Come sono fatte le lingue?
Come sono fatte le lingue?
“Come mi vesto?” Molti di noi si pongono chi sa quante volte questa domanda davanti al proprio guardaroba. O forse dovremmo dire che questo dubbio riguarda molte di noi, se è vero che, almeno fino ad anni recenti, la moda è stata soprattutto un problema di donne. Eppure la possibilità di scelta fra diversi modi di vestire non è strettamente legata alla funzione primaria dell’abbigliamento, che è quella di coprire e proteggere il corpo. Se fosse dominante questo bisogno elementare tutti, maschi e femmine, giovani e vecchi ecc., dovremmo vestirci allo stesso modo; e in certi luoghi, o in certe epoche, è proprio quello che si verifica. Nell’Iran degli Ayatollah l’abito – e soprattutto il velo nero – sono una scelta obbligata per la donna che deve uscire di casa. Nella Cina maoista anche i più alti funzionari dello stato si adeguavano all’austero abito del loro leader; eppure i rotocalchi e le immagini tradizionali ci avevano abituati, non molti anni prima, al modo di vestire raffinato e sempre alla moda di Farah Diba, o alle fastose vesti degli imperscrutabili mandarini.
La varietà dei modi di vestire è allora un fenomeno essenzialmente culturale che cambia da luogo a luogo, da epoca a epoca ed anche da persona a persona, manifestando una libertà praticamente illimitata, quella che è possibile riconoscere andando in giro per le strade delle città. Naturalmente a questa libertà è posto un limite minimo dall’esigenza di tener conto della struttura complessiva del corpo e dei suoi movimenti essenziali.
La stessa (quasi) totale libertà sembra valere per le lingue che si parlano o si sono parlate nel mondo. Le lingue sono appunto molto diverse nei loro “abiti” fonetici, morfologici, sintattici; eppure tutte quante vestono un “corpo” (la lingua) che è sempre lo stesso. Questo dipende dal fatto che le lingue sono sistemi di segni totalmente arbitrari, in cui il rapporto fra significante e significato, ma anche gli stessi rapporti sintagmatici e paradigmatici fra i segni, sono frutto di convenzioni sociali lungamente stratificate nel tempo e soggette anche a una grande variabilità nello spazio.
Se il ritratto di Dante con berretta e tonacone è molto diverso da quello di Alberto Moravia in maniche di camicia (convenzione della moda), il confronto dei loro italiani rivela esso pure una diversità notevolissima (convenzione della lingua); e il modo di parlare di un operaio lombardo non potrebbe essere confuso con quello di un pescatore siciliano. La lingua tuttavia non varia soltanto nel tempo e nello spazio, ma anche in rapporto alle classi sociali, o – nel caso di una stessa persona – in rapporto alla situazione comunicativa. La varietà linguistica assomiglia dunque straordinariamente a quella dei modi di vestire: il come mi vesto? non significa infatti che una scelta, una volta fatta, valga per sempre. Ci si può cambiare d’abito anche più volte nella stessa giornata, o decidere di indossare solo e sempre la divisa: e tutto questo dipende in ogni caso da una convenzione di cui si è più o meno consapevoli.
Il linguista contemporaneo Eugenio Coseriu ha indicato, accanto alla varietà linguistica diacronica (= attraverso il tempo), altri tre tipi di varietà :
- la varietà diatopica (= attraverso lo spazio), cioè quella che si manifesta nella differenza fra le lingue e, all’interno delle lingue, fra i dialetti (milanese, veneziano ecc.);
- la varietà diastratica (= attraverso gli strati sociali), che si rivela in una stessa lingua nel diverso modo di parlare delle persone in relazione alla loro condizione sociale (gerghi studenteschi, linguaggi tecnici ecc.)
- la varietà diafasica (= attraverso le modalità espressive), cioè quella che è connessa, anche nella stessa persona, alla scelta di un diverso registro (familiare, solenne, burocratico ecc.)
Il grande Totò è stato un vero maestro nella capacità di coniugare queste tre forme di varietà, usando il suo napoletano con modulazioni diastratiche e diafasiche in rapporto alla caratterizzazione del personaggio. La grande varietà delle manifestazioni non mette tuttavia in crisi l’identità di una lingua: Dante, Moravia, l’operaio milanese e il pescatore siciliano, lo studente e l’intellettuale e infine il pirotecnico Totò parlano tutti in italiano, in quanto manifestano tutti certe costanti linguistiche che sono proprie di questa lingua storica.
Le lingue storiche non sono tuttavia paragonabili alle specie animali e vegetali, in cui l’identità è un fatto naturale (un visone non può cambiare pelliccia; un albero, tutte le primavere si copre delle stesse foglie) e la cui classificazione e descrizione si fondano su dati oggettivi e costanti. Invece la possibilità di identificazione e di descrizione delle lingue storiche deve fondarsi sul loro carattere arbitrario e variabile, poiché le lingue non sono entità naturali, ma culturali. Il linguista storico dovrà perciò considerare come pertinenti una serie di tratti caratteristici, capaci di rendere riconoscibile, anzi inconfondibile, una certa lingua, nelle sue molteplici manifestazioni, in mezzo al grande coro delle lingue diverse.
Si tratterà in un certo senso di costruirne la carta d’identità.
Il modello della carta d’identità ci può utilmente accompagnare nell’esposizione dei metodi e dei problemi della linguistica storica. Vedremo che l’identificazione di una lingua nella sua realtà storica, geografica, contestuale è il risultato di un’inchiesta, a volte molto complessa, ma che prevede alcune tappe fondamentali.
La prima tappa, che corrisponde al livello descrittivo più alto, assegna una determinata lingua storica ad un tipo, facendo riferimento a caratteri molto generali che accomunano grandi gruppi di lingue e li distinguono da altri, più o meno come quando, nell’identificazione di una persona, si fa riferimento alla “razza” o alla “religione” professata, cioè a caratteri sovranazionali. Naturalmente i tipi linguistici non hanno niente a che vedere con la razza o con la religione dei parlanti, anche se talora corrispondono ad aree geografiche sufficientemente definite ed abitate da popolazioni omogenee fisicamente e culturalmente.
La tipologia può riconoscere come pertinenti tratti diversi della struttura linguistica. Sul piano morfologico, ad esempio, esiste una tripartizione classica con vari aggiustamenti, che distingue le lingue, in base alla forma delle parole, in isolanti, agglutinanti e flessive. Le lingue isolanti (ad esempio il cinese ed altre lingue dell’Estremo Oriente) si servono di parole invariabili le cui funzioni grammaticali sono date principalmente dalla loro posizione nella frase: [io] + [presto] + [venire] = “io verrò”. Le lingue agglutinanti (ad esempio il turco o l’ungherese) usano parole consistenti nell’accostamento di modelli che possono comparire anche da soli, di cui uno indica il valore lessicale di base, l’altro, o gli altri, le specificazioni grammaticali: [giardino+ plurale + dentro] = “nei giardini”. Le lingue flessive, infine (l’italiano e la maggior parte delle lingue europee appartengono a questo tipo), modificano soprattutto la parte finale delle parole per indicare una variazione semantica o grammaticale: [om-etto], [om-accio] = “piccolo uomo”, “uomo cattivo”; [am-o], [am-erò], [am-aste] = “faccio questo nel presente”, “nel futuro”, “lo faceste voi”.
Un altro piano importante di indagine tipologica è quello sintattico: ci sono lingue in cui il soggetto deve precedere sempre il verbo, e questo l’oggetto (struttura SVO), altre in cui il verbo occupa sempre l’ultimo posto, tendenzialmente preceduto dall’oggetto (SOV). Al primo tipo appartiene tendenzialmente l’italiano moderno, al secondo il latino classico. Naturalmente, come si capisce da quest’ultimo esempio, il tipo linguistico non è qualcosa di immutabile: l’italiano, con il suo ordine basico SVO ha modificato quello del latino pur essendone la continuazione diretta.
Nelle carte di identità che tutti conosciamo manca l’indicazione della razza e della religione, e questa è una conquista della moderna democrazia. Quindi il primo dato ritenuto pertinente per identificare una persona è il suo cognome, con cui si fa riferimento ad una famiglia di appartenenza, di cui la persona è eventualmente l’unico rappresentante (anche se questo è un caso tutto sommato abbastanza raro). Allo stesso modo il linguista storico che si sta occupando di una lingua particolare la identifica innanzi tutto all’interno di un gruppo. Non si tratta di un fatto banale, perché l’appartenenza di una lingua ad una famiglia si basa su una serie a volte molto vasta di somiglianze che la legano ad altre lingue, tale da non poter essere casuale. Queste somiglianze riguardano contemporaneamente il significante ed il significato. Facciamo un esempio: l’italiano annegare, il francese noyer, il catalano, spagnolo e portoghese anegar, il romeno îneca, tutti col valore semantico “annegare”, hanno un’evidente “aria di famiglia”: tuttavia una considerazione storica chiarirà meglio le modalità di questa somiglianza. Sul piano del significante il confronto delle voci neolatine con il latino necare metterà in evidenza una corrispondenza regolare di suoni: ad esempio l’occlusiva velare sorda latina /k/ (scritta c) è resa in italiano, provenzale, catalano, spagnolo e portoghese con la corrispondente occlusiva sonora /g/, mentre il francese si è ulteriormente discostato, facendo scomparire anche il tratto di occlusività. Al lato opposto sta il romeno che conserva la situazione latina. Questa corrispondenza fonetica non è peculiare di questa parola, ma ritorna con notevole regolarità tutte le volte che si presenta lo stesso suono latino (qui /k/ in posizione intervocalica). Per questi fenomeni è stata coniata l’espressione legge fonetica: le leggi fonetiche sono uno strumento indispensabile per accertare l’appartenenza di una lingua ad una famiglia. Anche l’analisi del significato permetterà di chiarire i rapporti reciproci fra lingue imparentate. Di fronte alla corrispondenza regolare “annegare” rispetto al latino classico “uccidere”, non si potrà pensare che questa innovazione semantica si sia verificata in modo parallelo ed indipendente in ciascuna lingua – questo è altamente improbabile – ma la si farà risalire ad una loro fase comune, cioè ad una fase tarda della lingua latina, precedente la separazione delle lingue neolatine come realtà autonome. I linguisti si servono dell’espressione lingua madre per indicare la fase comune alla quale si può risalire partendo dalle lingue storiche, e rappresentano i rapporti fra lingue madri e lingue figlie mediante un vero e proprio albero genealogico:
latino classico necare “uccidere”
L’albero genealogico che abbiamo tracciato riguarda un’epoca storica (fine dell’impero romano d’Occidente e sorgere delle lingue neolatine), ma la comparazione fra le lingue permette di ricostruire anche alberi genealogici preistorici, che inglobano un numero di lingue assai maggiore.
Il latino, lingua madre dell’italiano e delle sue sorelle, si rivela in questa prospettiva sorella di molte altre lingue dell’Europa e dell’Asia, ed entra a far parte di una famiglia che ha una lingua madre preistorica, il cosiddetto indeuropeo. Com’era questa lingua? Come si fa a darle un volto, sia pure sommario, dal momento che la sua esistenza è indotta unicamente dalla comparazione fra le lingue figlie e che non ne resta alcun documento? Si procede alla sua ricostruzione, come quando si riesce a riconoscere un nonno comune a partire da quel tanto di simile che appare nelle fisionomie dei suoi nipoti.
Prendiamo alcune parole di lingue indeuropee: il nome della “pecora” è in irlandese ōi, in latino ovis, in tedesco antico ouwi, in greco ois, in lituano avìs, in armeno hov, in antico slavo ovĭca, in sanscrito (lingua antica dell’India) avis. La comparazione porta a ricostruire una parola indeuropea OWI-. L’attività del “filare” è testimoniata invece da irlandese snīid, latino neo, tedesco antico nāan (propriamente “cucire”), greco nē (“egli fila”) e sanscrito snāyu- (“filo”). La ricostruzione porta ad una forma (S)NEI-.
Si può intuire che il linguista storico trarrà da questi confronti anche conseguenze che superano l’aspetto propriamente linguistico. Se è esistita una lingua indeuropea, il popolo che la parlava doveva necessariamente praticare l’allevamento delle pecore e la tecnica della filatura. Questo ultimo tipo di ricerca porta a numerose scoperte che non sarebbero possibili in altro modo, e va sotto il nome di paleontologia linguistica.
Insomma, il “cognome” di una lingua, nella carta di identità che stiamo tracciando, ci dice molto non solo su di essa, ma anche sulla sua famiglia e perfino sui suoi antenati, come succede, in fondo, con opportune indagini anche per i cognomi delle persone.
Passiamo ora al nome: qui si tratta di capire che cosa fa sì che Giuseppe (Rossi) sia diverso da suo fratello Giovanni, cioè che cosa rende una lingua storica un individuo particolare. Perché l’italiano, che è una lingua neolatina, cioè sorella del francese, è così diverso da questo? La risposta sta tutta nella storia di queste due lingue, nei loro diversi data e luogo di nascita ed anche, in misura non piccola, nei loro “incontri particolari”. Soffermiamoci su quest’ultimo punto: coloro che parlavano il latino, già in epoca antica in Italia e nella Gallia (la Francia attuale) avevano, o avevano avuto, rapporti con popolazioni che parlavano lingue assai diverse, in situazioni non paragonabili. La lingua di Roma si era diffusa in Italia tra lingue piuttosto simili (il venetico, l’antico umbro, l’osco dell’Italia centro-meridionale), e in una situazione culturale profondamente omogenea. Nell’antica Gallia, invece, il latino dovette venire “a patti” con una lingua che, per quanto indeuropea anch’essa, era assai diversa (il gallico o celtico continentale), e in una situazione culturale decisamente “altra” rispetto a quella di Roma e dell’Italia. Queste diverse circostanze furono fonte di differenziazioni linguistiche; esse rappresentano almeno in parte le cause storiche che spiegano la diversa identità delle due lingue sorelle. Il mondo gallico sopravvive ad esempio nella scelta di designare la “culla” con il termine berceau, che è di origine celtica, e che si riferisce ad un cesto di vimini intrecciati, mentre in Italia si continua ad usare, attraverso il termine culla, il latino cunula che indicava un oggetto di legno concavo.
La storia di una lingua è dunque fatta di incontri, a volte molto antichi, a volte più recenti. Alla fine dell’impero romano il mondo latino fu, come si sa, investito da invasioni soprattutto da parte di popolazioni parlanti lingue germaniche (anch’esse dunque indeuropee). L’antica Gallia transalpina cambiò addirittura il nome diventando Francia (= terra dei Franchi), la Gallia cisalpina diventò almeno in parte la terra dei Longobardi (Lombardia). L’incontro con gli invasori immise nelle lingue neolatine una serie di termini germanici, tra cui un altro nome della “culla”, zana, voce usata in Toscana che si confronta con il tedesco antico zeina “cesta”.
Continuando ad immaginare la carta d’identità di una lingua siamo ora giunti alla data di nascita. Si tratta di un dato spesso inafferrabile, e d’altra parte non è nemmeno esatto dire: che una lingua “nasce” in un momento preciso, già bell’e fatta, come capitò a Minerva che uscì armata di tutto punto dal cervello di Giove.
È meglio parlare di una lunga fase di ininterrotto processo di formazione e immaginare le lingue storiche come anelli di una catena di cui non è possibile scorgere l’origine remota. Ci sono tuttavia alcuni espedienti per saperne qualcosa di più. Possiamo per esempio stabilire, confrontando due lingue sorelle, quale è più “vecchia” e quale più “giovane” (o piuttosto quale sembra più all’antica e quale ha caratteri più moderni). Se mettiamo in confronto il sardo e il toscano vediamo come il primo conservi parole del latino classico che il secondo ha perduto e sostituito con termini più moderni. I sardi dicono cras (lat. cras) per dire “domani”, edu (lat. haedus) per dire “capretto”, gianna (lat. ianua) per dire “porta”, orriu (lat. horreum) per dire “granaio”. In questo senso il sardo è più arcaico del toscano che ha rinnovato il proprio “abito” linguistico insieme ad altre lingue neolatine (si pensi al francese demain, chevreau, porte, grenier).
Un altro metodo per l’individuazione della data di nascita di una lingua è quello della cosiddetta glottocronologia. Questo tipo di indagine ha come modello il criterio di datazione del materiale organico preistorico in base al tasso di degradazione del Carbonio 14.
Ora, la data di nascita, cioè il distacco dallo “stipite”, sarà calcolata in rapporto al grado di conservazione del cosiddetto vocabolario di base, costituito da 100 parole che esprimono concetti fondamentali (quali: pronomi, definizioni di grandezza, numerali, parti del corpo, attività varie, colori e anche… “cane” e “pidocchio”, entrambi fedeli amici dell’uomo da tempo immemorabile). Si ritiene che questo tipo di lessico abbia un tasso di degradazione del 14% in mille anni: pertanto una lingua che ne avesse conservato solo il 40% dovrebbe essersi separata dalla lingua madre da circa tremila anni… La glottocronologia è poco più che una curiosità nello sforzo non sempre riuscito della linguistica di risalire nella preistoria: essa testimonia tuttavia l’impegno di oggettivare al massimo i criteri di valutazione, modellandoli su quelli in uso nelle scienze naturali.
Nella distinzione tradizionale fra preistoria e storia l’inizio di quest’ultima viene fatto coincidere con le prime documentazioni scritte delle lingue. Per una lingua storica, tuttavia, la prima documentazione scritta non coincide con la data di nascita, ma piuttosto con quella che un tempo era la “presentazione in società”. Ci sono lingue che, per i tratti assai arcaici che conservano, sono ancora molto simili alla lingua madre ricostruita, eppure i loro primi documenti scritti possono risalire ad epoche anche recenti. È il caso del lituano, fra le lingue baltiche, i cui testi più antichi risalgono a non più di 500 anni fa.
Dopo la data di nascita, la carta di identità prevede che siano indicati il luogo di nascita, la cittadinanza e la residenza. Se applichiamo questi parametri anagrafici alle lingue storiche scopriamo che il “luogo di nascita” risulta per lo più ignoto, nel caso di lingue parlate nell’antichità. Questo dipende dal fatto che non si conosce l’origine o la provenienza del popolo di cui sono espressione: il “mistero” della lingua etrusca, ad esempio, si sovrappone e si confonde con quello delle origini etrusche. Ma anche riguardo ai Latini, che parlavano appunto una lingua indeuropea, ci si può chiedere da dove esattamente fossero giunti sui colli “fatali” di Roma.
Le cose vanno molto meglio quando ci si occupa di lingue moderne: il francese moderno è di fatto il parigino, in quanto la capitale funziona come modello – anche linguistico – per tutta la Francia. Tutti sanno che l’italiano è nato a Firenze e che ha avuto come padrini di battesimo Dante, Petrarca e Boccaccio. Infine il tedesco non ha un preciso luogo di nascita, ma sicuramente un padrino autorevole (Lutero, che appunto tradusse in tedesco la Bibbia), il quale dichiarava di non avere un suo proprio dialetto, ma di parlare la lingua della Cancelleria sassone.
Se torniamo di nuovo un po’ indietro nel tempo ci rendiamo conto che il latino, in quanto lingua letteraria per eccellenza, nasce come lingua di Roma e all’origine ha fratelli in altri centri del Lazio (il lanuvino, il prenestino ecc.) che, come successe a Remo rispetto a Romolo, hanno avuto ben diversa fortuna.
La “cittadinanza” di una lingua è un fatto culturale di tipo un po’ diverso, cioè è qualcosa che si può acquisire purché si accetti di condividere norme e consuetudini del paese in cui si sceglie di vivere.
L’etrusco, lingua tanto diversa dalle altre dell’Italia antica, ha in comune con queste l’uso dell’alfabeto greco, e soprattutto una serie di termini culturali che sono di origine greca (nomi di divinità, parole tecniche come thina = latino tina, entrambi dal greco dînos “vaso”, oppure vinm = latino vinum, entrambi dal greco (v)oinos “vino” ). In epoca moderna un caso analogo è quello del finlandese e dell’ungherese che hanno assunto cittadinanza europea, pur essendo lingue di origine asiatica, diverse anche tipologicamente dalle lingue con cui convivono. Esse condividono infatti con le altre lingue dell’Europa un grandissimo numero di parole, e ne hanno in parte acquisito anche alcuni modelli grammaticali, stemperando il loro originario carattere agglutinante.
La “residenza” ci porta nel cuore dell’indagine della geografia linguistica. Si potrebbe credere che 1’ “indirizzo” del francese sia soltanto Parigi, ma questo vale esclusivamente per la lingua letteraria. In realtà le lingue storiche vivono nella dimensione che Coseriu ha chiamato diatopica. Un grande linguista svizzero, vissuto fra l’Ottocento e il Novecento, Jules Gilliéron, ebbe l’idea di documentare, mediante un questionario fatto circolare per tutta la Francia, la grande varietà con cui i parlanti (vivi, reali) esprimevano concetti comuni o formulavano frasi elementari. I dati raccolti furono riportati in un gigantesco atlante linguistico, in cui ogni carta riproduceva le risposte ad una particolare domanda dell’inchiesta. In questo modo si coprì la grande varietà del francese parlato (nella sola zona dei Pirenei si individuano almeno 12 modi diversi per denominare il “gallo”!). La dialettologia dopo Gilliéron si è profondamente rinnovata: oggi nessuno concepisce più il dialetto come deviazione e degenerazione della lingua ufficiale, ma vede i fatti dialettali (pronunce, termini speciali, modi di dire) come realtà preziose, da raccogliere e da studiare in modo autonomo. Il dialettologo non si contenta più di avere una notizia complessiva sul “luogo di residenza” di un dialetto (Lombardia, Veneto, oppure Roma, Napoli, Milano): munito di registratore egli va a caccia (di paese in paese, e se necessario di quartiere in quartiere, percorrendo vicoli o raggiungendo frazioni sperdute) di queste realtà che sembrano dileguare sotto la spinta livellatrice dei mezzi di comunicazione di massa.
Gli intervistati – tradizionalmente – sono le persone anziane, ed in questo si scorge un fenomeno di abbandono progressivo del dialetto. Tuttavia oggi si assiste a un’inversione di tendenza, col riaffermarsi del dialetto nelle generazioni nuove, soprattutto di area metropolitana, magari in forme un po’ snobistiche ed artificiose. Si tratta di un fenomeno sociale la cui portata non è ancora calcolabile. Esso tuttavia ci fa riflettere sul fatto che la varietà linguistica, anche se appare in forma diatopica, può essere manifestazione di una differenza diastratica.
Con questa considerazione siamo giunti, nella nostra carta d’identità, allo stato civile e professione, cioè alla condizione sociale dell’individuo-lingua. In quest’ottica la propensione per il dialetto dei giovani e giovanissimi (“celibi” o “nubili”!) può apparire come volontà, più o meno consapevole, di contrapporsi alle scelte linguistiche dei genitori (“coniugati”!).
Questi infatti si sono trovati a vivere in un’epoca in cui il dialetto era praticamente “tabuizzato” – come lo sporco della tovaglia nella pubblicità dei detersivi – se si voleva raggiungere un certo status sociale, o almeno tentare di identificarvisi. L’uso del dialetto nei giovani delle grandi città è insieme segno di libertà e di incertezza nei riguardi di un futuro che non appare più scontato, o canonico come la lingua letteraria.
La professione del “paninaro”, poi, ha oggi un suo preciso e terrificante codice linguistico, cui alcuni si conformano in modo quasi nevrotico. Forse il modello inconscio di questi giovani, per lo più di livello sociale medio-alto, è il linguaggio del salotto o dell’ufficio dei loro genitori che essi tendono in questo modo ad esorcizzare. In effetti in molti casi le professioni impongono un modo di parlare molto tecnico, denso di usi metaforici: pensate al linguaggio settoriale dei medici, degli avvocati, dei critici d’arte, che non tutti capiamo immediatamente. “Presidente, sollevo un’eccezione” non significa che si sia alzata da terra un’irregolarità grammaticale, ma più semplicemente che si obietta qualcosa. Con “il quadro clinico è soddisfacente” non ci si riferisce all’opera di un pittore di buona volontà, ma si vuoi dire che il malato sta abbastanza bene. E “una cifra autonoma ed inconfondibile” non rimanda necessariamente al numero dell’autobus che prendiamo ogni mattina, o alle iniziali che abbiamo ricamate al fazzoletto, ma può riferirsi al modo particolare di dipingere di un artista.
Queste varietà diastratiche del linguaggio (senza che gli strati siano fissi e definiti una volta per tutte) sono prese in considerazione dalla sociolinguistica che studia, in modo “pendolare”, la lingua dal punto di vista della società e la società dal punto di vista della lingua.
L’etnolinguistica, invece, su un piano più generale, studia i parallelismi fra fatti linguistici e fatti culturali che riguardano un intero popolo. Un concetto apparentemente naturale come quello di “dieci” (si pensi alle dita di due mani) in hopi – una delle lingue indigene dell’America settentrionale – è linguisticamente espresso in modo diverso se si tratta di “dieci uomini” o di “dieci giorni”. In questo secondo caso per dire restarono dieci giorni si deve dire restarono fino all’undicesimo giorno. Il caso della lingua hopi è stato segnalato dal linguista americano Benjamin L. Whorf, che era anche etnologo e che abbiamo già incontrato parlando dei rapporti fra lingua e pensiero. Ma non è un caso così bizzarro, se si pensa che il concetto puramente relazionale “domani” espresso nel latino classico cras fu rimotivato nel latino tardo mediante l’espressione de mane cioè “al mattino (del giorno dopo)”, anche in questo caso con riferimento ad un periodo di tempo compiuto.
Queste peculiarità delle lingue, che fanno tutt’uno con la cultura, rappresentano alcuni fra i connotati e contrassegni salienti di cui deve tener conto la nostra carta d’identità.
Certo la fisionomia di una lingua storica è qualcosa di estremamente complesso, e sarebbe difficile scegliere con sicurezza i parametri oggettivi per la sua identificazione, quelli cioè che corrispondono alla statura, colore degli occhi o dei capelli ecc. della persona umana. Ad esempio le leggi fonetiche, cioè quelle evoluzioni regolari di suoni attraverso il tempo che hanno differenziato progressivamente ogni lingua storica dalla madre e dalle sorelle, sono indubbiamente essenziali per descrivere ed identificare una lingua dal punto di vista della sua manifestazione esteriore (la fonetica di una lingua corrisponderebbe in tal senso alla “carnagione”?). Altri parametri di identificazione sono poi contenuti nelle grammatiche e nei dizionari: sono anzi questi i repertori canonici dei connotati e dei contrassegni salienti, in quanto programmaticamente ci dicono come una lingua è o come si pensa che debba essere di norma. Questo spiega perché a tutti capiti di ricorrervi, quando la competenza sovrana che Chomsky attribuisce al parlante nativo vacilla tarlata dal dubbio. Ma il “come si dice”, se ci consola nel momento dell’incertezza, non ci risolve il problema del perché si dice in un certo modo, né ci assicura che la forma errata non diventi un giorno quella imperante e sia accolta nelle grammatiche e nei dizionari del futuro.
Le grammatiche storiche e i dizionari etimologici ci mostrano ad esempio l’insperata fortuna dei reietti di un tempo. In fondo alla grammatica di Probo (il top del come si dice del latino classico) un ignoto maestro del III secolo d.C. si preoccupò di registrare una serie di parole corrette con accanto gli “errori” da evitare (il testo è giunto fino a noi ed è noto come Appendix Probi). “columna, non colomna”, “lancea non lancia” “auris non oricla”, “aqua non acqua”, “auctor non autor” si ripeteva, disperato, il maestro, ma se pensiamo alle parole italiane colonna, lancia, orecchia, acqua, autore, ci accorgiamo che gli errori sono divenuti la norma.
Ci rendiamo conto così che le grammatiche e i vocabolari hanno una storia tutta particolare e che la carta di identità di una lingua, in questo specifico punto, impone la necessità di continui aggiornamenti. I capelli neri possono diventare bianchi e magari cadere del tutto, la statura varierà (si cresce e si decresce), ma è pur vero che gli occhi restano sempre quelli e che i segni particolari, quando ci sono, rappresentano elementi di individualità inconfondibili…
Abbiamo cambiato pagina: nella nostra carta d’identità abbiamo ora davanti la fotografia, la firma e la data di riferimento per questi due dati. Siamo cioè arrivati a qualcosa che non è riducibile ad una categoria, né può essere contenuto in un repertorio, sia pur vasto, ma che ci presenta l’individuo (per noi la lingua) nelle sue manifestazioni uniche ed irripetibili. Cos’è la “fotografia” di una lingua, cos’è la sua “firma”? In che cosa essa si manifesta in modo non più descrivibile mediante il ricorso a grammatiche e dizionari?
Una lingua è in questa condizione quando si “visualizza” nei testi letterari per opera di singoli individui. I testi letterari delle diverse epoche e dei diversi autori (il riferimento cronologico è necessario come necessaria è la data sotto la fotografia e la firma) impongono al linguista di lavorare con nuovi strumenti al fine di non confondere le epoche, le opere, gli autori. Il linguista diventa filologo, sa riconoscere la lingua letteraria di un certo periodo e di un certo genere, ma sa anche individuare fra i tanti sonetti del Trecento quelli che si possono sicuramente attribuire al Petrarca. La linguistica testuale può permettere di riconoscere, mediante l’individuazione di parametri pertinenti, il mutare della lingua di un autore attraverso il tempo. Attribuzione e datazione, che sembrano compiti esclusivi della critica d’arte, diventano così prerogativa anche del linguista. Come in un quadro a tal fine contano i particolari (modo tipico di dipingere l’occhio, l’orecchio, le dita delle mani ecc.), così per la datazione o l’attribuzione di un testo possono contare i particolari linguistici anche minimi (predilezione per certe parole, ma anche uso di particolari congiunzioni o particelle).
La storia di una lingua letteraria, in fondo, è un archivio ben ordinato di carte d’identità, con particolare attenzione, ovviamente, per le firme illustri e le fotografie meglio riuscite di ben noti personaggi. Tuttavia il compito del linguista-filologo diventa naturalmente impossibile nel caso deprecabile che andasse smarrita quella che abbiamo descritto come prima pagina della carta d’identità. Il così detto mistero dell’etrusco consiste proprio nel fatto che disponiamo di decine di migliaia di testi – anche se per lo più brevi e ripetitivi -, ma tutte queste “fotografie” non sono confortate da conoscenze sicure sulla grammatica e sul vocabolario, in quanto abbiamo perso del tutto le tracce della famiglia linguistica dell’etrusco, cioè di quelle lingue sorelle che tanto ci aiuterebbero a capire che cosa nasconde il suo volto enigmatico.
Siamo alla fine: l’ufficiale di stato civile, cioè l’autore della carta d’identità che si dichiara e si forma in fondo, è, come si capisce facilmente, il linguista. Naturalmente non più quello interessato agli aspetti teorici che – vi ricorderete – era affannato a disegnare, smontare, animare “la lingua” senza aggettivi e senza identità. Si tratta invece del linguista storico, che realizza grammatiche e dizionari, svolge inchieste sociolinguistiche e dialettali, pubblica atlanti linguistici, compara le lingue e si chiede come si sono formate, ricostruisce lingue madri.
Di tutte queste attività l’etimologia (che gli antichi concepivano come “ricerca del vero”) rappresenta uno straordinario momento di sintesi. È incredibile il numero di fattori di cui una buona etimologia deve tenere conto: tutta la carta d’identità serve in ogni suo aspetto.
Esaminiamo un solo caso. Nel romeno esiste un verbo a pleca che, oltre al significato di “piegare” ha anche quello, inaspettato, di “partire”. Il confronto che si fa per primo è quello con le altre lingue della famiglia. Il romeno, infatti, pur essendo parlato nella penisola balcanica totalmente circondato da lingue slave, conserva inequivocabilmente il suo carattere di lingua neolatina. Ciò è dimostrato dal fatto che nelle lingue sorelle (francese, spagnolo, italiano ecc.) il verbo latino plicare è continuato da forme che, sul piano del significante, si accordano perfettamente col romeno: il confronto ci rivela infatti una regolarità fonetica (legge) che abbiamo già constatato nel caso dei derivati di lat. necare (/k/ intervocalico latino sonorizzato nelle altre lingue e conservato in romeno). Sul piano del significato emerge invece una divergenza, poiché tutte le altre lingue neolatine si sono mantenute fedeli al valore “piegare”: come spiegare, perciò, l’anomalia semantica del valore romeno “partire”? L’etimologia si serve a questo punto di una considerazione sociolinguistica: il latino parlato in Dacia (l’antica regione corrispondente alla Romania), era soprattutto quello delle legioni romane di stanza. Ora i soldati di ogni epoca hanno un loro gergo, una lingua speciale. Nel sermo castrensis (lingua dell’accampamento) plicare tentoria, cioè “piegare le tende” era l’espressione comune per indicare l’atto del levare l’accampamento, in pratica del “partire”.
Muovendoci da un fatto di vocabolario, cioè da a plica (connotato o contrassegno saliente), attraverso il riconoscimento della famiglia di appartenenza (cognome), ci siamo resi conto che il particolare posto del romeno in essa (nome) dipendeva dalla sua antica collocazione lontano da Roma, nella Dacia (luogo e data di nascita), e dal suo conseguente inserimento nell’ambiente linguistico slavo (cittadinanza). Questo però non ci avrebbe portato ancora all’etimologia se non avessimo aggiunto un altro tassello, il sermo castrensis dei militari romani (professione), trasformatisi in coloni permanenti (stato civile).
Tuttavia la vera e propria scoperta (la verità!) non si sarebbe potuta realizzare se non avessimo avuto il micro-testo plicare tentoria, cioè la “fotografia” formato tessera di questo antico evento linguistico.