatti ipotizzano che i lampi gamma vengano emessi quando una stella  massiccia e ad alta velocità di rotazione esplode sotto forma di supernova.
In generale, le esplosioni di supernovae si producono in due casi: quando una stella supergigante rossa alla fine del suo ciclo esaurisce il combustibile nucleare e collassa sotto il peso della sua stessa gravità (si parla allora di supernova a collasso di nucleo), oppure quando una nana bianca acquisisce massa da una  compagna e supera la soglia di stabilità di Chandrasekhar (si parla allora di supernova termonucleare). Nelle supernovae a collasso di nucleo  la stella esplode emettendo nello spazio nel giro di pochi giorni sotto forma di radiazione di tutte le bande (oltre a neutrini, onde gravitazionali e altre particelle) quasi tutta la sua massa, mentre il  nucleo più denso si riduce a stella di neutroni o buco nero: le  più violente tra queste esplosioni, dette talvolta ipernovae o collapsar, sarebbero quindi all’origine dei lampi gamma. In alcuni casi la supernova che genera il lampo gamma è così luminosa che potrebbe risultare visibile a occhio nudo nonostante la sua grandissima distanza.

Altri modelli teorici prevedono la collisione tra corpi compatti come stelle di neutroni o buchi neri appartenenti a sistemi binari: il lampo gamma sarebbe allora l’ultimo segnale emesso dal sistema  prima della definitiva coalescenza in un singolo buco nero. Questo fenomeno potrebbe spiegare in particolare i lampi gamma di brevissima durata. In tutti questi modelli  si ipotizza che la radiazione venga emessa preferenzialmente lungo l’asse di rotazione della stella e quindi in forma altamente collimata. Quando l’asse coincide approssimativamente con la direzione della Terra riceviamo un potentissimo impulso gamma, che può durare da alcuni millisecondi fino ad alcuni minuti.
Lo studio dei lampi gamma e degli eventi associati riveste particolare importanza in astrofisica perché espone alla nostra indagine fenomeni di energia  elevatissima, che non potremmo riprodurre nei laboratori terrestri. Questo ci permette di comprendere meglio le attuali teorie fisiche della materia e dello spazio-tempo e di confrontarne le predizioni con la realtà. Le stesse esplosioni che generano i lampi gamma potrebbero nei prossimi anni essere osservate anche mediante le antenne gravitazionali, speciali dispositivi che rivelano il passaggio di onde gravitazionali, come l’antenna Virgo installata a Pisa. Tale fenomeno confermerebbe ancora una volta le predizioni della Teoria della Relatività Generale di Einstein e aprirebbe una nuova finestra osservativa nello spazio profondo.

I raggi cosmici
I raggi cosmici sono particelle cariche (principalmente protoni e nuclei atomici leggeri) che sorgenti galattiche ed extragalattiche accelerano a grandi velocità e liberano nello spazio. Quando incontrano la Terra e incidono sulle molecole atmosferiche l’impatto genera sciami di particelle che si diffondono su grandi aree e possono venire rivelate da appositi strumenti. Osservati per la prima volta nel 1912 da V. Hess mediante palloni aerostatici, i raggi cosmici raggiungono energie elevatissime, fino a cento milioni di volte maggiori di quelle dei più potenti acceleratori terrestri. Sono quindi dei potenziali laboratori di fisica delle altissime energie.

I raggi cosmici meno energetici sono molto frequenti, fino a diecimila per metro quadro al secondo. Raggi di maggiore energia sono invece sempre più rari; i più energetici si verificano circa una volta all’anno per chilometro quadrato.
Molti corpi astrofisici sono in grado di accelerare particelle nello spazio: dal nostro Sole, alle supernovae, a sistemi binari con dischi di accrescimento. Fino a poco tempo fa però l’origine dei raggi cosmici di altissima energia, superiore a 1020 eV, era ancora ignota.
Poiché il campo magnetico terrestre devia la traiettoria delle particelle cariche è molto difficile risalire alla direzione  del fascio  e stabilire quindi quali sorgenti astrofisiche siano all’origine dell’emissione. I raggi più energetici sono meno influenzati dal magnetismo terrestre, ma come visto sono anche molto più rari.

Allo scopo di studiare i raggi più energetici è stato installato nel 2004 vicino Mendoza in Argentina il rivelatore Auger, dal nome del fisico francese Pierre Auger, uno dei pionieri della ricerca dei raggi cosmici. Auger è formato da circa 1600 serbatoi di acqua a distanza di 1,5 km l’uno dall’altro dislocati su un’area di tremila chilometri quadrati. Ogni volta che una particella energetica (sia raggi primari che particelle secondarie createsi nell’impatto con l’atmosfera) colpisce un serbatoio emette un lampo luminoso per effetto Cherenkov. L’analisi della radiazione Cherenkov permette di risalire all’intensità e alla direzione del raggio. I raggi sono rivelati anche da un rivelatore di fluorescenza sensibile alla tenue emissione ultravioletta che le particelle dei raggi producono interagendo con l’azoto atmosferico, simile alle tracce luminose lasciate dalle meteore.
L’esperimento Auger ha individuato dal 2004 ad oggi circa un centinaio di raggi di grande energia. Da questi dati è stato infine possibile concludere che la direzione della maggior parte dei raggi coincide, entro un certo errore, con la distribuzione dei nuclei galattici attivi nel cielo, chiarendo così finalmente il problema delle sorgenti. Molti di questi nuclei galattici sono a distanze comprese entro qualche centinaio di milioni di anni luce. I raggi emessi da sorgenti più lontane hanno scarsa probabilità di raggiungere direttamente la Terra poiché nel loro tragitto perdono energia interagendo con i fotoni del fondo cosmico di radiazione.

Cosmologia: il fondo cosmico, la materia oscura, l’accelerazione cosmica
La cosmologia, la scienza che studia le proprietà dell’Universo nel suo insieme, è probabilmente la branca dell’astronomia che ha compiuto maggiori passi in avanti negli ultimi dieci anni.
Le osservazioni della radiazione di fondo cosmico, emessa quando l’Universo aveva solo 400.000 anni, lo studio delle sorgenti più lontane come le supernovae, la realizzazione di accurate mappe della distribuzione delle galassie fino a diverse centinaia di milioni di anni-luce, hanno permesso di ricostruire la storia e la geografia del cosmo con grande precisione.  Tale ricostruzione ha anche presentato diverse sorprese, come vedremo.

La teoria che è ormai quasi universalmente adottata per spiegare le caratteristiche del nostro Universo è la Relatività Generale di Einstein. Secondo tale teoria, il moto di allontanamento che oggi osserviamo in tutte le galassie lontane ha avuto origine da un “big bang” iniziale prodottosi circa 14 miliardi di anni fa. Questo “grande scoppio” non deve essere però immaginato come l’esplosione di una stella primordiale in uno spazio vasto e vuoto. Lo spazio-tempo si è generato infatti insieme all’esplosione e la materia, inizialmente caldissima, ha sempre riempito uniformemente lo spazio a mano a mano che questo si espandeva. Durante l’espansione, la materia si è raffreddata e rarefatta e la sua stessa composizione è mutata a causa delle interazioni tra le particelle costituenti.

Mediante le complesse equazioni alla base della Relatività Generale è possibile legare l’espansione dell’Universo (cioè la velocità di recessione di tutte le galassie lontane) alla densità media di materia (o equivalentemente di energia) nello spazio. Tale relazione ci dice che le galassie continueranno ad allontanarsi l’una dall’altra senza fine se la densità media è minore di un certo valore critico. Se poi oltre alla materia ordinaria l’Universo contiene, come sembra, anche una forma di energia dalle proprietà inusuali, detta energia oscura, allora l’espansione potrebbe accelerare sempre di più. Se invece al contrario la densità risulta maggiore della densità critica (e se l’energia oscura è trascurabile) allora l’espansione si arresterà e si assisterà ad un collasso cosmico. Naturalmente occorre tenere presente che queste predizioni si dispiegano su tempi cosmologici: il collasso finale potrebbe prodursi non prima di circa 50 miliardi di anni!

La densità media di matera-energia determina anche la geometria globale dello spazio. Uno spazio con densità superiore al valore critico possiede infatti una geometria non-euclidea di tipo sferico (o più esattamente ipersferico) ed è quindi chiuso su se stessa e di volume finito. Uno spazio con densità subcritica è invece di tipo iperbolico e di volume infinito. Una densità esattamente pari a quella critica determina invece uno spazio infinito di tipo euclideo, in cui vale cioè la tradizionale geometria piana euclidea. Anche qui occorre tenere conto che le deviazioni dalla geometria euclidea sono molto piccole ed osservabili soltanto su distanza cosmologiche.
Si stima che il valore critico della densità  corrisponda a circa 10-29 grammi al centimetro cubo, un valore estremamente basso che non si può riprodurre artificialmente in laboratorio. Tale densità però è in effetti molto simile a quello che si riscontra nello spazio intergalattico. Se la materia che compone stelle, gas e polveri delle galassie fosse distribuita in maniera omogenea attraverso gli spazi siderali, si arriverebbe infatti a densità circa dieci volte minori del valore critico.
Questo però non implica necessariamente che l’universo sia destinato ad espansione eterna. Occorre infatti mettere in conto forme di materia non visibili e non raccolte in stelle o gas: forme collettivamente denominate “materia oscura”. Le osservazioni di vari fenomeni hanno infatti mostrato che quasi tutte le galassie, inclusa la nostra Via Lattea, sono dotate di un campo gravitazionale che  richiede molta più massa di quanta ne riusciamo ad osservare. In altre parole, la materia contenuta in stelle, gas e polveri non è sufficiente di per sé a spiegare la forte attrazione gravitazionale che si manifesta all’interno delle galassie e degli ammassi di galassie.

Queste osservazioni si basano principalmente su tre effetti: le velocità di rotazione delle galassie, l’effetto lente gravitazionale e la radiazione X del gas caldo degli ammassi di galassie.
Tutte le galassie ruotano su loro stesse: il Sole e le altre stelle del disco della nostra Via Lattea ad esempio effettuano una rotazione completa in circa 200 milioni di anni. Le galassie a spirale (come la nostra) in particolare ruotano in maniera relativamente veloce. Se la forza di attrazione gravitazionale dovuta alla materia della galassie stessa non tenesse le stelle saldamente ancorate al disco, esse sarebbero sbalzate fuori dalla forza centrifuga rotazionale. Dalla misura della velocità di rotazione si può perciò risalire alla massa necessaria per rendere stabile il sistema galattico. Da osservazioni effettuate su centinaia di galassie spirale emerge chiaramente che la massa contenuta in oggetti visibili come stelle e gas non è sufficiente.
Occorre perciò ipotizzare l’esistenza di aloni di materia oscura, cioè materia che non emette né assorbe radiazione elettromagnetica di nessuna banda tra quelle sperimentalmente osservabili, dal radio alle bande X e gamma. Tali aloni dovrebbero contenere circa dieci volte più materia oscura che  visibile.
Gli aloni di materia oscura sono stati confermati anche dal cosiddetto effetto lente gravitazionale, cui abbiamo già fatto cenno in precedenza. Quando la luce emessa da una galassia lontana passa in prossimità di una galassia, quest’ultima agisce come una lente, alterando per effetto gravitazionale il percorso del raggio luminoso. In casi particolari, questo effetto induce addirittura delle immagini doppie o multiple della galassia lontana, come è stato ripetutamente osservato in quasar lontani già dal 1988 e predetto sin dagli anni ’30. Nella maggior parte dei sistemi l’effetto è  più debole e genera immagini distorte delle galassie lontane. La distorsione così creata dipende però da quanta massa è contenuta nella galassia-lente: è quindi possibile risalire dall’effetto lente alla massa della galassia o dell’insieme di galassie lungo la linea di vista. Anche questi dati osservativi richiedono  l’esistenza di aloni di materia oscura.

La terza prova principale degli aloni di materia oscura è costitutuita dalla radiazione X proveniente dal gas caldo confinato negli ammassi di galassie. Tali ammassi sono formati da decine o centinaia di galassie raccolte insieme in regioni estese per alcuni milioni di anni-luce. La Via Lattea ad esempio è parte del cosiddetto ammasso locale. Gli ammassi sono gli oggetti astrofisici stabili più grandi del nostro Universo; essi  si sono formati per reciproca attrazione gravitazionale delle galassie. Le regioni di spazio tra galassia e galassia all’interno degli ammassi sono popolate principalmente da idrogeno ad altissima temperatura; l’emissione termica del gas, detto gas intra-cluster, può essere osservata sotto forma di raggi X. Un gas caldo tende naturalmente ad espandersi nel vuoto; il fatto stesso che il gas  resti confinato nell’ammasso indica che un forte campo gravitazionale lo tiene legato. Dalla misura della massa e temperatura del gas si può stimare perciò la massa totale dell’ammasso e ancora una volta si scopre che è necessaria una componente di materia non visibile in aggiunta a quella visibile.
La somma di materia visibile e di materia oscura produce una densità pari a circa un terzo di quella critica. Ulteriori informazioni circa la distribuzione e l’abbondanza di materia nell’Universo sono state realizzate mediante osservazioni accurate del fondo cosmico di radiazione.

A causa dell’espansione globale, nel passato le galassie erano più vicine tra loro di quanto non siano oggi. Se immaginiamo di ripercorrere all’indietro l’espansione, arriviamo progressivamente ad epoche in cui la materia era molto più densa e quindi più calda di oggi, tanto da risultare completamente opaca alla luce. Solo circa 400.000 anni dopo il big bang iniziale la luce (nelle varie bande elettromagnetiche) ha cominciato a viaggiare liberamente e a propagarsi in una materia ormai poco densa e trasparente. Questa luce infrarossa  continua a propagarsi nello spazio interstellare, immergendo l’intero Universo in un bagno di radiazione raffreddato dall’espansione stessa fino a soli 2,7 gradi sopra lo zero assoluto, costituendo il fondo cosmico di radiazione.

Il fondo cosmico  è in effetti una vera e propria fotografia nello spettro infrarosso del nostro Universo all’età di 400.000 anni e rappresenta il segnale luminoso più antico che potremo mai percepire.
Predetto negli anni ’50 da G. Gamow, R. Dicke e altri cosmologi, il fondo cosmico di radiazione venne osservato per la prima volta da A. Penzias e R. Wilson nel 1964. Esso proviene quasi uniformemente da tutte le direzioni del cielo e la sua distribuzione in frequenza obbedisce alla legge di corpo nero alla temperatura di circa 2,7 gradi sopra lo zero assoluto. Nel 1992 il satellite americano COBE (Cosmic Background Explorer) scoprì però che il fondo cosmico è leggermente disuniforme a seconda della direzione da cui proviene: tali fluttuazioni rappresentano infinitesime fluttuazioni nella densità media presenti all’epoca dell’emissione della radiazione di fondo. Sono quindi le fluttuazioni iniziali che hanno dato origine in seguito alle galassie che oggi osserviamo. In altre parole, sono i semi iniziali delle strutture cosmiche.
Il problema dell’origine delle fluttuazioni è a sua volta uno dei più impegnativi della ricerca cosmologica contemporanea.

La teoria attualmente più accreditata, la cosiddetta inflazione cosmica, è stata proposta nei primi anni ’80 da A. Guth e sviluppata da diversi altri cosmologi (tra cui A. Starobinsky, A. Linde, P. Steinhardt). Secondo questa teoria l’Universo ha subito una fase di espansione accelerata nei suoi primissimi istanti di vita che ha trasformato minutissime perturbazioni quantistiche in grandi fluttuazioni di dimensioni astronomiche, proprio quelle che osserviamo sul fondo cosmico di radiazione e che infine hanno reso possibile l’emergere delle galassie.
Dallo studio di tali fluttuazioni è possibile risalire alla dinamica dell’espansione cosmica e sottoporre a test i fondamenti della cosmologia. La distribuzione osservata delle fluttuazioni primordiali dipende infatti da quanta materia è presente nel cosmo, inclusa la materia oscura, perché secondo la Relatività Generale è la materia nel suo insieme che determina le caratteristiche dello spazio-tempo.
Le misure del satellite COBE permisero di confermare la  teoria dell’inflazione cosmica  e valsero ai suoi principali scienziati, G. Smoot e J. Mather, il premio Nobel per la Fisica nel 2006, ma si rivelarono insufficienti a determinare la quantità totale di materia.

Dopo molti  altri tentativi, finalmente nel 1999 gli esperimenti italo-americani Boomerang e Maxima, guidati da P. De Bernardis dell’Università di Roma “La Sapienza”, permisero ai cosmologi di misurare con estrema precisione fluttuazioni alla scala angolare di un grado e di concludere che la densità totale di materia cosmica è pari quasi esattamente al valore critico. Nel 2003 il satellite WMAP (Wilkinson Microwave Angular Probe) della NASA ha confermato ed esteso le scoperte degli anni precedenti, misurando diversi altri importanti parametri cosmologici come lo spettro delle fluttuazioni primordiali, la densità di materia ordinaria (protoni e neutroni), la costante di Hubble di espansione, l’età dell’Universo, l’abbondanza di neutrini primordiali ed altre ancora. A breve il satellite Planck dell’ESA espanderà ulteriormente le nostre conoscenze del fondo cosmico di radiazione.
Se le misure di fondo cosmico portano i cosmologi a ritenere che l’Universo possieda una densità pari a quella critica, mentre le osservazioni degli aloni di materia oscura mostrano che questa ammonta a circa un terzo del valore critico, è chiaro che manca qualcosa nell’inventario delle varie forme di materia. La soluzione a questo enigma è stata proposta in modo convincente negli stessi anni.

Nel 1998 due gruppi di ricerca hanno riportato misure sulla velocità di espansione delle galassie lontane ottenute mediante l’analisi di supernovae termonucleari dette di tipo Ia. Queste supernovae emettono durante l’esplosione una quantità fissa di energia (radiazione) quasi indipendente dalle loro proprietà come composizione chimica, massa etc.  Misurando il flusso di energia che arriva ai nostri telescopi è possibile perciò risalire alla loro distanza, proprio come misurando il flusso luminoso più o meno grande  di una lampadina possiamo dedurre se la lampadina è più o meno distante: questa tecnica è spesso indicata col nome di metodo delle candele standard. La distanza così stimata, a sua volta, dipende da quanta materia è presente lungo il percorso del flusso luminoso, sia  quella negli aloni oscuri sia, eventualmente, quella che si trova distribuita in modo omogeneo nello spazio intergalattico. La luce infatti segue nello spazio una traiettoria (detta geodetica) che dipende dalla geometria dello spazio stesso, e quindi in ultima analisi dalla distribuzione di materia.

I due gruppi di ricerca, guidati dagli americani S. Perlmutter e A. Riess, scoprirono che la dinamica dell’espansione  (insieme con i recenti dati  del fondo cosmico) richiedeva  non solo una densità di materia pari a quella critica, ma anche che tale materia dovesse possedere una proprietà del tutto inaspettata: doveva essere capace di accelerare l’espansione. La materia ordinaria come gli atomi o anche la materia oscura possono solo rallentare l’espansione, a causa della loro gravità attrattiva, ma non accelerarla. L’accelerazione può essere indotta solo da una forma di materia del tutto inusuale, capace in effetti di esercitare una sorta di antigravità. Tale materia va oggi sotto il nome generale di energia oscura, in analogia con la materia oscura.

Successivi esperimenti hanno confermato con centinaia di nuove supernovae i primi risultati del 1998. Altre osservazioni cosmologiche ottenute mediante l’analisi della distribuzione delle galassie a grandissime distanze hanno completato e confermato il quadro, ricostruendo l’intera storia cosmica dal big bang fino al presente.
L’inventario dell’energia cosmica è quindi oramai completo: l’Universo possiede in media circa 10-29 grammi al centimetro cubo di massa-energia, di cui una piccola frazione in materia ordinaria (che forma stelle, gas, pianeti etc), circa un terzo in materia oscura raccolta in grandi aloni intorno alle galassie e i restante due terzi in energia oscura distribuita omogeneamente in tutto lo spazio e capace di accelerare l’espansione.

Al momento attuale, restano però due grandi enigmi, ovvero quale sia la natura della materia e dell’energia oscura.
Come abbiamo visto, la materia oscura tende a disporsi in aloni sferici attorno alle galassie, inclusa la Via Lattea. Questo aspetto è compatibile soltanto con particelle “fredde” ovvero dotate di bassa energia cinetica, perché altrimenti non potrebbero rimanere confinate nelle galassie. Le teorie che ipotizzavano particelle calde sono state quindi escluse. Ciononostante, la composizione della materia oscura è ancora ignota. Molto probabilmente non può trattarsi di stelle o pianeti poco luminosi perché da altre considerazioni basate sulla nucleosintesi primordiale (la formazione dei nuclei atomici leggeri nei primi minuti di vita dell’Universo) sappiamo che la materia ordinaria disponibile è insufficiente a questo scopo. Secondo le ipotesi correnti, la materia oscura è quindi sotto forma di particelle elementari diffuse nell’alone. Tali particelle non interagiscono col campo elettromagnetico e sono quindi incapaci di emettere o assorbire luce; proprio per la loro scarsa capacità di interazione queste particelle si propagano liberamente nell’alone e non formano corpi compatti.

Esistono varie idee sulla natura di queste particelle. Una possibilità è che si tratti di neutrini dotati di massa, residuo del big bang come la radiazione di fondo cosmico. Fino agli anni ’90 i neutrini erano considerati particelle di massa nulla, come i fotoni (quanti di luce) che trasmettono il campo elettromagnetico. Nel 1998 il rivelatore sotterraneo Super-Kamiokande in Giappone ha rilevato per la prima volta una massa piccola ma non nulla dei neutrini solari, risultato confermato in seguito da altri esperimenti. Secondo le stime più recenti però la massa dei neutrini (circa 500 mila volte più leggeri dell’elettrone, che a sua volta è la particella più leggera dell’ atomo) è troppo piccola per spiegare la materia oscura. Altri ipotesi invocano particelle predette dalle teorie della fisica fondamentale come le particelle supersimmetriche. Nessuna di queste particelle è stata finora osservata negli acceleratori di particelle o negli esperimenti di ricerca diretta di materia oscura, anche se alcuni gruppi di ricerca hanno individuato segnali che potrebbero essere riconducibili alle particelle oscure.

L’energia oscura è forse ancora più misteriosa della materia oscura. Come abbiamo detto, essa deve essere distribuita in maniera praticamente omogenea nello spazio e deve essere capace di spiegare l’accelerazione cosmica. Già nel 1917 Einstein aveva ipotizzato  l’esistenza di una nuova componente della sua teoria gravitazionale, detta costante cosmologica, al fine di spiegare l’apparente stabilità dell’Universo. La nuova componente  era in effetti paragonabile a una forma particolarmente semplice di energia oscura. Successivamente però Einstein stesso aveva giudicato questa sua ipotesi come uno degli errori maggiori della sua vita, in quanto la sua esistenza era resa superflua dalla scoperta dell’espansione globale dell’Universo realizzata da E. Hubble nel 1929.
La costante cosmologica è stata recentemente reintrodotta in cosmologia proprio per spiegare la osservazioni delle supernovae e del fondo cosmico. Essa è anche chiamata energia del vuoto perché dal punto di vista quantistico può essere associata a un’ energia residuale ineliminabile che si instaura anche in completa assenza di particelle, ovvero nel vuoto assoluto.

Altre ipotesi sull’energia oscura ricorrono a particelle dette scalari che pervadono lo spazio e accelerano l’espansione ma la cui distribuzione non è del tutto omogenea, oppure a modifiche ancora più profonde della struttura della forza gravitazionale o infine all’esistenza di altre dimensioni spaziali. Allo stato attuale tutte queste ipotesi sono esaminate dal punto di vista teorico e osservativo e nuovi esperimenti sono in attuazione o in progetto in tutto il mondo per confermare ed estendere i risultati ottenuti mediante le supernovae e il fondo cosmico.

I grandi progetti dei prossimi anni
I grandi progressi nella comprensione dello spazio in cui viviamo hanno condotto a nuove domande, come sempre accade nell’ambito scientifico. L’abitabilità dei sistemi extrasolari, la fisica dell’evoluzione stellare, la formazione ed evoluzione delle galassie e dei buchi neri massivi, la natura della materia e dell’energia oscura, l’origine stessa dell’Universo, sono tutti temi in cui i passi avanti realizzatisi di recente hanno aperto nuove strade e suscitato nuove aspettative.

Molte delle scoperte astronomiche che hanno costellato gli ultimi anni sono state realizzate grazie alle missioni spaziali come l’Hubble Space Telescope, SOHO, Beppo-SAX, WMAP eccetera. Le osservazioni dallo spazio permettono infatti enormi vantaggi in termini di bande elettromagnetiche osservabili, di continuità, di stabilità e di sensitività, senza dimenticare  il loro insostituibile ruolo nell’esplorazione diretta del sistema solare. È chiaro quindi che i maggiori progetti osservativi dei prossimi anni continueranno a indirizzarsi verso lo spazio.
Tutte le grandi agenzie spaziali, la NASA e l’ESA in primo luogo, ma  anche le  agenzie nazionali europee e del Giappone, Russia, Canada, Cina, India, Brasile e via via altri Paesi, sono quindi in procinto di avviare nuovi ambizioni progetti di esplorazione scientifica dallo spazio.

Alcune delle missioni più impegnative avranno come compito la caratterizzazione della materia ed energia oscura. Esperimenti a bordo della International Space Station cercheranno di osservare tracce dirette di particelle di materia oscura e di antimateria, come avviene già da tempo nei grandi laboratori sotterranei. Sia la NASA che l’ESA hanno in programma per il prossimo decennio una grande missione spaziale dedicata allo studio dell’energia oscura attraverso misure della distribuzione di galassie a grande scala, dell’effetto lente gravitazionale e delle supernovae di tipo Ia. Tali missioni produrranno tra l’altro anche un catalogo di centinaia di milioni di galassie a grande profondità.
L’ESA sta anche per lanciare l’esperimento Planck che realizzerà una accurata mappa del fondo cosmico di radiazione e della sua polarizzazione ad alta risoluzione, permettendo di ricostruire i parametri fondamentali della cosmologia (dall’età dell’Universo al suo tasso di espansione attuale, fino all’abbondanza di neutrini massivi e di materia oscura) con una precisione finora inarrivabile.

Un altra missione ambiziosa già in fase di realizzazione è il satellite internazionale GAIA il cui lancio è previsto intorno al 2012. GAIA  si propone tra l’altro di creare un catalogo posizionale stellare  ad altissima precisione, migliorando la nostra conoscenza delle popolazioni stellari, delle distanze astronomiche e della morfologia della nostra galassia.
La NASA lancerà nei prossimi anni anche il James Webb Space Telescope (JWST), un telescopio ottico da 6.5 metri di diametro che prenderà il posto dell’Hubble Space Telescope. Il JWST sarà il più potente occhio puntato sull’Universo: la sua capacità di produrre immagini ad altissima risoluzione permetterà di raffinare le nostre conoscenze dei meccanismi di formazione ed evoluzione delle galassie, dei buchi neri supermassivi, dei sistemi planetari extrasolari, delle nebulose planetarie, delle supernovae eccetera. Così come l’Hubble Space Telescope, il JWST sarà aperto all’intera comunità astronomica internazionale e i progetti di ricerca saranno selezionati in base al loro merito scientifico.

Il progetto congiunto NASA-ESA LISA (Laser Interferometer Space Antenna) si rivolgerà invece alla rivelazione delle elusive onde gravitazionali, l’equivalente gravitazionale delle onde elettromagnetiche. Già predette da Einstein, le onde gravitazionali non sono state ancora osservate direttamente a causa della loro estrema debolezza, anche se abbiamo alcune evidenze indirette della loro realtà dalle stelle pulsar. Le pulsar sono stelle di neutroni (uno stadio in cui le stelle diventano altamente compatte e le reazioni termonucleari cessano del tutto) in rapidissima rotazione. Le stelle di neutroni emettono intensi flussi di radiazione nella direzione dell’asse magnetico, che a sua volta ruota intorno all’asse di rotazione: ogniqualvolta il fascio di radiazione investe la Terra riceviamo un impulso di radiazione, da cui il nome pulsar.

Le onde gravitazionali sono emesse quando un campo gravitazionale non sferico varia in maniera rapida, ad esempio nelle potenti esplosioni di supernovae o nella collisione tra due stelle o buchi neri. Una pulsar in un sistema binario costituisce un sistema altamente non sferico e quindi  emette onde gravitazionali; poiché le onde trasportano energia l’orbita del sistema binario decade lentamente nel tempo. Proprio osservando il lento decadimento dell’orbita della pulsar PSR 1913+16 nel 1983 J. Taylor e R. Hulse confermarono per la prima volta la realtà delle onde gravitazionali. La scoperta fu premiata dal Nobel assegnato a Taylor e Hulse nel 1993.
Per rivelare direttamente le onde gravitazionali è necessario sfruttare il loro impatto sulle masse che si trovano sul loro cammino. Dopo aver viaggiato indisturbate nello spazio alla velocità della luce le onde gravitazionali mettono in leggerissima vibrazione la masse dei rivelatori terrestri, ad esempio alterando in modo quasi impercettibile la distanza tra due corpi lungo un’antenna gravitazionale. Misurando le variazioni di distanza è possibile rilevare il passaggio e l’intensità delle onde gravitazionali.

Il progetto LISA si propone di estendere le antenne interferometriche gravitazionali da distanze dell’ordine di qualche chilometro, come quelle realizzate sulla Terra (ad esempio l’ antenna Virgo in Italia e LIGO negli USA), a circa 5 milioni di chilometri, mediante il lancio di una formazione di tre satelliti artificiali. La misura ad altissima precisione della distanza tra i satelliti permetterà di rilevare il passaggio, la direzione e l’intensità delle onde gravitazionali emesse durante le ultime fasi delle collisioni stellari in sistemi binari nella nostra Galassia e nelle Galassie vicine. LISA potrebbe anche rivelare il fondo cosmologico di onde gravitazionali, analogo al fondo cosmico di radiazione ma proveniente da un’epoca ancora più remota, frazioni di secondo dopo il big bang. L’esistenza di tale fondo sarebbe una conferma cruciale della teoria dell’inflazione cosmica.

Oltre alle missioni spaziali, esistono poi alcuni grandi progetti basati sulla Terra. Come già accennato in precedenza l’European Southern Observatory (ESO), l’ente  che gestisce i grandi telescopi europei in Cile, sta progettando un telescopio ottico da 42 metri di diametro denominato EELT (European Extremely Large Telescope). Si pensi che i più grandi telescopi attualmente realizzati misurano circa 8-10 metri di diametro, come il Very Large Telescope a Cerro Paranal in Cile, il Large Binocular Telescope in Arizona, il Keck alle Hawaii, il Canarias alle Isole Canarie. Tra i compiti scientifici dell’EELT c’è quello di osservare “in diretta” per la prima volta l’espansione dell’Universo, misurando la variazione di velocità di recessione delle galassie durante un intervallo di qualche anno. Inoltre, la sua altissima risoluzione e sensitività sarà sufficiente per osservare i pianeti extrasolari e per studiarne la composizione chimica atmosferica.

Sempre da Terra, un consorzio internazionale sta sviluppando l’idea di distribuire sopra un’area estesa fino a 3000 km di diametro una serie di antenne paraboliche radio la cui area ricettiva complessiva ammonterà a circa un chilometro quadrato: il progetto prende infatti il nome di Square Kilometer Array (SKA). SKA diverrà quindi il più esteso radiotelescopio del mondo e potrà  captare i segnali nella banda radio emessi dal cuore delle galassie più remote così come dalle molecole complesse nelle atmosfere dei pianeti extrasolari.
La  sensitività di SKA è tale che potrà essere utilizzato anche per monitorare eventuali segnali radio intelligenti da stelle vicine. Le onde radio permettono inoltre di indagare regioni della nostra Galassie che risultano totalmente oscurate nelle bande ottiche, come il centro galattico.

Infine occorre menzionare un progetto che è in corso di completamento al CERN di Ginevra, il Large Hadron Collider (LHC), ovvero un acceleratore di particelle che si estende su un anello di 27 km di diametro. Benché si tratti di un progetto di fisica delle particelle ideato per completare il quadro della teoria dei costitunti elementari della materia, l’LHC potrebbe contribuire alle ricerche astrofisiche in varie maniere. L’altissima energia dell’LHC potrebbe infatti gettare luce sulle teorie delle stringhe extra-dimensionali che sono state anche invocate per spiegare il fenomeno dell’accelerazione cosmica. Allo stesso tempo, alcuni esperimenti programmati all’LHC potrebbero individuare particelle aventi caratteristiche simili a quelle richieste per la materia oscura.

Negli ultimi dieci anni, grazie allo sforzo combinato di grandi esperimenti da terra e dallo spazio e di nuove ipotesi teoriche, la nostra conoscenza dell’Universo e dei fenomeni fisici e astrofisici  che in esso si svolgono ha già permesso di scrivere a grandi linee l’intera storia della sua evoluzione passata e di immaginare il suo futuro, di comprendere i meccanismi riposti delle stelle e delle galassie, di accertare l’esistenza dei pianeti extra-solari, dei buchi neri e delle stelle di neutroni, di capire l’origine delle supernovae, dei quasar, delle pulsar, dei raggi cosmici, dei lampi gamma, del fondo cosmico e di infiniti altri spettacoli naturali. Non c’è dubbio che il prossimo decennio porterà nuove conoscenze, nuove scoperte e nuove sorprese.