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Le parole straniere nell’italiano

Le parole straniere nel nostro linguaggio quotidiano

 

Le parole straniere nel nostro linguaggio quotidiano

Tra i fenomeni che caratterizzano la nostra epoca, uno certamente di grande evidenza è il contatto con i problemi, gli avvenimenti, i personaggi, i prodotti culturali e materiali di quei paesi che si chiamano stranieri ma che, soprattutto in alcuni casi, stranieri nel senso di «estranei» lo sono sempre meno.

È ben difficile considerare stranieri il dentifricio con cui ci laviamo i denti al mattino (sia esso un Durban’s o un Forhans) o la Gillette e la spuma da barba spray che utilizziamo per raderci: per non parlare della radio, a transistor o a circuiti integrati, che ascoltiamo mentre, per colazione, ci prepariamo un toast. E certo ci sono ben familiari il tram o il bus o il taxi che prendiamo per muoverci in città, né ci sembra di fare una cosa stravagante se decidiamo durante la giornata di fermarci al bar per mangiare un sandwich, bere una Coca-cola o un Martini dry. Così ci sembrerà del tutto naturale, se siamo invitati a un cocktail o a un party a casa di amici, telefonare alla baby-sitter perché sorvegli i bambini. E come diversamente potremmo dire a un amico che, finalmente, abbiamo trovato un lavoro, purtroppo part-time e non full-time, come avevamo sperato?

Si tratti insomma degli oggetti che ci circondano e che indossiamo, dei fenomeni e degli avvenimenti che ci coinvolgono, dell’organizzazione del nostro lavoro, dei drink che beviamo, o degli sport che amiamo o pratichiamo nel nostro weekend, non c’è momento della nostra giornata in cui non siamo calati in una realtà i cui confini diventano sempre meno nazionali.

Non c’è dunque bisogno di essere un manager industriale o un leader politico, una hostess o un travel-agent, né far parte dell’establishment economico o culturale per entrare in contatto con il mondo intero. Ma ogni forma di contatto con una realtà internazionale porta con sé, necessariamente, anche la conoscenza, a vari livelli, di quella o di quelle lingue attraverso cui questi contatti si realizzano. Non intendiamo qui parlare dell’esigenza di imparare lingue straniere, ma del fatto che tutti noi usiamo, anche senza accorgercene, parole che non appartengono alla nostra lingua. L’ospitalità offerta a parole estranee è un fenomeno antico almeno quanto la torre di Babele: per non parlare di lingue più antiche, già il latino, a contatto con la cultura greca, aveva accolto parole di quella lingua e le aveva assorbite totalmente («anfora» è una di queste), così come aveva assorbito parole etrusche, semitiche ecc.

Il prestigio del francese e dell’inglese

Come vedremo, il parlante italiano conosce e usa soprattutto (anche se non esclusivamente) parole francesi e inglesi entrate nella nostra lingua dal Settecento in poi, in relazione all’alterno e progressivo prestigio dei due grandi popoli europei, a cui più recentemente si è affiancata, con tutta la sua forza, la superpotenza, anche linguistica, degli Usa. Molte di queste parole si sono totalmente mimetizzate e hanno assunto un aspetto italianissimo (chi direbbe che mangiare ci viene dall’antico francese mangier, derivante a sua volta dal latino manducare?). Ma di queste parole che si sono completamente adattate alla fonetica e alla grammatica dell’italiano, parleremo più avanti: ora ci soffermeremo su quelle parole straniere che conservano più o meno la loro veste originaria e che perciò, magari con qualche dubbio, riconosciamo come non italiane. Sono parole come toilette, western, roulotte, prémaman, marketing o self-service.

Parole come queste, proprio perché sono rimaste fino in fondo straniere, ci pongono di fronte a mille dubbi su come vadano pronunciate, scritte o adoperate. Così, se molte ci sono ben note nella loro forma scritta (made in Italy, wool o club), ma non siamo sicuri su come si debbano pronunciare, altre ci sono familiari nella loro forma orale, ma non sapremmo, forse, come scriverle correttamente: è il caso di parole come roast-beef, jersey, whisky e tight. E se molti, oggi, usano dire che è ora di fare un «brèk», qualcuno forse non sa che si scrive break; e se tutti sanno cosa significa quello che, a parte l’accento, senza dubbi pronunciano «strip tìis», qualcuno è certamente meno sicuro sull’esatta grafia (strip-tease e non, come molti credono, «streap-tease»).

Nonostante queste e altre difficoltà che incontriamo nell’uso di parole straniere, il loro numero sembra aumentare sempre più nel nostro linguaggio quotidiano. Un aumento che va di pari passo con l’accrescersi dei beni materiali e culturali che importiamo e che vengono in varie forme pubblicizzati, non solo con i loro nomi di origine, ma con slogan spesso densi di espressioni non italiane. E così, se un tempo faceva più chic o faceva sentire à la page vestirsi secondo la moda francese, o arricchire il proprio vocabolario con espressioni francesi, oggi si è molto più in, cioè «nel» mondo che conta, se si è up-to-date, «al passo», cioè, con i tempi che privilegiano l’inglese.

Linguaggio quotidiano e mass media

Ma l’immissione massiccia e la sempre più profonda penetrazione di parole straniere nel nostro linguaggio quotidiano sono anch’esse dovute, come tanti altri fenomeni, alla potente azione dei tanto nominati mass media, ossia dei «mezzi di comunicazione di massa» (ma quanto è più lunga e, soprattutto, meno efficace l’espressione italiana!). Mass media merita una precisazione: non si tratta, infatti, di una parola autenticamente made in Usa, ma di un ibrido la cui seconda parte (media) è una forma latina, ed esattamente il plurale di medium (il cui significato latino è genericamente «mezzo»). Anche la forma singolare, come quella plurale, è entrata in italiano tramite l’inglese con il significato di persona che fa da «tramite», nelle sedute spiritiche, fra il mondo dei vivi e quello dei morti. In entrambi i casi, quindi (medium e media), il significato specifico col quale adoperiamo queste parole non è latino, ma inglese. Medium e media sono, come si dice in gergo tecnico, due anglolatinismi o latinismi di ritorno.

Il caso dei latinismi e dei grecismi entrati nell’italiano tramite l’inglese è simile a quello di tantissime altre parole provenienti da altre lingue (soprattutto da quelle esotiche) diffuse in Italia, come in tutta l’Europa, attraverso la mediazione della lingua e della cultura anglosassone. Sono parole come bungalow, curry, provenienti dall’India; orang-utan, tek, gong, dalla Malesia; boomerang, dall’Australia; lama (monaco buddista) e yak (specie di bovino) dal Tibet; totem e tomahawk (accetta da guerra usata dai pellirosse) dalle praterie degli indiani d’America.

Sempre attraverso l’inglese ci sono giunte parole appartenenti ad altre lingue europee. È il caso di yacht, dock e iceberg che ci vengono dall’olandese; di geyser, dall’islandese; di slalom, ski (o sky) «sci», dal norvegese. Dallo spagnolo, attraverso gli Stati Uniti, ci sono giunte canyon, rodeo, marijuana (o marihuana), e dal portoghese l’ormai usatissima, ahimè, commando. Fra le parole entrate in italiano attraverso l’inglese, un caso interessante è quello di blitz, termine lanciato con viva forza, ancora una volta, dai mass media e ormai usatissimo con riferimento alle irruzioni improvvise delle forze dell’ordine nelle abitazioni o nei covi dei terroristi, della malavita organizzata e ovunque si ritiene necessaria un’azione veloce e inaspettata. Si tratta di una parola tedesca che significa, nella lingua di origine, «lampo», «fulmine»; fra i vari composti in cui entra vi è blitzkrieg, letteralmente, in tedesco, «guerra lampo». Durante la seconda guerra mondiale, e con riferimento agli attacchi aerei del 1940-41, questa parola è entrata a far parte della lingua inglese dove è rimasta, perdendo però la seconda parte del composto e dando anche luogo a un verbo, to blitz, che significa «distruggere», specie con attacchi aerei. Dall’inglese, poi, è passata alla lingua italiana dove, soprattutto recentemente, ha assunto il significato che abbiamo visto.

Altre parole provenienti da altre lingue e per alcune delle quali ha ancora una volta agito la mediazione inglese o francese sono, fra tante altre: dal cinese, cin cin, risciò; dal giapponese geisha, samurai, kimono, kamikaze e tutta una serie di nomi connessi ai diversi tipi di lotta giapponese che il cinema e le varie palestre ci hanno reso familiari; dall’antica cultura indiana, yoga, nirvana, maragià; dal turco yogurt e harem; dall’ebraico kibbutz; dal russo mugic, isba, samovar (nomi introdotti attraverso la traduzione di opere della letteratura russa dell’Ottocento), vodka e, connessi alla storia contemporanea, soviet, sputnik (per citarne solo alcuni). Dal ceco ci viene robot (nome degli automi che agiscono come operai in un dramma di K. Capek e che viene da robota, «lavoro»); parola ungherese è invece gulasch (nome di un piatto a base di carne e di verdure che deriva da gulyas, «pastore», e che designava, all’origine, il cibo dei mandriani), giuntaci attraverso il tedesco. Tra le lingue europee, oltre al francese e all’inglese, vanno tenuti presenti soprattutto lo spagnolo e il tedesco da cui ci vengono direttamente numerose parole di uso comune. Ne citeremo qualcuna fra quelle che hanno conservato la loro veste originaria. Sono tedesche leitmotiv (termine sorto con riferimento al teatro di Wagner e che ha assunto il significato di «motivo conduttore» di un’opera), edelweiss, la stella alpina, propriamente «bianco nobile» (nome che dà ancora più fascino al delicato fiore); e, ancora, legati alle vicende delle due guerre mondiali, kaputt, putsch, führer, lager, panzer. Fra i termini attualmente più usati ricordiamo i ben noti würstel, strudel (letteralmente «vortice» per la forma a rotolo del dolce); krapfen e il citatissimo hinterland col quale si designa l’entroterra, soprattutto delle aree maggiormente urbanizzate e industrializzate.

Dallo spagnolo provengono molte voci connesse a danze, al mondo della corrida o a quello dell’allevamento del bestiame in Sudamerica. Attraverso il portoghese ci sono arrivate numerose parole esotiche come bambù, banana, bonzo, cavia, macaco, pagoda, samba ed altre. Come vediamo, si tratta di parole alquanto isolate, tutte legate a singoli oggetti o aspetti tipici della vita e della cultura di questi popoli.

L’inglese, lingua di comunicazione internazionale

Un fenomeno ben diverso e di ben altra portata è invece quello rappresentato, ai nostri giorni, dalla diffusione nella nostra lingua di parole inglesi.

Tanto massiccia è la loro presenza nel nostro linguaggio quotidiano, che si è sviluppata in noi la tendenza ad interpretare come inglesi tutte le parole straniere che leggiamo o sentiamo. Tendenza comprensibile non solo perché molte di queste parole ci sono arrivate attraverso l’inglese (e dunque con una pronuncia e una grafia inglesi), ma anche perché il prestigio acquisito dalla cultura anglosassone contemporanea ha reso l’inglese la lingua di comunicazione internazionale in tutti i campi.

Lo stesso, d’altra parte, era avvenuto in Europa con il latino nel Medioevo, e con il francese a partire soprattutto dal Settecento e fino alla prima metà del Novecento. Ancora per i nostri nonni la lingua straniera per eccellenza era il francese: quella che si imparava a scuola e quella, appunto, da cui e attraverso cui è entrata la maggior parte delle parole straniere nella nostra lingua.

Basti pensare che l’italiano ha attinto dal francese sin dai primi secoli dopo il 1000. Sono vocaboli che rientrano nelle sfere più disparate della cultura: dalla politica alla musica, dal mondo amministrativo e burocratico a quello militare, dalla filosofia alla moda, dalla gastronomia all’arredamento. È qui il caso di mettere in rilievo come, fra le parole che hanno conservato, se non nella grafia, nella pronuncia, la loro veste più o meno originaria, la maggior parte rientra nelle ultime sfere citate: la gastronomia, la moda, l’arredamento. Della prima fanno parte: ragù, bignè, champagne, purè, consommé, omelette, cognac, gateau, marrons glacés, croquette, brioche, croissant, frappé, soufflé, per citarne solo alcune. Al mondo della moda appartengono: satin, taffettà, cretonne, picchè, popeline, gabardine (tutti nomi di tessuti) e ancora: coiffeur, foulard, double face, liseuse, plissé, prémaman, boutique ecc. A quello della casa e dell’arredamento: canapè, sofà, comò, boudoir, secrétaire, console, abat-jour, parquet, bidet. Fra i termini e le espressioni di carattere generale ricordiamo: élite, habitué, parvenu, enfant prodige, boulevard, affiche, équipe, nuance, pruderie, rendez-vous, vis-à-vis, en plein, en passant, nouvelle vague, tout court.

Dal francese all’italiano

Su alcuni di questi termini c’è da fare qualche considerazione: dobbiamo innanzitutto osservare che, soprattutto nei casi in cui la grafia in francese era più lontana dalla pronuncia, c’è stato un processo di adattamento della forma scritta a quella parlata. Questo adattamento, che ha consentito di rendere accessibile al parlante italiano la pronuncia francese, è stato facilitato dall’affinità fra i suoni di questa lingua e quelli dell’italiano. È questo il caso, ad esempio, di bigné da beignet, di picchè da piquet, di paltò da paletot, di taffettà da taffetas. Quanto a comò, la parola è il risultato di un adattamento del francese commode che designa il cassettone e che deriva da un composto armoire commode, letteralmente «armadio comodo».

C’è poi da notare che, come spesso avviene quando le parole passano da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, alcune di esse hanno subito, nell’entrare a far parte della nostra lingua, delle modificazioni di significato. Ad esempio, il termine gagà: mentre in francese designa una persona che è tornata allo stadio infantile, o un vecchio rammollito, in italiano è venuto ad assumere il significato, che tutti conosciamo, di persona che ostenta un’eleganza affettata, vistosa. E ancora il râgout in Francia non designa, come da noi, un sugo di pomodoro per pastasciutta preparato con carne, ortaggi e aromi, ma un piatto a base di carne, legumi o pesce tagliati a pezzetti e cotti in un sugo con spezie (perciò, se ci troviamo in Francia e al ristorante decidiamo di ordinare un piatto al ragù, non ci aspettiamo di vederci servire la pastasciutta!).

Incertezza di grafia e di pronuncia tra inglese e francese

L’incidenza del francese sull’italiano, così massiccia nel Settecento e nell’Ottocento, cede gradatamente il passo a quella inglese nella prima metà del Novecento, fino a esserne quasi completamente soppiantata nel secondo dopoguerra, soprattutto con la prepotente avanzata della cultura americana. Testimoni di questo passaggio della guardia sono certi fenomeni di sovrapposizione tra il francese e l’inglese che, come vedremo, diventano spesso fonte di ulteriori complicazioni e dubbi di pronuncia e di scrittura. È il caso, ad esempio, di parole che sono entrate in italiano da entrambe le lingue. Ora, alcune di queste hanno una grafia del tutto identica o con qualche lieve differenza, e una pronuncia talvolta simile, talvolta diversa.

Così, ad esempio, chance (occasione, opportunità) ed exploit (impresa singolare, imprevedibile), che hanno un’identica grafia nelle due lingue, o le parole inglesi comfort, cashmere, trance, shock che in francese si presentano come confort, cachemire, transe e choc.

Ci sono poi alcune parole inglesi che, dato il prevalere del prestigio della lingua francese fino a qualche decennio fa, sono state a lungo (e qualcuna lo è ancora) pronunciate alla francese, lingua attraverso cui ci sono inizialmente giunte. È il caso di budget (bilancio), o di suspence che si alterna sia con la grafia (suspense), sia con la pronuncia alla forma francese, ancora imperante. Lo stesso dicasi di club e di bluff per le quali prevale ancora la pronuncia francese invece di quella inglese. E così boxe e boxeur rivelano nella loro forma (e la seconda anche nella pronuncia) la mediazione francese per parole che sono inglesi e la cui esatta grafia è box e boxer. E se festival è una parola inglese, la cui pronuncia prevede l’accento sulla prima sillaba, ma ci arriva attraverso il francese di cui molti conservano la pronuncia con accento sull’ultima sillaba; hôtel è, invece, una parola francese naturalizzata ormai in inglese. Del francese conserviamo la pronuncia con accento sull’ultima sillaba (pochi pongono l’accento sulla prima, all’inglese), ma sempre meno, ormai, la grafia, che ha perso quasi ovunque quell’accento che si chiama circonflesso sulla o. Qualche altra curiosità? Se vediamo scritto sia rhum che rum, poney e pony, rallye e rally, è perché anche queste sono fra le parole inglesi che ci sono arrivate anche, o inizialmente, attraverso la Francia (la seconda è la corretta grafia inglese, la prima quella francesizzata). Per non parlare di chèque (l’assegno bancario), parola francese, per la quale si riscontrano parecchie incertezze, soprattutto riguardo alla grafia.

Parole del mondo dello sport, della moda, della politica

La mediazione del francese tra la lingua inglese e quella italiana va già decrescendo nell’Ottocento, quando molti anglicismi entrano nell’italiano direttamente, anche se in forma adattata. Qui sarà intanto interessante rendersi conto di quante parole inglesi concernenti il mondo dello sport, della moda, della politica siano entrate nell’italiano in forma non adattata già nell’Ottocento: la stessa parola sport (in inglese originariamente «spasso»), football, rugby, goal, tennis, derby, baseball (proveniente dagli Usa) e ancora basketball, cricket, match, polo, record. Agli inizi del Novecento sono già attestate goal, golf, offside, outsider e rally e, prima della seconda guerra mondiale, bob, corner, dribbling. Dal mondo della moda già nell’Ottocento entrano termini come waterproof (impermeabile) «a prova di acqua», smoking, tight, dandy, fashion, fashionable («alla moda»), jersey. Dal mondo della politica, già alla fine del Settecento, ultimatum e, nell’Ottocento, premier, leader, meeting (col significato di «comizio»). Sempre nel secolo scorso sono giunti manager, stock, trademark («marchio di fabbrica»), copyright («coperto da diritti d’autore»), ferry-boat, tunnel, e ancora bridge, poker, revolver, detective, reporter; e oltre a rum (entrato addirittura nel Seicento), sempre nell’Ottocento entrano gin, brandy, whisky, roast-beef e tanti altri ancora. Bastano questi esempi a farci capire quanto, già nell’Ottocento, la cultura, e con essa la lingua inglese, cominciano a penetrare nei campi più disparati della nostra vita. Questa penetrazione ha iniziato ad assumere, dalla seconda metà del Novecento, proporzioni sempre più vaste.

Parole diverse, modi diversi di vedere il mondo

Su alcune delle parole che abbiamo citato val la pena di soffermarsi, per capire quali fenomeni si possano verificare quando una parola, lasciata la sua patria, si trova in terra straniera a dover fare i conti con altri individui della sua specie (altre parole) e con altre comunità (altre lingue), che non solo sono vestite in maniera diversa, ma che, soprattutto, rispecchiano un modo diverso di vedere il mondo. Allora bisogna adattarsi e diventare sempre più diversi dai propri fratelli in patria. Questo è avvenuto, per esempio, a parole come tight e smoking. Il primo termine in inglese significa «stretto» (come aggettivo), e come sostantivo plurale (tights) «calzamaglia». Il secondo vale esattamente «il fumare» o «fumante» (smoking compartment era la carrozza per fumatori e, all’opposto, smoking forbidden, o no smoking – come leggiamo nei luoghi pubblici – significa «vietato fumare»). In italiano le due parole hanno assunto un diverso significato; ma è bene sapere che gli inglesi, per riferirsi al tipo di abito che noi chiamiamo smoking, usano l’espressione dinner jacket (letteralmente «giacca da cena») o la parola tuxedo, mentre con smoking jacket designano talvolta la giacca da camera. Se tuttavia per smoking alcuni dizionari inglesi più antichi attestano una smoking jacket o coat col significato di «elegante giacca da uomo ricamata», non si è trovata traccia di una parola tight, usata da sola o in forma composta, col significato col quale noi l’adoperiamo. Non ci resta che supporre la presenza, anche in questo caso, di un’antica espressione tight jacket («giacca stretta») ridottasi in italiano a tight.

Questo fenomeno di riduzione si è verificato in varie altre espressioni inglesi che, come quelle precedenti, hanno finito coll’assumere, proprio a causa di queste trasformazioni, un significato diverso da quello originario. È questo il caso di night che, da solo, in inglese significa semplicemente «notte», laddove per designare il locale notturno gli inglesi adoperano l’espressione night club. Dello stesso genere è il caso di trench che in inglese vuol dire «trincea» e il cui significato in italiano (soprabito impermeabile con cintura) corrisponde a quello dell’espressione inglese trench coat (letteralmente «abito da trincea»). Così water, che spesso adoperiamo per indicare il gabinetto, in inglese significa «acqua», mentre per la stessa designazione in Inghilterra si adopera, insieme ad altre, l’espressione water closet (letteralmente «gabinetto ad acqua») o la sua abbreviazione cifrata WC usata anche in Italia (da osservare per inciso che anche il termine toilette, dal francese, è frutto di un’identica riduzione: con lo stesso significato i francesi adoperano l’espressione cabinet de toilette). E per ultima (ma ce ne sono diverse altre) citiamo la parola basket che da sola, in inglese, significa cesto e non il gioco della pallacanestro, dagli inglesi designato unicamente con il termine composto basketball.

Parole che cambiano significato

Ci sono poi dei casi in cui, con l’inserimento nella nostra lingua, alcuni termini inglesi hanno subito veri e propri cambiamenti di significato. Così flipper, ad esempio, che in italiano designa il famoso gioco da bar, in inglese si riferisce alle alette (flippers) che rilanciano le palline; flirt, come sostantivo, in inglese si riferisce non alla relazione, come in italiano e in francese, ma alla persona coinvolta nella relazione. E ancora, golf, oltre a designare lo sport che tutti conosciamo, è usatissimo, ma solo in Italia, col significato di «maglione»: probabilmente ancora per effetto di un processo di riduzione di un’ipotizzabile forma composta golf coat, «indumento da golf». Un altro caso di spostamento di significato particolarmente interessante è quello della parola snob. Questa parola dell’inglese arcaico è l’abbreviazione dell’espressione latina s(ine) nob(ilitate), con la quale si indicavano nei registri delle università e dei collegi gli studenti non appartenenti alla nobiltà. Ancora nei dizionari inglesi contemporanei snob sta a designare una persona di umile origine e condizione sociale. Gli aggettivi e sostantivi inglesi che derivano da questo nome (snobbish, snobbery, snobbism) fanno, sì, riferimento ad una persona di umile origine, ma che ostenta disprezzo per il proprio ceto e imitazione e ammirazione per quello superiore. È evidentemente da tale connotazione che scaturisce il significato assunto da questa parola in italiano, dove la troviamo con riferimento a persona che manifesta un atteggiamento di superiorità, con ostentazione di presunta distinzione e raffinatezza.

I dizionari italiani più recenti riportano di solito le parole straniere più usate, dandone il significato e la pronuncia e, spesso, indicandone anche l’origine. La difficoltà consiste nel rintracciare nel vocabolario la parola di cui si conosce più o meno approssimativamente la pronuncia, ma non l’esatta grafia. Ecco alcuni consigli utili, soprattutto in relazione alle consonanti iniziali:

 

c dolce

(pron. č come in «cielo») corrisponde di solito a ch in inglese (chewing-gum).

sc

(pron. š come in «scena») corrisponde a sh in inglese (shampoo), ch in francese chic, chèque), sch in tedesco (Schnauzer).

c dura

(pron. k come in «cane») può trovarsi scritta k (kilt, poker), c (clan, club, detective), oppure, nel corpo e in fine di parola, ck (shock). Se la parola è francese potrà trovarsi scritta qu (querelle, équipe).

g dolce

(pron. ğ come in «giallo») potrà trovarsi scritta come j (jeep, jet) o anche, nel corpo e in fine di parola, dg (bridge).

v

v iniziale non presenta problemi in inglese, in cui è scritta v (very, victory); in tedesco, invece, si scrive w (watt, wafer, walzer), ma attenzione, in tedesco v si pronuncia come l’italiano f (Volkswagen).

u

u che precede un’altra vocale viene scritta w se la parola è inglese (western, weekend); in questa lingua talvolta troviamo anche wh (whisky).

i

i che precede un’altra vocale è di solito scritta y (yogurt, York) nelle parole inglesi.

h

in italiano si tende a non pronunciarla; essa è frequentissima invece in inglese (hobby, humour), in francese e in tedesco (habitué, hamburger). Nella pronuncia inglese corrisponde a un’aspirazione.

Etimologia

Roma-Londra e ritorno

Nella vasta schiera dei «latinismi di ritorno» ci sono parole come ultimatum, specimen «campione» (plurale specimina, alla latina, o specimens, all’inglese), campus (l’insieme degli edifici e dei terreni che costituiscono i complessi universitari residenziali), quorum «quota», linoleum, aquarium, junior (jr.), audio-, video-. Lo stesso elemento mini- (minigonna, minibar, minibasket), così come super- (superman, supermarket) ci viene dal latino attraverso l’inglese (mentre micro-, macro-, pseudo- e auto- sono elementi greci entrati per la stessa via).

Questi casi ci mostrano come parole latine o greche possano, nel mondo moderno, insinuarsi nella nostra lingua quotidiana, rivestite e mimetizzate da un look (immagine) anglosassone. Ma quante sono le parole di queste due lingue classiche che hanno subito la stessa sorte, e quante volte, senza rendercene conto, usiamo termini latini o greci scambiandoli per parole italiane? Basterà qualche esempio per svelarci l’ampiezza del fenomeno. Chi di noi non si è cimentato almeno una volta con un rebus? O chi non ha desiderato di poter avere qualcosa gratis, senza tirar fuori il conquibus? E i referendum non rappresentano spesso dei veri e propri busillis per i quali si auspicherebbe la pubblicazione di un vademecum dell’elettore? Tutti quanti abbiamo poi in casa almeno un album per le foto, magari quello del matrimonio. Tutte le parole in corsivo (tranne foto che è greca, e significa all’origine «luce») sono parole latine, entrate nella nostra lingua in epoche diverse, e spesso attraverso lingue europee moderne, soprattutto il francese e l’inglese: la storia di alcune di esse è particolarmente curiosa e meriterebbe di essere raccontata. Album, ad esempio, che in latino significa semplicemente «cosa bianca», indicava nella Roma antica la tavoletta bianca su cui si scrivevano, in nero, avvisi pubblici di vario genere. All’italiano la parola è però arrivata attraverso il tedesco: in quest’ultima lingua designava, nell’Ottocento, un grande libro o quaderno in cui si raccoglievano gli autografi o brevi frasi augurali degli ospiti.

Il latino e, talvolta, il greco si nascendone poi dietro parole comunissime, di cui non sospetteremmo mai l’origine o la stretta parentela. Chi direbbe mai che il gas di scarico delle automobili, e il caos del traffico sono la stessa cosa? Eppure è così: caos è parola greca, che significa all’origine «materia informe», e gas è una voce scientifica, creata nel Seicento sul latino chaos, a sua volta prestito del greco. Il linguaggio della medicina è, notoriamente, pieno di termini di origine greca: ma molti di questi termini sono entrati nell’uso comune e non è necessario essere dottori per dire di avere il colon infiammato o per lamentarsi di un fastidioso eczema.