Pensatore e uomo politico italiano (Genova 1805 – Pisa 1872).
Pensatore e uomo politico italiano (Genova 1805 – Pisa 1872).
Nacque da Giacomo, medico, e da Maria Drago, nobile spirito permeato di religiosità che alimentò nel figlio la vocazione all’austerità, al dovere e al sacrificio. Avviato allo studio della medicina, ben presto rivelò una spiccata predilezione per le lettere e per l’attività politica cui si votò fin da quando giovanissimo, come egli stesso scrive nelle Note autobiografiche, vide gli insorti del 1821, sconfitti, affollarsi al porto di Genova per trovare scampo in Spagna. Nel 1828 collaborò con articoli di letteratura all’«Indicatore genovese» e, soppresso questo dalla polizia, all’«Indicatore livornese» (1829) e all’«Antologia»; si accostò alle idee romantiche combattendo la vecchia concezione arcadica della letteratura, cui contrapponeva la teoria del perfezionamento dell’umanità attraverso il progresso e la libertà, posti alla base tanto della storia che della letteratura delle nazioni. Fin dal 1827 si era iscritto alla carboneria, ma il fallimento dei moti del 1831 lo indusse a una profonda revisione critica che lo portò a individuare i limiti e gli errori di una generazione che per essere stata di volta in volta repubblicana, napoleonica, borbonica e per provenire da un’educazione settecentesca materialistica e utilitaristica, si rivelava, ai suoi occhi, incapace di mettersi alla testa del movimento nazionale. Arrestato per una delazione nel febbraio 1831 e rinchiuso nel carcere di Savona, vi portò a conclusione le sue meditazioni e progettò i suoi programmi. Posto di fronte all’alternativa del confino in patria o dell’esilio, scelse quest’ultimo, che lo lasciava più libero nella azione, e si recò a Marsiglia dove, nel luglio 1831, fondò la Giovine Italia con la rivista omonima di cui uscirono soltanto sei numeri. Liberata quasi del tutto dalle forme organizzative clandestine che inceppavano l’attività delle altre sette, la Giovine Italia, come giuravano coloro che vi si affiliavano, si consacrava a costituire l’Italia in nazione una, indipendente, libera, repubblicana e promuoveva con tutti i mezzi di parola, di scritto e di azione l’educazione degli italiani. Mazzini indirizzò nel giugno 1831 una lettera a Carlo Alberto per invitarlo a porsi alla testa del moto risorgimentale, ma probabilmente per ottenere invece la riprova dell’impossibilità che qualsiasi principe italiano si assumesse quel compito. Ottenuto come risposta l’ordine di arresto nel caso fosse penetrato nel Regno sabaudo, Mazzini organizzò nel 1833 dei moti in Piemonte (in cui rimase vittima l’amico Iacopo Ruffini) e nel 1834 in Savoia, miseramente abortiti. Nello stesso anno fondò la Giovine Europa, con la quale si proponeva di allargare l’azione della Giovine Italia a tutte le nazioni d’Europa ancora soggette, ma che in realtà non acquistò mai grande importanza.
Questi fallimenti indussero nel suo animo un grave sconforto, «la tempesta del dubbio» (1836-1837), da cui uscì rinvigorito dalla convinzione che «la vita è missione» e la sua legge è il «dovere». La sua dottrina si incentrò sull’affermazione che il popolo è il tramite della rivelazione divina («Dio e popolo») e che l’intera storia dell’umanità è un continuo progresso. La missione di incrementarlo spettava all’Italia, che già aveva avuto il primato come sede della Roma dei Cesari e della Roma dei papi e in cui stava per risorgere la Roma del popolo. Ma occorreva per questo che il popolo italiano venisse educato con la stampa, con la scuola, ma soprattutto con la religione del sacrificio che Mazzini compendiava nel motto «Pensiero e azione», a significare che la lotta è insufficiente senza l’ideale né questo vale se non si concreta nella lotta. Da questa impostazione ideologica derivano i moti mazziniani, che scossero allora soprattutto la Sicilia e la Romagna e che culminarono nella sfortunata spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera (1844), cui tuttavia Mazzini aveva sconsigliato l’azzardata impresa. Tornato in Italia nel 1848 dopo l’insurrezione di Milano, si adoperò per porre pace tra le diverse tendenze politiche. Sorta a Roma la repubblica il 9 febbraio 1849, vi si recò nel marzo e ne venne nominato triumviro insieme con Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Rivelò in quella circostanza doti di accorto amministratore e mostrò di sapersi destreggiare come diplomatico, anche frenando i programmi impulsivi di Garibaldi. Tentò di accattivarsi le simpatie della Francia repubblicana, ma non riuscì e il presidente Luigi Napoleone Bonaparte inviò un corpo di spedizione che alla fine di giugno pose termine alla vita della repubblica. Mazzini tornò allora a Londra dove insegnò la lingua italiana e si occupò di questioni di letteratura senza per questo abbandonare l’attività politica. Nonostante molte critiche si appuntassero ormai su di lui per gli insuccessi della sua azione, riprese la lotta lanciando, per finanziarla, un prestito nazionale; la vendita delle cartelle determinò però l’arresto di molti patrioti, tra cui per primo don Enrico Tazzoli, che vennero uccisi sugli spalti di Belfiore, né sorte migliore ebbe un tentativo di rivolta a Milano, il 6 febbraio 1853. Mazzini rivolse allora la sua attenzione all’Italia meridionale dove si ebbero attentati e sommosse presto sedate e dove Carlo Pisacane, tornatogli amico in quella contingenza, si recò nel giugno 1857 con poche centinaia di uomini per sollevare la rivoluzione. Ma anche questo tentativo fallì. L’iniziativa risorgimentale stava ormai passando nelle mani di Cavour e Mazzini dovette assistere così non solo al fallimento dei suoi ideali politici, ma anche al doloroso abbandono di alcuni dei suoi seguaci di un tempo, passati nelle fila dei moderati. Quando Garibaldi nel 1860 arrivò vittorioso a Napoli dalla Sicilia, Mazzini lo raggiunse e, per scongiurare l’annessione al Regno di Sardegna mediante plebiscito, lanciò la proposta di una costituente italiana, ma l’idea non ebbe attuazione. Si giungeva così alla proclamazione dell’unità italiana sotto la monarchia sabauda, cioè con una formula che Mazzini aveva sempre avversato; eppure è giusto dire che senza la sua disperata volontà rivoluzionaria, senza la sua passione unitaria, vissuta in tempi in cui era follia sperare, ben difficilmente si sarebbe giunti a quel risultato; Mazzini aveva, in verità, lavorato anche per coloro che militavano su posizioni diverse dalle sue e che allora raccoglievano anche il frutto della sua opera trentennale. Dopo la proclamazione dell’unità, l’attività di Mazzini si rivolse prevalentemente all’organizzazione del mondo del lavoro. La sua dottrina sociale è contenuta soprattutto nel libro I doveri dell’uomo (1860) e rifiuta le teorie comuniste e anarchiche della lotta di classe e della prevalenza del fattore economico, affermando l’armonia tra le classi, l’inviolabilità della proprietà derivante dal lavoro e la necessità che capitale e lavoro siano nelle stesse mani. Nei primissimi anni di vita del Regno d’Italia Mazzini proponeva alle classi lavoratrici in primo luogo l’urgenza delle lotte politiche, che dovevano ancora portare da una parte alla liberazione del Veneto e di Roma e dall’altra alla conquista di più ampie libertà all’interno e di un più vasto suffragio. Fin dal 1861 aveva fondato a Firenze la Fratellanza operaia, ma anche la sua influenza nel mondo del lavoro non riuscì a essere determinante per il prevalere delle correnti socialiste in Europa e in Italia. A queste Mazzini fu sempre risolutamente ostile, sicché quando tentò di far approvare il suo progetto di statuto per la I Internazionale che si costituiva a Londra nel 1864, Marx stesso si adoperò con tutta la sua abilità perché esso venisse rielaborato fino a divenire irriconoscibile. Né Mazzini mutò opinione in occasione della Comune parigina del 1871, contro la quale pronunciò un’aspra condanna. Nel 1870 compì un estremo tentativo per una soluzione repubblicana della questione romana, ma venne arrestato e rinchiuso nel forte di Gaeta. Amnistiato in seguito alla liberazione di Roma del 20 settembre, andò in Svizzera e rientrò presto in Italia sotto il falso nome di dottor Brown per stabilirsi in casa Nathan Rosselli a Pisa, dove morì.